Ecco la terza e ultima puntata del nuovo racconto “Il Trio” di Francesco Divenuto. Don Nicola suona il trombone, don Peppino il clarino. I due sono amici da molto tempo e abitano, insieme, in una strada della città vecchia… Il loro sogno è cercare un terzo elemento…
Ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Divenuto è autore, tra l’altro, di numerosi saggi su riviste specializzate e di un romanzo “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” (edizioni scientifiche italiane). Tra i racconti, pubblicati sul nostro portale, Variazioni Goldberg, Il bar di zio Peppe, Carmen e il professore, Il flacone verde (o Pietà per George), Lido d’Amore, Frinire, Primo novembre, Due di noi.
TERZA PUNTATA
Nicola e Peppino sapevano che in questo modo avrebbero allarmato gli amici sulla loro salute ciò nonostante avevano deciso di attendere almeno che il vento calmasse il suo rigore.
E all’improvviso, nel silenzio della strada, sentirono l’inconfondibile suono di un violino. Si guardarono stupiti e, senza parlare, restarono in ascolto. La musica non poteva provenire da una radio di qualcuno, pensarono o da qualche macchina che passava nella strada; ma ora tutto questo non aveva nessuna importanza ed aspettando che l’imprevisto concerto terminasse continuarono a guardarsi stupiti. La meraviglia era troppa ma anche il piacere per cui preferirono ascoltare, in silenzio, commossi. Ma la meraviglia era troppa.
– Ecco! Vedi come ha attaccato qui, in questo punto- disse Nicola.
– Oh! Hai sentito la delicatezza del vibrato- aggiunse Peppino.
– Aspetta, aspetta, ora arriva il crescendo, ascolta Peppino.
La delicatezza dei vibrati nei passaggi melodici così come i limpidi crescendi, svelavano che chi suonava non poteva essere un principiante.
– No, no sono sicuro, questo non può essere un dilettante– disse Nicola agitandosi per l’emozione- questo è un vero concertista; solo un musicista professionista può suonare questi crescendi senza stonature. Senti come tiene la nota; E poi da solo, senza un’orchestra che sostiene il passaggio melodico.
Poi, come era cominciato il concerto finì lasciando i due amici ancora un attimo disorientati senza sapere che cosa fare. Il violino, lo strumento che avevano tanto atteso, ora sembrava che fosse lì anche se non riuscivano a capire dove esattamente.
I due si guardarono ancora un momento e poi, senza parlare, si precipitarono per la strada; non potevano lasciarsi sfuggire questa occasione; e se, invece, la musica fosse stata trasmessa da qualcuno anche in questo caso dovevano sapere da chi, non potevano continuare, certo, a restare nel dubbio.
Nella strada, ancora spazzata dal vento, passava poca gente. Nicola e Peppino guardarono in tutte le direzioni; ma con rammarico non videro nessuno. Alzarono lo sguardo verso le finestre ed i balconi dei palazzi vicini ma, con quel freddo, non c’era nessun segno di vita. Scoraggiati decisero di rientrare convincendosi, ancora di più, che quella mattina non era il caso di uscire.
– Prego! Per favore! Aiutare me.-
Una voce! Certo, avevano sentito bene ed entrambi avanzarono in quella direzione. Nell’angolo, appena nascosto dalla rientranza di un muro, fermo, un uomo teneva lo strumento appoggiato al suo corpo quasi volesse proteggerlo dal freddo.
– Chi sei? Non sei di questa zona? Da dove vieni? Non sei napoletano? – Nicola incalzava con le domande perché non sapeva come comportarsi.
– Ma stai tremando?- aggiunse Peppino notando il leggero abbigliamento dell’uomo.
– Aspetta, vieni con noi, abitiamo qui vicino e puoi riscaldarti.-
– Prego! Signore! Io fame.- L’uomo parlava senza avere il coraggio di guardarli.
– Vieni! Vieni! Dissero insieme Nicola e Peppino facendogli segno di seguirli.
Appena entrati nella casa calda, l’uomo si guardò intorno e poi si lasciò cadere su una sedia dove rimase tremando ma senza abbandonare il suo strumento.
– Aspetta! disse Nicola mentre Peppino gli sorrideva per tranquillizzarlo.
In breve una calda tazza di latte e del pane con la marmellata, divennero agli occhi del poveraccio l’immediata salvezza da una situazione alquanto precaria.
I due amici lo guardavano mangiare senza interromperlo; si rendevano conto che, in quel momento, tutte le domande, che pure avrebbero voluto fare, sarebbero state inutili. Dalla voracità con la quale mangiava capirono che il povero uomo doveva essere veramente disperato. Occorreva aiutarlo e poi avrebbero cercato di capire; ma ora dovevano soltanto aiutarlo.
Con un sorriso Nicola aveva portato sul tavolo altre due tazze di caffè, nel tentativo di non mortificare quel povero disgraziato. Anche Peppino sorrise accomodandosi.
Dal suo aspetto, con il colore della pelle ed i neri capelli crespi, l’uomo poteva essere un magrebino o anche un abitante di un qualche paese del medio- oriente. Certo doveva venire da molto lontano. Forse un profugo, un extracomunitario, uno di quei disperati naufraghi che, quasi ogni giorno, sbarcano sulle nostre coste abbandonati da trafficanti senza scrupoli.
In realtà l’unico pensiero di Nicola e Peppino era un altro: questo sconosciuto era un musicista e di grande capacità. Ora l’uomo li guardava ma senza dire una parola. Forse non era abituato a quel gesto di solidarietà o forse, pensarono, è giunto da poco in città e, certo, non conosce molte parole.
I due amici non sapevano cosa dire. Come avrebbero potuto convincere quell’uomo a restare ancora? Come far capire il loro interesse di artisti oltre che umano? Dovevano sapere.
Dopo poco l’uomo si alzò. -Grazie,- disse, cercando l’uscita.
Nicola e Peppino si guardarono costernati. Non era pensabile lasciarlo andar via, dovevano trattenerlo, ma non sapevano come fare, che cosa aggiungere per farlo restare ancora un po’. Fuori era freddo, pensarono, come si può lasciarlo andar via?
A un tratto – Aspetta- disse Peppino e preso dalla custodia il suo clarino, cominciò a suonare. La stessa musica che, poco prima, avevano sentito, eseguita dal violino, riempì la stanza.
L’uomo si fermò interdetto preso dal desiderio di una sicurezza che ancora non intravedeva in quei due sconosciuti e dalla gioia del musicista felice di essere in compagnia di un altro musicista.
L’incertezza durò solo un attimo poi, ripreso il violino, accompagnò il clarino di Peppino mentre Nicola, commosso, restava seduto rapito da quell’insolito duo. Aspettava il momento per inserirsi anche lui con il suo strumento e poco dopo, con le incertezze di un trio appena formato, la musica scaturì dai tre strumenti.
Il freddo della giornata non invitava i passanti a fermarsi per ascoltare eppure più di uno, dal proprio balcone, guardò verso la casa di Nicola e Peppino. C’era qualcosa di differente nella musica dei loro amici ma non sapevano darsi una spiegazione; forse avrebbero chiesto dopo, ora si godevano quel concerto che spazzava via il grigiore di una mattina come tante.
Con un ultimo assolo del violino, il concerto terminò. I tre suonatori, ora, restarono seduti guardandosi senza dire una parola. A volte la realtà, per quanto sperata ed attesa a lungo, supera ogni aspettativa e ci lascia incapaci di affrontarla. Ma il silenzio durò poco; improvviso un singulto fu seguito da un pianto liberatorio che rigò le guance del violinista mentre Nicola e Peppino gli si stringevano intorno cercando di confortarlo.
La difficoltà della lingua suggerì di non parlare. Ora c’era tempo solo per la musica. Era evidente che potevano servirsi, appunto, dell’unica voce che avevano in comune: ossia la musica. E sorridendo i tre musicisti attaccarono sia pure non ancora consapevoli di aver ritrovato una loro inaspettata gioia di vita.
Senza necessità di inutili parole all’attacco di un brano, iniziato dal violino, seguiva il malinconico canto del clarino e le cupe note del trombone. Poi fu il clarino a suggerire lo spartito. Per buona parte del mattino l’improvvisata orchestra suonò sia pure con risultati non sempre accettabili. Ma questo era soltanto un problema di tempo; ora dovevano solo suonare, suonare ed ancora suonare.
Dopo avrebbero cercato di capire, dopo. Solo più tardi Nicola e Peppino avrebbero tentato di sapere qualcosa di più da quello sconosciuto. E solo dopo, infatti, avrebbero saputo la triste storia dell’uomo scappato dalla guerra e dalla miseria del suo paese portando con sé soltanto i poveri abiti che indossava ed il suo violino, cioè tutta la sua vita.
(3.fine)
PRIMA PUNTATA
Don Nicola suonava il trombone, don Peppino il clarino. I due erano amici da molto tempo e abitavano, insieme, in una strada della città vecchia. Antica dicevano loro nel tentativo di recuperare almeno parte dell’antico ruolo sociale. In realtà il mestiere, o meglio la professione, già li poneva in una situazione diversa, se non privilegiata, rispetto agli abitanti della strada. Per amicizia, ma soprattutto per le miti pretese, venivano ancora chiamati per rallegrare le feste, sia quelle private, come, ad esempio, un battesimo o un onomastico, sia quelle del quartiere, come l’inaugurazione di una nuova bottega oppure, una volta all’anno, durante la festa di Santa Lucia quando tutti gli abitanti contribuivano all’addobbo della cappella -unico “monumento” della strada- ed alle luminarie montate fra le facciate dei vecchi palazzi.
Il trombone e il clarino, ossia i loro strumenti, anche se tenuti con ogni cura, dimostravano tutta la loro anzianità: qualche tasto più duro alla pressione del dito, qualche nota più appannata; insomma, per dirla tutta, questi avevano ormai superato il punto di non ritorno oltre il quale potevano solo essere accantonati e conservati come ricordo di famiglia.
Il repertorio, organizzato proprio in funzione delle scarse possibilità degli strumenti, non era vastissimo. Eppure, ogni volta che suonavano riscuotevano grande successo. In realtà erano bravi a trasformare in situazioni comiche la ridotta qualità strumentale ormai evidente anche a chi non aveva nessuna dimestichezza con la musica.
Così, ad esempio, se il clarino accennava ad un motivo melodico, il trombone irrompeva, all’improvviso, riprendendo lo stesso motivo suonato però in una maniera assordante che metteva in ridicolo la musica già eseguita da don Peppino. Quest’ultimo fingeva rammarico ma in questo modo l’effetto comico era assicurato ed anzi sollecitato ed atteso da tutti i presenti. Insomma il duetto clarino-trombone otteneva, sia pure con le scarse possibilità sonore degli strumenti, o forse proprio per quelle, un risultato che accontentava le limitate pretese degli ascoltatori.
Da giovani, sia Nicola che Peppino, avevano suonato in alcune orchestre dei più famosi cafè-chantant della città ma anche fatto parte di orchestre con le quali avevano girato molto esibendosi, qualche volta, pure come solisti. Il concerto per trombone, di Rimsky Korsakov o quello di Nino Rota, ad esempio, era un pezzo la cui esecuzione dava a Nicola molta soddisfazione. Per Peppino, invece, non c’era concerto in cui il direttore d’orchestra non inserisse un assolo per lui.
Erano stati anni importanti per la carriera e anche per la loro vita privata. Avevano, infatti, sposato due cantanti e spesso, in quattro, si erano esibiti in alcuni teatri di provincia e presso importanti famiglie.
Anni nei quali avevano guadagnato molto; poi con la guerra e con l’età le loro scritture erano diminuite. Rimasti vedovi e senza figli, avevano unito i loro destini per motivi economici, certo, ma anche perché in questo modo la solitudine pesava meno.
Ma ormai tutto era diventato più difficile. Le nuove generazioni, infatti, preferivano strumenti di diffusione moderni che avevano reso inutile il loro contributo. Solo in qualche festa di paese veniva ancora richiesta la loro partecipazione soprattutto per le scarse pretese economiche.
Ciò nonostante non si lamentavano. La pensione e qualche risparmio bastavano per vivere e l’amicizia di tutti, nel quartiere, rendeva la loro vita meno triste.
L’esistenza di Nicola e Peppino, infatti, era tutta fra quelle strade popolari. Non erano poche le volte in cui si accontentavano di suonare per il solo piacere di fare musica. Quasi ogni giorno, seduti all’angolo della strada, suonavano per la gioia dei bambini ma anche degli adulti perché i motivi di svago, per questa povera gente, erano davvero pochi.
Nella vita della strada la loro presenza era diventata indispensabile. Le note si arrampicavano sulle mura scrostate delle vecchie case entrando, piano, nelle cucine calde del mattino.
(1.continua)
SECONDA PUNTATA
Si potrebbe dire, senza temere di esagerare, che la loro musica scandiva i tempi della giornata. E quando attaccavano con la sinfonia della “Gazza ladra” i ragazzi capivano che era giunto il momento di correre per non ritardare l’ingresso a scuola, mentre i negozianti aprivano bottega e tutti gli altri, se si erano fermati per ascoltare la musica, dopo sapevano di doversi affrettare per riprendere il tempo perduto.
Una volta che i vigili volevano multarli intimando loro di andar via, vi era stata una vera e propria rivolta popolare. Poi tutto era stato chiarito. I vigili assicurarono che sarebbero intervenuti solo in caso di denunzia per schiamazzo pubblico cosa che, naturalmente, non era mai avvenuto e mai sarebbe successo.
Secondo la versione ufficiale dei tutori dell’ordine, Nicola e Peppino erano solo due musicisti che per esercitarsi avevano scelto la pubblica via dove non commettevano alcun reato visto, inoltre, che per la loro esibizione non chiedevano una retribuzione.
Dopo il concerto, spesso, qualcuno li invitava nella vicina salumeria dove, da qualche tempo, preparavano anche cibi cotti anche se, in realtà, come abbiamo detto, problemi economici non ne avevano. E dopo l’episodio dei vigili la vita dei due vecchi musicisti era continuata tranquilla sia pure venata di malinconia per l’assoluta mancanza di novità nella loro esistenza. Ma in fondo ai due amici andava bene così.
Certo l’età, ormai avanzata, presentava piccoli ma non per questo meno incresciosi inconvenienti; così, specialmente d’inverno, qualche acciacco suggeriva di restare a casa e, quella rara volta, c’era sempre qualcuno che si informava se avessero avuto bisogno di qualcosa. Insomma niente nelle loro giornate lasciava prevedere cambiamenti o rimpianti.
In realtà Nicola e Peppino, però, un loro sogno segreto l’avevano: quello di suonare, almeno per un’ultima volta, una pagina di musica classica così come era stata scritta dal suo autore ossia tenere un vero concerto. Insomma volevano che nella strada, anche i meno istruiti -il che voleva dire la maggior parte degli abitanti – potessero apprezzare le loro capacità di musicisti come erano stati un tempo quando erano applauditi da platee a volte anche molto esigenti.
Perché questo loro desiderio potesse avverarsi però le difficoltà non erano poche. In realtà il problema non era l’età, la loro e quella degli strumenti. Certo sarebbe stato necessario riprendere seriamente a studiare ma questo non li spaventava. E poiché qualche risparmio pure l’avevano, pensavano che non sarebbe stato difficile procurarsi strumenti nuovi; il vero problema era un altro. Qualsiasi fosse stato il programma musicale scelto, sarebbe stato indispensabile il contributo almeno di un terzo strumento ed in particolare uno a corda: ad esempio una chitarra o, meglio ancora, un violino.
Dei loro amici, colleghi delle passate stagioni, non avevano più notizie così, sia pure a malincuore, ormai da tempo avevano abbandonato questo loro sogno; nonostante il rimpianto per il mancato concerto, la vita scorreva tranquilla senza grandi emozioni. Sapevano che il loro era un desiderio senza possibilità di realizzazione e, per non soffrirne, non ne parlavano più nemmeno fra di loro.
Spesso, però, i desideri anche se non espressi non sono per questo meno veri. E l’amarezza per non poterli esaudire ti resta dentro aumentando, giorno per giorno, quel senso di malessere che ti appanna la vita.
Nicola e Peppino, infatti, pur rassegnati, continuavano ad avere quel magone, ossia il desiderio di musica come da tempo non potevano più eseguire. La musica era stata la loro vita ed ancora dava senso alla loro esistenza. Per il passato avevano anche trascritto alcuni pezzi per adattarli all’impiego dei due strumenti; ma il risultato, piuttosto penoso, aveva suggerito di rinunciare per cui avevano continuato ad interessarsi di musica seria, almeno quella degli altri.
Così non si lasciavano sfuggire il concerto di un musicista importante, presso il Conservatorio cittadino, e la sera, nella loro modesta casa, dopo un po’ di esercizio, nella reciproca speranza di ottenere suoni più nitidi dagli strumenti anch’essi stanchi, -ammesso che si possa parlare di stanchezza anche per gli strumenti e non piuttosto di usura- ascoltavano su un vecchio registratore, pezzi di musica classica; il piacere di quelle melodie era grande così come grande era pure il taciuto rammarico. Quelle ore che dovevano servire a dare tranquillità in realtà aumentavano il loro malessere poiché entrambi sapevano che il giorno dopo nulla sarebbe cambiato.
Quello che mutò l’esistenza dei due amici in maniera radicale avvenne una mattina di autunno inoltrato quando i primi venti freddi impigriscono suggerendo, semmai, di non uscire di casa.
(2.continua)
In foto, un musicista di clarinetto