Le disobbedienti/ Elizabeth Blackwell, Elizabeth Garrett Anderson e Sophia Jex-Blake: le prime ragazze in camice bianco che rivoluzionarono la medicina

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In Europa, tra il 1400 e il 1700, la Chiesa cattolica e la Chiesa luterana misero in atto una massiccia campagna per sbarazzarsi delle guaritrici, bollandole come streghe e fattucchiere, anche se si trattava di suore!” scrive Olivia Campbell in “Le ragazze in camice bianco. Come la prime donne medico hanno rivoluzionato la medicina” pubblicato da Aboca.
L’autrice racconta la storia di tre pioniere, Elizabeth Blackwell, Elizabeth Garrett Anderson e Sophia Jex-Blake che, nella seconda metà dell’Ottocento, si batterono negli Stati Uniti e nel Regno Unito affinché le donne potessero accedere ai corsi universitari per conseguire la laurea e l’abilitazione alla professione medica.
Quello delle mediche è un tema che ho affrontato spesso per #ledisobbedienti scegliendo saggi e biografie che aiutano, colmando deliberate lacune, a comprendere la Storia, quelle lacune formatesi quando le vite e il lavoro delle donne sono stati cancellati, sepolti e rimossi in seguito a una damnatio memoriae.
«Era opinione comune che dovesse senz’altro esserci qualcosa che non andava nelle donne che volevano fare il medico. La formazione in quel campo implicava dissezioni e altre visioni sgradevoli che avrebbero fatto svenire o gridare di terrore qualsiasi femmina. La pratica medica non era un’occupazione per signore. Anche solo essere interessate alla medicina significava rinunciare alla propria femminilità».
Quando frequentavo le scuole elementari la maestra ci chiese di disegnare cosa avremmo voluto fare da grandi e io disegnai un uomo disteso su un tavolo coperto da un lenzuolo con accanto una donna, in piedi, con uno strumento sporco di sangue. Mia madre fu convocata d’urgenza. Avevo disegnato una chirurga ma la maestra disse che non esistevano, io risposi che mia madre mi aveva detto che nella vita, studiando e impegnandosi, ognuno può scegliere di diventare la persona che vuole facendo il lavoro che preferisce, mia madre era americana e la mia maestra degli anni Settanta non era pronta per questi discorsi.
L’autrice scrive quello che da Ipazia in poi molte donne hanno scritto, in epoca a noi più vicina ricordo Mary Wollstonecraft, la madre di Mary Shelley, che rispondeva a chi postulava la supposta “debolezza” femminile che questa non esisteva e che, anzi, l’impossibilità di studiare, lavorare e coltivare degli interessi fiaccava lo spirito delle persone – e quindi delle donne – portandolo verso l’alienazione. Lo sostenevano anche Ada Lovelace, la figlia di Lord Byron a cui dobbiamo lo sviluppo matematico applicato alla macchina da calcolo analitica che avrebbe condotto al computer e le matematiche e astronome Mary Sommerville e Maria Gaetana Agnesi insieme con molte altre donne che si sono dedicate alla scienza, le arti, la letteratura e ogni branca dello scibile umano, tutte sul loro cammino hanno incontrato ostacoli frapposti al fine di non esercitare alcuna professione e non essere ammesse in nessun ruolo della sfera pubblica.
Quando gli uomini hanno sottratto alle donne la possibilità di curare le altre donne il tasso di mortalità si è innalzato, le levatrici conoscevano l’importanza dell’igiene mentre gli uomini abilitati a esercitare la professione medica la ignoravano provocando setticemie, molte delle patologie femminili conosciute dalle levatrici erano sconosciute ai medici che le riconducevano a una generica isteria: «In epoca vittoriana si credeva che l’intera natura di una donna – dalla personalità all’intelletto alle qualità fisiche – dipendesse dai capricci del suo utero. La patologizzazione dell’utero fu uno dei modi attraverso i quali le donne vennero escluse dalle professioni, dall’istruzione superiore, dalla politica, dagli sport e da qualsiasi altro ambito gli uomini volevano tenere per sé».
A ciò si aggiungeva la difficoltà delle donne di rivolgersi a un medico uomo per malesseri e dolori che implicavano il dover parlare di sessualità, organi genitali e apparato riproduttivo.
Campbell si sofferma anche su altri due aspetti legati all’argomento attualmente al centro di un vivace quanto necessario dibattito. Il primo riguarda la medicina di genere, la fisiologia del corpo maschile differisce da quella femminile eppure i dosaggi dei rimedi e dei farmaci erano – e ancora spesso sono – tarati esclusivamente sugli uomini, il secondo aspetto riguarda il linguaggio di genere: «Un argomento contro le donne medico diffuso a quel tempo dalla testata medica The Lancet era l’assenza di termini appropriati, il fatto che “autorità nel campo della lingua inglese non abbiano ancora trovato la forma femminile di nomi quali medico, chirurgo, avvocato, senatore etc”».
Declinare, secondo quanto prescrive la grammatica, al maschile e al femminile, è un atto rivoluzionario poiché nominare le cose significa riconoscerle e legittimarle, solo in questo modo è spiegabile perché vocaboli come segretaria, maestra, professoressa e infermiera siano quotidianamente usati e condivisi e avvocata, architetta, sindaca e ministra vengano liquidati come cacofonici.
Se sono una donna non c’è motivo per occultare la mia identità e – passo immediatamente successivo – la mia femminilità. Anche questo è un tema su cui spesso mi soffermo, fino agli anni Ottanta le donne si mimetizzavano nel mondo del lavoro indossando completi pantalone e giacca, scarpe con il tacco basso e optavano per una acconciatura e dei colori neutri. Adottavamo un profilo basso per confonderci e non farci notare. Negli ultimi decenni le cose sono cambiate.
Donne mediche? Le testimonianze nell’antichità non mancano, le sacerdotesse depositarie del sapere farmaceutico in Mesopotamia, Egitto e a Roma, le tante guaritrici esperte di botanica che vivevano ai margini dei villaggi, le suore nei conventi e le Mulieres Salernitanae della Scuola Medica di Salerno che nel 1231 l’imperatore Federico inserì nella Costituzione di Melfi riconoscendo la valenza del titolo professionale rilasciato agli allievi e le allieve che – cinquant’anni dopo – Carlo II d’Angiò approvava con lo statuto in cui la Scuola Medica Salernitana veniva riconosciuta Studium generale in medicina a cui si aggiungono quelle citate da Sophia Jex-Blake e riportate dall’autrice.
Le tre protagoniste – e con loro altre donne con cui condivisero il cammino- sono raccontate con uno stile fluido, leggiamo del lungo percorso che, individualmente e congiuntamente, hanno costruito per aprire la strada al riconoscimento del titolo professionale di dottore in medicina alle donne. Ognuna raggiunge l’ambizioso obiettivo prefissato secondo la propria cifra personale e tutte, con determinazione, tenacia e coraggio, hanno contribuito al processo di cambiamento culturale verso un modello sociale in cui le donne aspirano alla parità.
«Siamo così abituate a essere “disprezzate e rifiutate” che l’incoraggiamento, l’accoglienza, il successo ci sembrano inspiegabili» è una gran verità, millenni di patriarcato hanno condizionato il modo di pensare al punto che la sindrome dell’impostore è sempre in agguato.
Gli stereotipi, è cosa nota, richiedono tempo e infinita pazienza per esser scardinati, anche quando ad essi si oppone una logica ferrea: «Le donne dovevano provare la loro competenza per poter avere una scuola dedicata a loro, ma avrebbero potuto ottenere le conoscenze e abilità per dimostrare questa loro competenza soltanto in una scuola dedicata a loro. Secondo questa logica, non ci sarebbe mai stata una donna medico. E questo era precisamente il punto. […] Se dottori maschi e pazienti femmine potevano stare a contatto, perché non potevano farlo gli studenti e le studentesse di medicina?».
È facile intuire quanto gli stereotipi siano cristallizzazioni reiterate nel tempo e in diversi contesti sociali al fine di imporre e mantenere un determinato ordine sociale ma, laddove si avesse bisogno di un ulteriore esempio: «Nel British Medical Journal si insinuava che le donne che entravano nel mondo del lavoro sarebbero state dannose non solo al proprio sesso ma alla società nel suo insieme. Grande preoccupazione era rivolta a quei poveri uomini che sarebbero stati licenziati per lasciare spazio a un manipolo di dottoresse cocciute. Il giornale arrivò a sostenere che le donne medico avrebbero “ridotto i guadagni del sesso maschile, aumentando di conseguenza il numero dei celibi”. La struttura stessa di una società civilizzata dipendeva dal fatto che le donne fossero dipendenti dagli uomini e non assecondassero il loro “eccentrico desiderio dei piaceri illusori dell’indipendenza”». Oggi sappiamo che la scarsa presenza delle donne nel mercato del lavoro significa punti di PIL in meno.
Per avversare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro si è sostenuto che fossero emotivamente e fisicamente fragili, vulnerabili e non sufficientemente dotate di intelletto, che la loro virtù principale, la femminilità da esercitare per compiacere l’uomo, avrebbe risentito di qualsiasi attività esterna alla sfera domestica, che l’istruzione fosse dannosa e pericolosa perché instillava idee malsane.
Le tre donne di cui scrive Campbell hanno mostrato che tutto ciò era falso, hanno sfidato l’ordine costituito, fondato scuole e ospedali solo per donne al fine di prepararle all’esercizio della professione medica e dimostrato che una donna che lavora in un ambito ritenuto maschile può mantenere intatta la propria femminilità, sposarsi e conciliare il lavoro con la famiglia conducendo una vita ricca di interessi e gratificazioni. Le scelte di vita coraggiose delle protagoniste hanno contrastato l’idea secondo cui: «Il “Culto della vera femminilità”, che prese piede all’inizio dell’Ottocento, sosteneva che le donne non fossero biologicamente adatte a un’istruzione superiore o al lavoro fuori casa. Non importava che molte donne dovessero lavorare per mantenere sé stesse e le loro famiglie: una signora doveva sempre conoscere il suo posto, vale a dire la sfera domestica […] La società preferiva che le donne incarnassero un’ideale di affabile ignoranza».
Un altro aspetto interessante, che trova spazio tra le pagine, riguarda il modo di relazionarsi delle donne nella sfera lavorativa per non ingenerare fraintendimenti: «È un equilibrio che le donne, come funambole, devono sempre trovare, chiedendosi costantemente: sono abbastanza amichevole? Lo sono troppo?» è questo un tema di grande attualità, quante volte le donne vengono tacciate di esser superbe se distaccate, ammiccanti se gentili, emotive se empatiche?
Le donne sono funambole in diversi ambiti e sì, non possiamo che esser d’accordo con una delle protagoniste leggiamo quando afferma: «Le donne non possono andare da nessuna parte, finché non saranno istruite come gli uomini» a cui aggiungo: e non conquisteranno posizioni apicali e di potere fin quando non impareranno a costruire relazioni come gli uomini.
©Riproduzione riservata

IL LIBRO
Olivia Campbell
Le ragazze in camice bianco. Come le prime donne medico hanno rivoluzionato la medicina
Aboca edizioni
Traduzione di Miriam Falconetti
Pagine 373 euro 19,50

Sull’argomento tra #ledisobbedienti:
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