“Io non sono razzista però
Io non sono violento però
Io non sono fascista però
Sono l’uomo normale
Io non sono arrivista però
Io non sono geloso però
Sono l’uomo normale
Questo però è un però di troppo”
(L’uomo normale tratto dall’album “31 salvitutti” di Flo, novembre 2020)
Come ogni anno, il 25 novembre è la Giornata contro la violenza sulle donne e il Covid non fermerà la mobilitazione, stavolta ripensata necessariamente in piena sicurezza sia nelle varie piazze d’Italia sia online, senza poter contare sulla più grande manifestazione romana.
L’urgenza è più forte che mai. Secondo i dati Istat che coprono il periodo marzo-giugno 2020, si è registrato, e si registra a tutt’oggi, un vertiginoso aumento dei casi di violenza domestica, fomentati dalla costrizione del lockdown e dall’isolamento sociale, confermando ancora una volta che la stragrande maggioranza delle vittime è di sesso femminile (*).
Tralasciando i numeri, concentriamoci meglio sul discorso cosiddetto morale ma tenendo in considerazione un presupposto fondamentale: per violenza o violentatore si intende a qualsiasi livello di gravità, di qualsiasi grado. Non esiste certo solo il reato sessuale.
E riflettiamo. Si assiste ormai quasi sempre al ribaltamento morale delle parti. Una sorta di “lettera scarlatta” affibbiata al colpevole sbagliato. La considerazione secondo cui un uomo che commette violenza di genere sia spesso giustificabile da parte dell’opinione pubblica è paradossale.
Dal punto di vista della legge, è reato senza se e senza ma: stalkerizzare una donna in quanto tale non ha giustificazione, minacciarla e insultarla non ha giustificazione, figuriamoci ucciderla. In Italia la legislazione ha fatto dei passi avanti ma restano ancora molti vuoti da colmare e questo incide anche sul numero ridotto di denunce esposte rispetto alle richieste di aiuto, un po’ per paura di ritorsioni, un po’ per la scarsa fiducia nelle autorità e nei procedimenti, appunto.
Nel recentissimo caso dell’insegnante elementare licenziata, l’opinione pubblica, bigotta e non, mette in secondo piano il reato penale di Revenge porn in base al Codice Rosso del 2019 e ne discute il principio etico, si ma eticamente distorto: la vittima “si è comportata male”, quindi ha meritato quello che le è successo dopo.
Così come è già avvenuto per casi di omicidio da parte di mariti che non accettavano una separazione e si sentivano parole come “disperazione, lei aveva un altro, i sacrifici di lui per portare il pane a casa”. Allo stesso modo, per casi meno gravi, si fomenta lo spirito secondo cui la vittima debba perdonare il suo persecutore, non si capisce bene in nome di quale criterio.
È quindi palese e quasi ovvio che le suddette reazioni vanno di pari passo con una buona dose di disinformazione, di diseducazione, nonché con un’imposizione cristiano_culturale e con l’ imperituro patriarcato che sono insiti nel nostro sistema.
Le parole usate nell’informazione fanno moltissima differenza e hanno un’enorme responsabilità, perché inevitabilmente finiscono nel parlato comune. E purtroppo è diffuso nel giornalismo di oggi servirsi di concetti inappropriati in maniera consapevole e strumentalizzata, soprattutto sui social, per cui si parla ormai di becero giornalettismo.
La crisi e poi la pandemia, hanno esasperato molte condizioni che sono esplose là dove il disagio psichico era già latente. Perché se va dato il giusto nome alle cose, è questo il movente principale : un disagio psichico. Commettere violenza di genere, non è lo scatto di un momento.
Il termine stesso “femminicidio” non è ancora compreso a fondo così come il termine “passionale” viene travisato in qualcosa come “troppo amore”, che ha in sé un accento in parte positivo e quindi fuorviante. La parola “femminismo” si alimenta ormai da troppo tempo di un’accezione negativa che non le appartiene, vista come il semplice contrario di “maschilismo”. Insomma, ci vuole un reset.
Si dovrebbe ripartire dalla mai scontata rieducazione nelle scuole con l’introduzione di materie riguardanti la storia del femminismo e dei generi e potenziare i gruppi dei movimenti cittadini che devono essere punto di riferimento per una diffusione più capillare di una comunicazione veritiera sul territorio. Questo tipo di approccio va tenuto costante nel tempo, con programmi rivolti alla comunità e quindi a qualsiasi fascia d’età e genere e porterebbe a occuparsi in maniera trasversale anche di altre problematiche a latere (tra cui bullismo e razzismo).
E come in ogni pandemia che si rispetti a quanto pare, anche in un qualsiasi episodio di violenza, verbale o fisica, esistono i negazionisti. Ebbene si.
Il primo negazionista sarà chi vi ha usato violenza: “Non ho fatto/detto nulla di male, io non sono così”. I secondi saranno i presunti amici: “Non è possibile io lo/a conosco da una vita, non è così”. Il terzo, con molta probabilità, sarà proprio il vostro stesso cervello: “Non è possibile che mi abbia fatto/detto questo, non lo accetto, non è così”.
E in questo caso, il passo da negazionismo a negativismo è breve. Quindi, solo quando si saranno allontanati tutti questi “no” fisicamente e poi, con molto più sforzo e tempo, anche mentalmente, si potrà iniziare la ripresa.
E non c’è vaccino, la cura siamo noi stessi.
Perché al di là delle leggi e delle news mal poste, soltanto chi ha subìto sa e può fare il primo passo, il più difficile: chiedere aiuto.
(*) fonte: Il numero verde 1522 durante la pandemia (periodo marzo-giugno 2020) (istat.it)