Il lavoro è uno strumento di emancipazione o di oppressione, è un elemento che deve saper recuperare dignità umana o veicolo di sfruttamento, crea diritti o nuovo schiavismo? La tecnologia rende il lavoratore più libero dalla fatica o lo sottomette definitivamente? Destra e sinistra, le culture politiche novecentesche, popolari e socialisti, liberali e comunisti, hanno ancora una ragione storica per esistere oppure sono irrimediabilmente “non” utili. Interrogativi ai quali si tenta di rispondere nel saggio “Diseguali – Il lato oscuro del lavoro” di Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza, Guida Editori, pagg. 140, Euro 12,00.
Senza alcuna pretesa ideologica e pensieri immutabili, con metodo e privo di imposizioni culturali, con libertà di pensiero e non scimmiottando manifesti politici, omettendo di proporre il solito ricettario per sollevarci dalle “bassezze” nei quali siamo confinati, i due affrontano un piacevole viaggio portando per mano il lettore ad indagare il lavoro e ciò che ruota attorno ad esso: la vita, la democrazia, la libertà, i diritti, l’emancipazione di categorie sociali, i rapporti tra Stati, il mondo che si muove attorno a noi e la necessità di saperlo interpretare.
L’odierno capitalismo ha soppiantato il lavoro tradizionale, ha precarizzato i rapporti economici e sociali. Gli autori vedono qui due insidie: la manodopera a basso costo e la crescita della tecnologia. L’effetto combinato di questi due fattori “uccidono” i diritti e “sopprimono” posti di lavoro.
Nel 1999 il cosiddetto popolo di Seattle insorse contro la conferenza del WTO, da molti ritenuta il simbolo della globalizzazione dei mercati, massima espressione del capitalismo mondiale. Si passò, in breve tempo, dal virtuale al reale, quella città vide protagonisti contestatori provenienti da tutto il mondo, internet fu lo strumento per raccogliere i tanti giovani che gridarono al mondo, ad una parte di mondo.
Probabilmente, è questa l’analisi di Paolozzi e Vicinanza, quel movimento definito “no global” fu sottovalutato da politica ed intellettuali, ma il fuoco covava sotto la cenere. E dopo le sue fiammate si è lasciato spazio ai populismi, fino ad arrivare a nuovi rigurgiti fascisti di oggi. La crisi mondiale, interpretando gli autori, ha trovato l’uscita a destra. Una risposta sbagliata ad una domanda più che giusta.
Quando cadde il comunismo internazionale si pensò che il “mondo rimasto” fosse l’unico possibile, sopravvissero i liberali, progressisti o conservatori che dir si voglia, a regolare le sorti dell’umanità. Poi cominciarono le guerre di religione, venne sostituita la “felicità collettiva” agli ideali individuali a scapito di tutti glia altri. In Italia, così come in gran parte dell’Europa e del mondo, si abbandonarono i pensieri lunghi, le grandi prospettive di massa, il senso di comunità e condivisione di valori, naufragarono, a partire dagli anni ’90, le appartenenze, i campi politici, le progressioni culturali; la contesa politica faceva prevalere la lotta per il potere, per la gestione, allontanando il miglioramento morale e materiale delle classi sociali rappresentate.
Il mondo che abbiamo conosciuto considerava, da un lato, la democrazia come strumento a servizio dello sfruttamento capitalistico (scuola marxista) e dall’altro praticare il modello democratico era la migliore forma da affiancare al capitalismo (fronte liberale). Ambedue i versanti non avevano fatto i conti sul fatto che la globalizzazione poteva fare addirittura a meno di quella forma di organizzazione statale; negli ultimi trent’anni, infatti, i partiti si sono indeboliti e la democrazia ha assunto i connotati di un mero ruolo formale o procedurale. Indebolita la democrazia si è sostanzialmente affievolito il controllo popolare, le decisioni partecipate, i destini delle comunità di donne e uomini regolati dal basso.
Ma i due autori, sul punto, indagano oltre, spiegano il cosiddetto assunto della “dittatura della maggioranza”. Vogliono intendere, probabilmente, che la democrazia decidente, così come intesa in occidente, contiene in sé gli elementi del totalitarismo, si sostituisce la qualità della rappresentanza alla quantità, avanza, in questo artefatto sistema, il germe della corruzione, stratificando nei rapporti umani un imbarbarimento della civiltà. Un popolo dovrebbe essere fin troppo intelligente ed acculturato per “scansare” queste deviazioni proposte dal sistema democratico. E se a questi gli togli i fondamentali per resistere a ciò, se gli abbassi le difese immunitarie, allora il gioco è fatto.
Il saggio si conclude con un’analisi che lascia poco spazio all’immaginazione: la democrazia è in crisi e non vi sono attualmente soggetti in grado di rinvigorirla.
Insomma, non si intravede un nuovo Principe che raccolga le aspettative deluse, che sappia rispondere a migliori e qualitative condizioni di vita, a rigenerare una società non più consapevole. Ma si accenna a un’utopia: lavorare meno per lavorare tutti, redistribuire i profitti, costruire una democrazia autentica.