“5 domande per Napoli”“. Proseguiamo con la nostra rubrica di approfondimento politico. Obiettivo: determinare un quadro di idee, analisi, contributi, dubbi, proposte, di autorevoli commentatori in uno spirito di coraggio, umiltà e compartecipazione, a servizio della città a venire. Ne parliamo con Ermete Ferraro, Portavoce Circolo di Napoli e consigliere nazionale di V.A.S. Onlus APS (Verdi Ambiente e Società).
Ferraro, Napoli è tra più fuochi: un avamposto contro l’autonomia differenziata avanzata dalle Regioni del Nord, una città alla ricerca di un’identità perduta tra le tante “anime” del Mezzogiorno ed un capoluogo che non accetta fino in fondo la sfida nell’ambito dei paesi del Mediterraneo. Avere un’idea di città significa avere un’idea di futuro. Quale la tua?
«Napoli è molto più d’un comune, d’una popolosa città metropolitana. Già capitale del Meridione d’Italia, è la stratificazione di millenni di storia e culture, derivanti dal suo imprescindibile ruolo nell’area mediterranea. Come ecopacifista e meridionalista, ritengo che chi voglia delinearne il futuro non debba sottrarsi al dovere di fare i conti col deprimente passato di colonizzazione politica economica e culturale del Mezzogiorno, cui è stata condannato per un secolo e mezzo dal Nord mitteleuropeo, provocando subalternità, marginalità e perdita d’identità. Il riscatto del Sud passa anche per la rinascita della nostra città, accrescendo in chi vi abita la consapevolezza della sua storia e del ruolo che potrebbe svolgere in un’Europa meno carolingia e più mediterranea.
Il futuro che auspico per Napoli e l’intero Mezzogiorno non può prescindere dalla rivendicazione d’un effettivo riequilibrio socio-economico e civile, l’opposto della ‘autonomia differenziata’, a trazione non soltanto leghista, che consoliderebbe disequilibri ed iniquità preesistenti, con la scusa di razionalizzarli. Un futuro migliore per Napoli, d’altra parte, non dipende solo dal ribaltamento della perversa logica della cosiddetta ‘secessione dei ricchi’, ma implica anche una diversa visione del Paese e del suo ruolo geopolitico. Da ambientalista, intravedo nell’individuazione di ‘ecoregioni’ un’alternativa al rissoso regionalismo in atto, dando vita ad un’Italia policentrica e federativa, senza però trasferire a livello decentrato – come è già successo negli ultimi decenni – i perniciosi difetti del vecchio centralismo burocratico unitario.
Un modello sociopolitico auspicabile, pertanto, dovrebbe: (a) valorizzare le potenzialità delle realtà locali; (b) promuovere l’autogestione sociale a vari livelli, compreso quello produttivo; (c) attuare un vero green new deal, andando oltre i blandi e formali correttivi all’esistente, ma perseguendo alternative all’attuale modello di sviluppo. Uno sviluppo predatorio ed energivoro, che non solo è incompatibile con gli equilibri ecologici e la salvaguardia della biodiversità, ma accresce le differenze socio-economiche e produce nuovi conflitti. Sono quelli che alimentano la continua militarizzazione del territorio e l’intollerabile subalternità dell’Italia all’Alleanza Atlantica, sempre più concentrata sul controllo del bacino mediterraneo, dell’Africa e del vicino Oriente».
L’esigenza di una piattaforma programmatica propositiva, di medio-lungo periodo, non necessariamente in contrapposizione alle città del Nord, è più che una necessità per Napoli e per il Sud. Questa scelta impone un dialogo pressante con i Governi, qualsiasi essi siano, per un capoluogo che conti e non solo racconti. Il dialogo istituzionale è positivo sempre e comunque oppure deve passare prima per una rottura traumatica, viste le tante “sottrazioni” a cui gli esecutivi nazionali ci hanno tristemente abituati?
«In un’ottica nonviolenta, i conflitti non vanno esorcizzati né considerati una rottura traumatica da scongiurare. La conflittualità è nelle cose e non va ignorata né nascosta, ma riconosciuta, analizzata ed auspicabilmente ‘trascesa’. Un conflitto diventa distruttivo se genera violenze e ferite profonde, ma può anche essere affrontato con spirito costruttivo. L’Europa a trazione franco-tedesca è già un’anomalia da sanare, che specularmente riproduce la frattura mai sanata tra Nord e Sud d’Italia, frutto della vecchia logica dell’annessione e dell’egemonia anziché di una visione federalista, che sa riconoscere le giuste autonomie, rispettando anche la coesione e la solidarietà.
Anche nel caso di Napoli, capoluogo regionale da sempre attrattore di risorse e potere, non mi sembra che si sia saputo stabilire un corretto dialogo istituzionale con la conurbazione metropolitana e con l’intera Campania, anche prima dell’attuale, intollerabile, rissosità fra i rispettivi vertici istituzionali. Il rapporto conflittuale tra Regione e Governo centrale ha ulteriormente compromesso quel dialogo, che invece sarebbe fondamentale sia per la credibilità stessa delle istituzioni, sia per il conseguimento di obiettivi davvero comuni, evitando la solita, penosa, rincorsa delle emergenze, come sta succedendo anche nel drammatico caso della pandemia.
Una Napoli che ‘conti’ davvero – rifiutandosi di essere solo ‘raccontata’ da stucchevoli e interessate narrazioni altrui – dovrebbe però avere il coraggio di fare scelte programmatiche alternative, garantendo la stabilità amministrativa che le renda credibili e attuabili. Bisognerebbe dunque selezionare alcune priorità e operare scelte conseguenziali, cercando le necessarie sintesi politiche senza però oscillare fra proclami rutilanti e realizzazioni troppo spesso carenti.
La Città Metropolitana potrebbe diventare elemento di sintesi fra Capoluogo e Regione, ma il suo depotenziamento politico l’ha resa un mero soggetto burocratico, poco riconoscibile come entità complessa ed ancor meno rappresentativo della volontà popolare. Gran parte delle scelte determinanti per il futuro di Napoli, ad esempio quelle in materia ambientale, dovrebbero scaturire da una programmazione a livello metropolitano, ma l’attuale realtà amministrativa è insoddisfacente e non ha colmato i tradizionali dissidi tra città capoluogo e provincia. Ritengo indispensabile anche una riforma vera del decentramento comunale, conferendo risorse e responsabilità gestionali alle Municipalità, finora mortificate da una gestione centralista, ma non per questo più efficiente».
Le categorie sociali e economiche di Napoli molto spesso disegnano “separatamente” il destino dei cittadini, ognuno con la presunzione della conoscenza che diventa verità assoluta e non riproducibile da tutti gli altri. Il dialogo, la sintesi, una comunità di interessi, tra i soggetti sociali della nostra città sono possibili o ci dobbiamo rassegnare per sempre?
«La mia matrice ecopacifista m’induce a cercare il confronto, il dialogo e la mediazione fra interessi discordanti. La stessa ‘comunità’ – sociologicamente parlando – non è un necessariamente un insieme di realtà singole conformi ed omogenee tra loro. Per legare insieme persone e realtà collettive c’è bisogno di un’identità comune di fondo, non di fredde regole contrattualistiche, tipiche della concezione liberale dello stato. Laddove i conflitti sono evidenti (ad esempio tra centro e periferia, aree marine e montane, zone a prevalente vocazione economica primaria, secondaria o terziaria, etc.), con una programmazione decentrata e partecipata si potrebbero far emergere convergenze d’interessi e affinità insospettabili. Se invece la pianificazione resta centralizzata, ispirata dalla logica del profitto piuttosto che dalla ricerca del bene comune, il dialogo e la sintesi non sono possibili. Se poi tra gli interessi in gioco s’inserisce anche la salvaguardia dell’integrità ambientale del territorio, il risultato sarà sicuramente migliore, perché terrà conto di una ‘comunità’ considerata in chiave non antropocentrica, ma ecologico-sistemica.
La ricerca delle sintesi, in ogni caso, non può mortificare le soggettività sociali, che si esprimono anche in senso identitario, generazionale e culturale. Chi amministra una grande città dovrebbe garantire l’espressione ed il contributo di tali aggregazioni dal basso, ma senza perdere di vista l’interesse della collettività nel suo insieme. Come ha ripetuto Papa Francesco in questi mesi drammatici, “nessuno si salva da solo”. E già nel 1967, dopo aver sottolineato che ”non c’è nulla che sia ingiusto come far parti uguali tra disuguali”, don Milani affermava: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”».
Dopo il Covid 19 è cambiato il mondo e le città non potranno restare a guardare. Secondo te, Napoli in quale miglior modo può reagire, quale terreno deve principalmente recuperare per non “perdersi” definitivamente?
«La pandemia da Covid-19 – è stato osservato da più parti – ha determinato una gravissima crisi sociosanitaria ed economica globale, ma ci ha anche aperto gli occhi sulle cause socio-ambientali di quella stessa crisi. In parecchi hanno giustamente dichiarato che “nulla può ormai tornare come prima”, ma questa dura ‘lezione’ non sembra averci insegnato molto, se gran parte dell’umanità attende la fine di questa epidemia solo per tornare ad una ‘normalità’ che non aveva nulla di normale né di giusto. Le principali scelte strategiche per voltare pagina sono di livello nazionale e di Unione, per cui l’inserimento di priorità ambientali nei piani di recupero dalla crisi pandemica è un segnale insufficiente ma positivo. Resta ancora molto da programmare e decidere a livello regionale e cittadino, perché nessun cambiamento può prescindere da un’effettiva maturazione della coscienza e degli stili di vita delle persone e dei gruppi sociali intermedi. In tale contesto, il ruolo delle associazioni ambientaliste è ancor più importante. Altrettanto rilevante è la capacità di dar vita ad aggregazioni politiche che sappiano coniugare la svolta ecologista col cambiamento sociale, perseguendo un modello di sviluppo sostenibile sul piano ambientale, ma anche equo e solidale.
Già dagli anni ’90, Vas – guidata da Antonio D’Acunto – aveva proposto una rinascita di Napoli basata sulla tutela e il recupero non solo dei suoi beni paesaggistico-ambientali, ma anche del patrimonio storico, culturale ed artistico che la rende unica al mondo. Alcune priorità sul piano ambientale restano tuttora valide: 1) la bonifica, il recupero e la rinascita sociale di Bagnoli e dell’area orientale di Napoli; 2) un piano davvero alternativo, rivolto alla riduzione ed allo smaltimento ecocompatibile dei rifiuti urbani; 3) la difesa del patrimonio verde, realizzando una ‘cintura verde’ cittadina e metropolitana; 4) una mobilità collettiva più razionale ed ecologica; 5) un piano energetico comunale basato sui principi della ‘civiltà del sole’, sanciti dalla legge regionale n.1/2013 che Vas riuscì a far approvare, partendo dall’iniziativa popolare ma che non ha mai trovato attuazione.
Per non ‘perdersi’, infine, Napoli deve recuperare la sua identità culturale, che passa anche per la valorizzazione di beni immateriali come il suo patrimonio linguistico-letterario e musicale, di cui un’altra norma da noi caldeggiata (L.R. n. 14/2019) ha prescritto la salvaguardia e promozione».
La partecipazione è un elemento di valore e dovrebbe riguardare la politica, ma anche e soprattutto l’ambito sociale e culturale, ma troppo spesso evoca scenari senza sporcarsi le mani. Napoli ha bisogno di un orizzonte ma anche di certezze amministrative e comportamentali. Al futuro ci si arriva con atti concreti, costanti e duraturi. Da dove si comincia per allargare la base democratica in città?
«Una volta Gaber cantava che “la libertà è partecipazione”, ma purtroppo non si avverte ancora un cambiamento che consenta di realizzare questa formula, semplice ma rivoluzionaria. Don Milani raccomandava ai suoi ragazzi di “sentirsi ognuno responsabile di tutto”, ma la predominante cultura individualistica e la spersonalizzazione di quella tecnocratica non sono certo uno stimolo alla partecipazione e alla ricerca del bene comune. Anche la demonizzazione della politica, ridotta a losco affare di ‘casta’ nel quale è meglio non sporcarsi le mani, non ha indotto ad assumersi responsabilità in prima persona. Quelli che l’hanno fatto, spesso vivono drammaticamente il conflitto tra l’iniziale contestazione dei modelli ‘politichesi’ e la successiva accettazione di modalità considerate una resa alla vecchia politica. Lo iato tra movimenti di base ed aggregazioni partitiche così si è allargato ulteriormente, rischiando l’incomunicabilità a danno di una visione alternativa dell’agire politico.
Per allargare la base democratica di una città come Napoli, ritengo necessario che la politica torni a radicarsi sul territorio, anche grazie all’iniziativa dal basso delle persone. Bisogna che i cittadini vi trovino un’interlocuzione non formale con le istituzioni amministrative, al livello più prossimo e con modalità autenticamente partecipative.
In una visione ecosociale, infatti, è necessario valorizzare le realtà di base (dai centri sociali alle aggregazioni di altra natura, comprese quelle ecclesiali), dando vita a nuovi luoghi dove informarsi e confrontarsi, garantendo la trasparenza amministrativa e promovendo il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni collettive.
La natura ci offre i modelli ecologici della diversità ambientale ma anche della sinergia, della simbiosi e dell’interdipendenza. Tocca a noi seguirli, andando oltre l’emergenzialità che ha finito col paralizzare ogni intervento diretto, confinandoci in una ‘virtualità’ e in un ‘distanziamento’ personale sociale e politico, da cui dobbiamo uscire con idee più chiare e con determinazione, per costruire un’alternativa ecosolidale».
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