5 domande per Napoli. Proseguiamo con la nostra rubrica di approfondimento. Obiettivo: determinare un quadro di idee, analisi, contributi, dubbi, proposte, di autorevoli commentatori in uno spirito di coraggio, umiltà e compartecipazione, a servizio della città a venire. Ne parliamo l’ex parlamentare Berardo Impegno, esponente storico della sinistra italiana e docente di filosofia.
1)Napoli è tra più fuochi: un avamposto contro l’autonomia differenziata avanzata dalle Regioni del Nord, una città alla ricerca di un’identità perduta tra le tante “anime” del Mezzogiorno ed un capoluogo che non accetta fino in fondo la sfida nell’ambito dei paesi del Mediterraneo. Avere un’idea di città significa avere un’idea di futuro. Quale la tua?
«L’esperienza avuta durante la pandemia, del ruolo delle Regioni, tutte, ci porta a dover riconsiderare il rapporto istituzionale tra Stato centrale, Regioni ed Enti Locali. Non sono per un neo-centralismo e tuttavia va riconsiderato il ruolo delle Regioni, al fine di rendere efficaci i dispositivi normativi sull’intero territorio nazionale, e di evitare inaccettabili sperequazioni tra cittadini e cittadini dello stesso Stato, che vivono in territori diversi. Perciò, a maggior ragione oggi, dopo la pandemia, va rifiutata “l’autonomia differenziata”, così come viene rivendicata dalle Regioni del nord. Di contro, sarebbe auspicabile un coordinamento effettivo delle Regioni meridionali, al fine di utilizzare al meglio le risorse prossime venture che vanno ben spese e in tempo utile. Temo purtroppo che prevarranno protagonismi personalistici di alcuni Presidenti delle Regioni meridionali, le cui personalità egocentrate mal si conciliano con la prudente disponibilità alla collaborazione istituzionale. A ciò si aggiunge il ruolo che potrebbe e dovrebbe avere il Sindaco metropolitano di Napoli, quale autorevole cerniera nel dialogo interistituzionale. L’esatto contrario di quello che è accaduto nel trascorso decennio con de Magistris, che si è “lodevolmente” contraddistinto per la sua capacità di isolamento verso tutti e contro tutti. Invece, ci dobbiamo augurare che il prossimo sindaco di Napoli sia uomo o donna del dialogo, del confronto, della collaborazione necessaria fra le Istituzioni. Del resto, la vocazione storica di Napoli, è quella di essere luogo di cerniera tra la Città, l’Italia e l’Europa e ponte verso i Paesi del Mediterraneo. È qui che si gioca la visione del ruolo strategico di Napoli verso il suo futuro».
2) L’esigenza di una piattaforma programmatica propositiva, di medio-lungo periodo, non necessariamente in contrapposizione alle città del Nord, è più che una necessità per Napoli e per il Sud. Questa scelta impone un dialogo pressante con i Governi, qualsiasi essi siano, per un capoluogo che conti e non solo racconti. Il dialogo istituzionale è positivo sempre e comunque oppure deve passare prima per una rottura traumatica, viste le tante “sottrazioni” a cui gli esecutivi nazionali ci hanno tristemente abituati?
«Dialogare con il Governo nazionale e quello regionale non è un’opzione, è un obbligo e tuttavia il dialogo, quando è vero, non implica subalternità o sottomissione. Anzi, è capacità argomentativa, tale da essere in grado di avanzare con forza le proprie ragioni e le necessarie rivendicazioni. Non vi è dubbio che in questi cento anni di storia il Mezzogiorno sia stato penalizzato dalle spesso miopi politiche nazionali. Qui, occorre una svolta perché è oggettivamente palese che solo una forte ripresa dello sviluppo meridionale rende possibile lo sviluppo dell’intero paese. Qui, c’è stato un gap della capacità di rappresentanza delle classi dirigenti meridionali, di destra e di sinistra, nell’essere autorevoli interpreti del futuro del Sud. Qui, è utile ed urgente una chiara autocritica dell’intera politica meridionale».
3) Le categorie sociali ed economiche di Napoli molto spesso disegnano “separatamente” il destino dei cittadini, ognuno con la presunzione della conoscenza che diventa verità assoluta e non riproducibile da tutti gli altri. Il dialogo, la sintesi, una comunità di interessi, tra i soggetti sociali della nostra città sono possibili o ci dobbiamo rassegnare per sempre?
«Sono ben noti i limiti strutturali della borghesia napoletana e la scarsa sua propensione al rischio di impresa. A ciò si aggiunge la crisi profonda dell’intera società civile e della sua articolazione interna, sindacati, realtà associative, volontariato, chiesa. Viviamo un processo di frammentazione e disarticolazione sociale molto profondo. E anche qui, non possiamo registrare semplicemente la situazione presente. C’è uno straordinario ruolo nella ricomposizione del tessuto sociale, e spetta alla Politica di dover svolgere questa operazione di sintesi. Una Politica con la P maiuscola che purtroppo manca da tempo nella nostra città. Bisogna rassegnarsi? No. Bisogna reagire. Abbiamo toccato il fondo, ora ciascuno di noi è richiamato ad una militanza attiva per riprendere un “sentiero interrotto”».
4) Dopo il Covid-19 è cambiato il mondo e le città non potranno restare a guardare. Secondo te, Napoli in quale miglior modo può reagire, quale terreno deve principalmente recuperare per non “perdersi” definitivamente?
«L’esperienza della pandemia ha prodotto già una percezione diversa della propria vita e del rapporto tra sé e il mondo. Registro che la reazione di ciascuno di noi nel primo anno di pandemia è stata ed è molto diversa da quella del secondo anno. Nel primo, infatti, la reazione è stata di stringersi insieme con una sorta di rigurgito di “comunità” (Abbracciame cchiù forte). In questo primo tempo i filosofi, quasi tutti hanno taciuto. Il vuoto ha fatto da protagonista come ebbe a dire al suo modo straordinario il mio maestro Aldo Masullo, prima di morire proprio durante il lockdown, maestro che rimpiango e ricordo. In questo secondo anno, invece, i”filosofi” si stanno sbizzarrendo in una babilonia di posizioni che mi piace sintetizzare in una vecchia “figura” di Umberto Eco, quella degli apocalittici e integrati: un chiacchiericcio inconcludente. Tra i molti filosofi, si distingue, invece, il filosofo napoletano Roberto Esposito, che nel suo ultimo bel libro, “Istituzione”, si sottrae a entrambe le tentazioni e insiste lodevolmente sul “potere istituente” di tutti i protagonisti sociali. È una lezione che va pensata bene e raccolta, perché restituisce forza e dignità alla politica. In quanto tiene conto che la pandemia ha aperto sì, di fatto, uno spazio “vuoto”, ma è proprio il vuoto che rende possibile quello spazio necessario a individuare un nuovo ” sentiero” da percorrere».
5) La partecipazione è un elemento di valore e dovrebbe riguardare la politica, ma anche e soprattutto l’ambito sociale e culturale, ma troppo spesso evoca scenari senza sporcarsi le mani. Napoli ha bisogno di un orizzonte ma anche di certezze amministrative e comportamentali. Al futuro ci si arriva con atti concreti, costanti e duraturi. Da dove si comincia per allargare la base democratica in città?
«Nessun volontarismo della ragione ci può garantire che ne usciamo positivamente. Sta alla responsabilità di ciascuno di noi. Non una responsabilità interpretata in modo moralistico, bensì un’aspra consapevolezza del proprio interesse. È la vita in gioco. Dopo il Covid ciascuno di noi è richiamato a riconsiderare tutte le proprie certezze e perciò quello che a prima vista sembrerebbe un catalogo di buone intenzioni può diventare un esercizio concreto di azioni virtuose. Prendo solo due esempi: il lavoro a distanza. Cambia completamente il rapporto tra vita e lavoro. Ciò richiede un cambiamento della Città, dei suoi tempi, dei suoi spazi, del suo statuto. Tutto questo può muovere verso deresponsabilizzazione e maggiore separazione tra individuo e integrazione sociale. Ma, al contrario, può essere utilizzato per una migliore funzione delle tecnologie, del rapporto fra tempo di vita e tempo di lavoro e così via. Il secondo esempio riguarda direttamente i saperi. La Dad sia per le scuole secondarie che per l’Università, l’enorme diffusione dei collegamenti a distanza di conferenze, dibattiti, confronti politici, ma anche di concerti, spettacoli teatrali, performance artistiche, segnano una discontinuità enorme tra fruizione e fruitore dei saperi tale da farci pensare all’inizio di una nuova era analoga a quella che segnò nella Grecia del quarto IV secolo a. C. il passaggio dall’oralità alla scrittura. Quasi un ritorno ad una nuova oralità. Naturalmente, non si tratterà mai di un’alternativa secca tra vecchi e nuovi strumenti di diffusione culturale. E tuttavia, sempre più, molto cambierà. Speriamo di esserne consapevoli, anche politicamente».
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