“5 domande per Napoli”“. Proseguiamo con la nostra rubrica di approfondimento politico. Obiettivo: determinare un quadro di idee, analisi, contributi, dubbi, proposte, di autorevoli commentatori in uno spirito di coraggio, umiltà e compartecipazione, a servizio della città a venire. Ne parliamo con Salvatore Martelli, attivista “Coordinamento territoriale di Scampia”.
Salvatore, Napoli è tra più fuochi: un avamposto contro l’autonomia differenziata avanzata dalle Regioni del Nord, una città alla ricerca di un’identità perduta tra le tante “anime” del Mezzogiorno ed un capoluogo che non accetta fino in fondo la sfida nell’ambito dei paesi del Mediterraneo. Avere un’idea di città significa avere un’idea di futuro. Quale la tua?
«Penso che Napoli stessa rappresenti un fuoco vivo, accecante. Lo ha rappresentato sicuramente nelle decine di sfaccettature di questa crisi sanitaria divenuta in larghi tratti una crisi sociale. Rappresenta effettivamente un avamposto a quella visione miope che tende a dare a chi già ha. Gli effetti assolutamente non trascurabili di questa visione sono sotto gli occhi di tutti, la sanità che dovrebbe essere un pilastro al centro di ogni democrazia e di ogni ragionamento di comunità, ha sofferto terribilmente una campagna di tagli perpetrati dagli enti di prossimità e dallo stato centrale nella disperata rincorsa a questo concetto che racchiude in sé una serie di vincoli economici, di rispetto di patti scritti in altri luoghi per altri luoghi che non sono il meridione d’Italia – come se il diritto alla salute potesse essere messo a bando come soddisfacimento di un bisogno qualsiasi – per questo, penso che la Napoli degli anni che verranno dovrà essere capace di tessere la ragnatela delle relazioni evitare isolamenti finto-ideologici e puntare a ritornare stella al centro del Mediterraneo, attraverso lo scambio interculturale e interrazziale. Tutto questo sarà possibile solo se si velocizzerà il processo di coscientizzazione endogena che sicuramente in questi anni ha avuto un’accelerazione con passo uniforme, ma che sembra si sia fermato ad una tappa intermedia. La nostra responsabilità, e a quella non possiamo sottrarci, è riprendere a correre, riprendere a far splendere la stella».
L’esigenza di una piattaforma programmatica propositiva, di medio-lungo periodo, non necessariamente in contrapposizione alle città del Nord, è più che una necessità per Napoli e per il Sud. Questa scelta impone un dialogo pressante con i Governi, qualsiasi essi siano, per un capoluogo che conti e non solo racconti. Il dialogo istituzionale è positivo sempre e comunque oppure deve passare prima per una rottura traumatica, viste le tante “sottrazioni” a cui gli esecutivi nazionali ci hanno tristemente abituati?
«Esiste, come sempre in politica, l’esigenza di mettere in piedi un piano programmatico e a tal proposito forse bisognerebbe sfruttare uno dei concetti lasciati in dote dalle imprese del passato, almeno da quelle che hanno funzionato bene in tutte le complicate articolazioni storiche – è necessario dunque, ragionare su un piano socio-politico-industriale che abbia come tempo di riferimento almeno un ventennio. Bisogna ritrovare quella autorevolezza delle competenze, non lasciarsi andare alla paura dei primi risultati negativi, puntare sulla coerenza del progetto sfruttando le migliori energie delle comunità, dalle università, al terzo settore funzionante, alle mille esperienze di autogoverno dei territori nate soprattutto negli ultimi anni. Credo, con una buona dose di certezza, che un aggravamento dei livelli di interlocuzione tra chi si appresta a fare proposta politica e, chi in qualche modo la subisce, acuirebbe in modo irrimediabile lo scollamento tra due principi fondamentali della democrazia: cittadinanza – rappresentati, istituzioni – rappresentanti. Questi principi, anche se messi seriamente in discussione negli ultimi anni, restano un faro nella risoluzione dei conflitti, poiché una ulteriore frattura potrebbe creare forme di ribellismo reazionario pericolosissime per le fragilità del momento storico».
Le categorie sociali ed economiche di Napoli molto spesso disegnano “separatamente” il destino dei cittadini, ognuno con la presunzione della conoscenza che diventa verità assoluta e non riproducibile da tutti gli altri. Il dialogo, la sintesi, una comunità di interessi, tra i soggetti sociali della nostra città sono possibili o ci dobbiamo rassegnare per sempre?
«Credo fortemente nei processi collettivi di emancipazione e in questi anni il quartiere dove sono nato e dove ho scelto di vivere, Scampia, ha rappresentato le esperienze di lotta e di resistenza a livello sentimentale e di coinvolgimento collettivo più belle e avvincenti della città. L’esperienza del Comitato Vele ha rappresentato e rappresenta, un orizzonte nel campo delle conquiste dei cittadini, una sfida tra Davide e Golia ribaltata in tutti i suoi fondamentali – un crinale da cui scorgere ed estrapolare l’essenza più rivoluzionaria della parola speranza. Proprio in quella esperienza ho maturato la consapevolezza di un concetto ormai in disuso, il conflitto, sostituito senza remore con un altro concetto, più incidente nelle contrapposizioni e nelle contraddizioni della carne viva, lo scontro – eticamente degenerante ed esasperante nelle relazioni personali. In questo senso, una delle strade da perseguire credo possa essere quella di riappropriarsi delle forme di conflitto genuine e dei sistemi di mediazione da sempre riconosciuti nelle organizzazioni, per riportare la politica alla sua centralità di sintesi e morale – Esiste sempre una possibilità di scegliere tra il tentativo di riportare la vertenza e le istanze alla risoluzione e la voglia di alzare muri e barricate invalicabili, abusando oltremodo anche di un linguaggio spietato in tutte le sue accezioni, su questo forse, i tweet e i vari social media non hanno aiutato per perentorietà e freddezza di conclusione».
Dopo il Covid – 19 è cambiato il mondo e le città non potranno restare a guardare. Secondo te, Napoli in quale miglior modo può reagire, quale terreno deve principalmente recuperare per non “perdersi” definitivamente?
«Napoli non si perderà. Questi anni sono stati utili a generare una serie di anticorpi contro la visione individualista dell’altra parte della barricata, a sterilizzare fanatismi e prospettive che trovano la loro dimensione nelle peggiori gesta del passato. Sono nate pratiche sociali e mutualistiche addirittura paradigmatiche per l’intero globo. Sicuramente non bastano da sole, però rappresentano la certezza che la via verso la praticabilità dei diritti essenziali non è smarrita. Su questo punto, credo che la sfida sia proprio quella di tentare di riannodare la filiera dei diritti essenziali, dal diritto alla salute a quello del lavoro, dal diritto all’istruzione pubblica a quello dell’abitare, considerata la reciprocità con la quale partoriscono gli affetti. Il collante perfetto nella fruibilità quotidiana potrebbe essere sicuramente l’ecologia e la sua transizione nella nuova modalità di vivere il mondo. Transizione ecologica può significare riprendere dal cassetto un altro termine in quiescenza, quello del bene per il prossimo».
La partecipazione è un elemento di valore e dovrebbe riguardare la politica, ma anche e soprattutto l’ambito sociale e culturale, ma troppo spesso evoca scenari senza sporcarsi le mani. Napoli ha bisogno di un orizzonte ma anche di certezze amministrative e comportamentali. Al futuro ci si arriva con atti concreti, costanti e duraturi. Da dove si comincia per allargare la base democratica in città?
«La condotta etica dovrebbe essere una precondizione per chi amministra il pubblico, ma anche su questo punto vanno ricercate le strade della rieducazione e della pedagogia più nuda, metodi poco invasivi sperimentati in società e comunità inclusive come baluardo dell’evoluzione – dobbiamo ripartire dagli aspetti educativi, evitare di puntare sulla vergogna come elemento di sanificazione di danni del presente e di pesantissime eredità. Questo è un punto fondamentale nello sviluppo della città policentrica che immagino, riattivare il gusto per il bello e per le pratiche positive che donano e non sottraggono. Immagino una città in cui le migliori energie siano rubate dalle periferie e portate al centro e forse, perché no, anche un viceversa senza alcun precondizionamento di fondo. Su questo tema si possono scrivere decine e decine di pagine, io penso che la ripresa di questi principi, viaggi in simbiosi con la partecipazione attiva. Oggi chi si avvia per la strada della politica è costretto a subire una serie di condizioni di svantaggio, retaggi e pestaggi psicologici, riconducibili tutti nella semplificazione del tanto siete tutti uguali. Una condanna che condanna all’eutanasia sociale della partecipazione. Allargare la base democratica non solo in senso elettorale significa ricerca e ripresa di un modo di fare apparentemente lontano negli usi e nei costumi, in un linguaggio povero come mai prima. Ricercare ancora e sempre, anche una modalità di confronto meno triviale, ci lascia sognare, perché no, anche da abusivi, una città che metta realmente al centro le persone e non gli interessi dei pochi, elaborando e trasformando in materia i sogni di un popolo realmente resiliente».
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