“5 domande per Napoli”“. Proseguiamo con la nostra rubrica di approfondimento politico. Obiettivo: determinare un quadro di idee, analisi, contributi, dubbi, proposte, di autorevoli commentatori in uno spirito di coraggio, umiltà e compartecipazione, a servizio della città a venire. Ne parliamo con Sergio D’Angelo, presidente del gruppo di imprese sociali Gesco.
1)Napoli è tra più fuochi: un avamposto contro l’autonomia differenziata avanzata dalle Regioni del Nord, una città alla ricerca di un’identità perduta tra le tante “anime” del Mezzogiorno ed un capoluogo che non accetta fino in fondo la sfida nell’ambito dei paesi del Mediterraneo. Avere un’idea di città significa avere un’idea di futuro. Quale la tua?
«Sull’autonomia regionale va detto subito che è un male da evitare. Le conseguenze della riforma del Titolo V della Costituzione che assegnava titolarità alle Regioni in materia sanitaria e di assistenza si sentono tutte e pesantemente, ancor di più in questo momento in cui si allargano le fasce di povertà e aumentano le diseguaglianze sociali. A vent’anni dalla 328, la legge di riforma dei servizi socio-assistenziali, Napoli ha una spesa sociale tra le più basse d’Italia, il che catapulta direttamente agli ultimi posti i diritti dei suoi cittadini, quasi come se fossero di serie B rispetto a quelli di città del Nord come Trento o Aosta, dove la spesa sociale è dieci volte superiore a quella nostra. Inoltre non si sono mai stabiliti livelli essenziali di assistenza, quelli basilari da assicurare a tutti, indipendentemente dal reddito, così ci sono sacche di popolazione che si ritrovano completamente privi della possibilità di usufruire di servizi sanitari, aiuti a domicilio, cure appropriate alla loro situazione. È da loro che bisogna partire, dalle persone più fragili, da quelle disabili, dai poveri, dai migranti, dalle donne vittime di violenza, per costruire una città del futuro più giusta, che possa anche dirsi una città italiana a tutti gli effetti, e non una apartheid del Sud.
Più in generale, la mia idea di città del futuro non può non tenere conto delle grandi questioni dell’oggi. A partire dalla viabilità. Napoli è una città antica, stretta, dove è difficile circolare ed è facile trovarsi imbottigliati in un ingorgo. Il paragone con le metropoli moderne cade subito di fronte a tempi di attesa enormi per autobus e metrò. Il trasporto urbano non può essere un tema di serie B in una città di oltre un milione di abitanti. Bisognerebbe prevedere un implemento del parco autobus utilizzando quelli turistici, oppure farsi carico di parte del costo dei taxi per garantire trasporto pubblico sostitutivo urbano. E rendere possibile il car sharing, tutelando un servizio che altrove è già il futuro della mobilità urbana, e pensare anche al diritto agli spostamenti delle persone anziane o con disabilità.
Una città del futuro per me è quella che riesce a disciplinare seriamente le aree della movida, senza farsi sorprendere dall’assalto selvaggio ai luoghi del divertimento.
Ed è una città in grado non solo di prevedere doppi turni a scuola e reperire altri spazi per aumentare il numero delle aule, ma anche di rendere veramente fruibili tutti i luoghi della cultura, con possibilità di accesso agevolato ai giovani, alle persone con deficit motori, agli anziani.
Poiché temo dovremo convivere ancora per un po’ con il Covid, occorrerebbe potenziare le unità speciali di continuità assistenziale (Usca) e l’assistenza domiciliare integrata, chiamando a raccolta il terzo settore e la sua capacità organizzativa e di reclutamento delle competenze necessarie.
In tempi accettabili decongestioneremmo gli ospedali, ormai al collasso, e miglioreremmo la qualità dell’assistenza; riconvertiremmo parte della spesa prevista per i sussidi; renderemmo più accettabile la convivenza con il virus, per tutto il tempo necessario, riducendo la mortalità.
Inoltre una città del futuro è quella che nel presente non si abbandona al degrado ma ha cura di sé, dei suoi spazi pubblici, dei giardini, dei piccoli e grandi polmoni verdi. In questo momento storico così eccezionale, nessuna considerazione sul welfare può non tener conto che il Covid-19 ha acuito le diseguaglianze, ridotto in povertà categorie sociali prima non considerate a rischio – come quelle legate al business del turismo – e portato allo stremo chi viveva nella cosiddetta “zona grigia”, come padri single, madri sole, donne vittime di violenza o con addosso il carico di intere famiglie».
2)L’esigenza di una piattaforma programmatica propositiva, di medio-lungo periodo, non necessariamente in contrapposizione alle città del Nord, è più che una necessità per Napoli e per il Sud. Questa scelta impone un dialogo pressante con i Governi, qualsiasi essi siano, per un capoluogo che conti e non solo racconti. Il dialogo istituzionale è positivo sempre e comunque oppure deve passare prima per una rottura traumatica, viste le tante “sottrazioni” a cui gli esecutivi nazionali ci hanno tristemente abituati?
«Credo nella forza del dialogo e del confronto, non nelle rotture traumatiche. Il Paese sta vivendo un momento molto difficile, ma occorre comunque uno sforzo per instaurare un dialogo istituzionale che tenga conto delle tante fragilità della città: la mobilità, la manutenzione degli spazi pubblici, la scuola, l’assistenza alle persone più deboli, l’integrazione dei migranti, le vecchie e nuove povertà, la disoccupazione endemica, l’illegalità diffusa. Non esistono supereroi in grado di affrontarle da soli: il dialogo è necessario, come pure un interesse forte sulla terza metropoli d’Italia, la più grande del Mezzogiorno, che è ancora culla di cultura e di civiltà, e ha solo bisogno di maggiore attenzione e cura».
2)Le categorie sociali ed economiche di Napoli molto spesso disegnano “separatamente” il destino dei cittadini, ognuno con la presunzione della conoscenza che diventa verità assoluta e non riproducibile da tutti gli altri. Il dialogo, la sintesi, una comunità di interessi, tra i soggetti sociali della nostra città sono possibili o ci dobbiamo rassegnare per sempre?
«La debolezza produttiva e occupazionale di Napoli e della Campania sta rendendo ancora più drammatica la crisi economica causata dagli effetti della pandemia. Temo che difficilmente gli ingenti flussi straordinari di risorse pubbliche, che pure innegabilmente e meritoriamente si starebbero immettendo nel circuito dell’economia locale, potranno mai compensare la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, né tantomeno potranno mai bilanciare un precario equilibrio, sorretto in parte da attività irregolari che in questo periodo di crisi sono in buona parte saltate. Non si può non prendere atto dell’irreversibile processo di modificazione della nostra struttura produttiva, che dalla manifattura sta virando verso il terziario e il turismo.
Le pre-condizioni perché questa transizione si realizzi compiutamente è che le infrastrutture, pensate inizialmente per l’industria manifatturiera, siano modificate nella loro destinazione d’uso. E ciò deve riguardare principalmente il sistema portuale, i collegamenti autostradali della regione verso siti e mete turistiche da valorizzare o non adeguatamente ancora valorizzati. A questo punto ha poco senso continuare a richiamare gli errori della mancata comprensione di quanto si è verificato ad esempio nelle zone periferiche di Napoli, nell’area Est in particolar modo, nel Nolano, nell’Avellinese e nel Casertano, come se il declino industriale possa essere ancora arrestato.
Quello di cui bisognerebbe prendere dolorosamente atto è la scarsissima probabilità di nuovi ed importanti investimenti industriali. Ed è probabile che, sprecate le occasioni di riconversione industriale, il turismo rimanga l’ultima opportunità di sviluppo, per le maggiori potenzialità di crescita e perché in qualche modo rifletterebbe le vocazioni non del tutto espresse della nostra regione. L’emergenza sanitaria e il confinamento a cui siamo stati costretti hanno messo in evidenza che risorse naturali e paesaggistiche non sono definitivamente compromesse e che i mesi di chiusura sono stati sufficienti a restituirci la bellezza del paesaggio, un mare trasparente e non più inquinato e l’aria respirabile.
Tuttavia è necessario assumere atteggiamenti realistici e ricordare che il gap occupazionale è tale da non poter essere sanato dallo sviluppo del solo settore turistico, che in questo momento è comunque sospeso per il perdurare dell’emergenza Covid. Ci sono almeno due altri settori che consentirebbero altrettante possibilità di crescita: quello agricolo e quello dei servizi di cura alla persona. La forte domanda di cibo di qualità, la crescente integrazione con altri settori presenti sul territorio (appunto il turismo, la ristorazione e la trasformazione agroalimentare), la percezione crescente del ruolo strategico che ha e può ulteriormente avere nella salvaguardia dell’ambiente e nella gestione delle grandi sfide planetarie come il cambiamento climatico ed il risparmio energetico fanno dell’agricoltura un settore che può legittimamente ambire a sviluppare significativi margini di miglioramento. Analogamente l’obiettivo di colmare le differenze tra Nord e Sud del Paese che permangono nell’ambito dei servizi di cura alla persona (nidi, assistenza domiciliare, servizi sanitari e servizi per l’infanzia) consentirebbe di creare nuove opportunità di lavoro sia nel settore pubblico che in quello del privato sociale.
Bisogna però in ultima analisi essere consapevoli che, come fin qui abbiamo avuto modo di constatare, rinviare continuamente queste scelte non attenuerà nel tempo il grado di difficoltà nell’attuarle, ma al contrario saranno richieste a valle risorse economiche di gran lunga superiori di quanto non ne sarebbero servite a monte. Per questo motivo, sebbene si sia ancora nella seconda fase e senza pensare di aver esaurito con i pochi esempi fatti le prospettive su cui scommettere, credo che sia ora di incominciare a prepararsi ad entrare in quella successiva».
3)Dopo il Covid – 19 è cambiato il mondo e le città non potranno restare a guardare. Secondo te, Napoli in quale miglior modo può reagire, quale terreno deve principalmente recuperare per non “perdersi” definitivamente?
«In questa seconda emergenza per il Covid-19 si è riproposta la necessità di definire una strategia di adattamento alla convivenza col Coronavirus, e garantire, soprattutto nelle grandi aree urbane, più prossimità dei servizi e minori spostamenti. Una delle soluzioni possibili sarebbe quella di recuperare aree in disuso e individuare contemporaneamente nuovi spazi. Napoli è piena di spazi ed edifici abbandonati, che un tempo erano scuole, chiese, conventi, mercati, caserme e molto altro ancora. Potremmo con facilità riutilizzare ciò che abbiamo in abbondanza, come le strutture pubbliche o di uso pubblico in disuso (dai palazzi anche monumentali ai capannoni dei depositi Anm), gli immobili confiscati, oppure ampliare per nuove destinazioni delle aree già individuate dal piano regolatore, e quelli acquisiti e da acquisire. In questo modo, si potrebbero offrire nuove risposte di comunità proprio sui temi sui quali la politica e i governi incontrano le maggiori difficoltà.
Penso ai Quartieri spagnoli, a Forcella, alla Sanità ma anche alle nostre periferie e alla necessità di offrire risposte di welfare ai nostri ragazzi, ai giovani di questi quartieri. E penso alla necessità di dover progettare una diversa modalità di fruizione turistica, che tenga conto dei vincoli e delle restrizioni sanitarie con le quali saremmo costretti a convivere. In questo senso la rigenerazione di spazi abbandonati e privi di destinazione può diventare il più potente strumento di rigenerazione sociale e di fertilizzazione di interi territori. Uno strumento efficace di inclusione, che consentirebbe ai talenti di esprimersi e trovare una possibilità, ai ragazzi un’opportunità di crescita per uscire dalla condizione di emarginazione. Anche qui il Terzo Settore può avere un ruolo decisivo, così come ha già fatto e sta ancora facendo sul fronte sanitario e sociale nell’emergenza Coronavirus, dove ha messo a disposizione competenze e capacità organizzative importanti. Sono certo che la ricostruzione non dipenderà solo dalla quantità di risorse disponibili da investire, ma anche dai modelli e dagli strumenti che verranno dispiegati. L’emergenza sanitaria ed il confinamento hanno evidenziato che risorse naturali e paesaggistiche, che si ritenevano del tutto compromesse, possono essere invece recuperate con relativa facilità. Nei due mesi di “chiusura” totale abbiamo visto rifiorire la bellezza dei nostri paesaggi, un mare trasparente e non più inquinato e l’aria respirabile. Il ruolo strategico che ha già e può ulteriormente avere il Terzo Settore nella salvaguardia dell’ambiente e nella gestione delle grandi sfide planetarie come il cambiamento climatico, il bisogno alimentare, il risparmio energetico e la lotta alle disuguaglianze costituiscono il terreno privilegiato dell’impegno che potrà legittimamente ambire a sviluppare, puntando a significativi margini di crescita e a soddisfare bisogni sociali che non trovano ancora risposte adeguate.
Si riparta dunque da qui: dalla necessità di valorizzare il ruolo del Terzo Settore come una risorsa della quale il Paese tutto, soprattutto nei suoi momenti di maggiore difficoltà, non può proprio fare a meno».
4)La partecipazione è un elemento di valore e dovrebbe riguardare la politica, ma anche e soprattutto l’ambito sociale e culturale, ma troppo spesso evoca scenari senza sporcarsi le mani. Napoli ha bisogno di un orizzonte ma anche di certezze amministrative e comportamentali. Al futuro ci si arriva con atti concreti, costanti e duraturi. Da dove si comincia per allargare la base democratica in città?
«Dovremmo partire dal guardare realisticamente alle diseguaglianze strutturali della nostra società, che questa crisi ha soltanto acuito e fatto emergere in tutta la loro evidenza.
Per creare partecipazione occorre rinsaldare i legami sociali, rilanciare occasioni di scambio, anche culturali, che non si riducano alle sole piattaforme social ma possano essere momenti di reale condivisione. Certo, non possiamo ignorare il Covid-19, ormai è una realtà con cui dobbiamo convivere. Eppure ci deve essere una ratio nelle limitazioni alla socialità, perché è impossibile continuare a non disciplinare la movida e poi, però continuare a tenere chiusi i teatri, i cinema, i luoghi di incontro e di scambio di idee e di formazione della cultura.
La partecipazione non si può rendere concreta in apnea. Per cui “allargare” la base democratica per me può avere un senso solo se si fa uno sforzo per ritornare, anche a piccole dosi e con tutte le cautele del Covid-19, sui territori, nei luoghi di produzione della cultura dal basso, tra le persone per accogliere i loro bisogni reali, senza i filtri del pc. Partecipazione è una parola visionaria oggi ma occorre sforzarsi per riempirla ancora di significato, con umiltà e capacità di ascolto».
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