In marzo è stato siglato il “Patto per Napoli”, una serie di finanziamenti statali che dovrebbero colmare il disavanzo nelle casse comunali. Il Patto, però, prevede una serie di misure che contengono dei rischi di privatizzazione e alienazione di beni comuni. Per comprendere meglio le origini del debito comunale e cosa comporti l’accordo siglato fra il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il primo cittadino, Gaetano Manfredi, ne parliamo con Vincenzo Benessere, già attivista di Massa Critica e della Consulta popolare di Audit sulle Risorse e sul Debito della Città di Napoli.
Come si origina il debito del Comune di Napoli?
Per spiegarlo in una battuta, è un debito fuori dal comune. Mi diverto a definirlo così, perché ha caratteristiche molto peculiari. Il debito della nostra città si inscrive nella più complessiva questione della crisi in cui versano gli enti pubblici in Italia. Questa crisi deriva dalle strategie di spending review[1] e dalle ricette di austerità adottate a partire dal biennio 2008-2009, in cui esplose la bolla dei mutui subprime[2]. Questo processo, tuttora in corso, è in realtà generato da una più complessiva crisi strutturale del neoliberismo. Tuttavia, il debito del Comune dipende solo in parte da questa crisi, in quanto trae origine da altri problemi. In breve, dai commissariamenti straordinari, dai contratti derivati sottoscritti con istituti di credito e dai mutui stipulati con Cassa Depositi e Prestiti, i cui tassi di interesse sono una vera e propria speculazione a danno dei cittadini.
Ci puoi spiegare più nel dettaglio?
Per prima cosa, il nostro debito comunale nasce dal ricorso a numerosi commissariamenti straordinari di cui lo Stato ha fatto ampio utilizzo, fino ad abusarne. Finora, Napoli ha attraversato ben cinque periodi commissariali: quello seguito al terremoto del 1980, quello legato alla crisi dei rifiuti, quello inerente il commissariamento di Bagnoli futura, quello riguardante il dissesto idrogeologico e, infine, quello del traffico. Dalla sommatoria di questi commissariamenti, e dalla loro gestione, Napoli ha ereditato circa 300 milioni di euro di debito. Il “circa” non è casuale, ma è motivato dal fatto che possiamo parlare con esattezza soltanto dei debiti relativi al sisma, la cui letteratura e i cui documenti disponibili sono più ampi. In questo, tramite un ricorso, l’amministrazione de Magistris rigettò in capo allo Stato alcuni di quei debiti, che grazie al governo Gentiloni vennero decurtati da 120 a 80 milioni di euro. Riguardo agli altri commissariamenti, a partire da quello sui rifiuti, non si riesce ancora ad effettuare un calcolo preciso dei debiti maturati, in quanto i numeri sono ballerini. Tra l’altro, alcuni documenti non sono disponibili e vi sono delle cause in corso.
Accennavi ai contratti derivati. Ci puoi spiegare cosa sono questi strumenti finanziari?
Sono contratti stipulati tra il Comune e le banche per pagare il debito preesistente. Per semplificare, sono debiti sul debito. I derivati sono strumenti strani e speculativi, molto utilizzati da numerosi comuni italiani. Napoli non si è limitata a sottoscrivere derivati per cifre facilmente restituibili, come nel caso dei comuni di Milano e Torino, indebitatisi fino a 80 milioni di euro. Napoli ha 180 milioni di euro di debito, anche se la cifra potrebbe lievitare ancor di più a causa dei tassi di interesse. Il punto è che i prodotti derivati sono di fatto contratti dalla difficilissima comprensione. Il loro funzionamento, tuttavia, è chiaro: all’inizio, danno una grande liquidità, ma quello che bisogna restituire dipende dalla fluttuazione del mercato. Tra il 2008 e il 2010, l’andamento dei mercati finanziari è stato sfavorevole. Il che ha portato a una lievitazione fuori controllo degli interessi debitori. La Corte dei Conti spesso ha messo in guardia le amministrazioni locali dai contratti derivati e, infine, le Sezioni Unite della Cassazione li hanno dichiarati strumenti illeciti, come nel caso del Comune di Cattolica, perché se non ci sono regole di stipula – come l’autorizzazione del consiglio comunale- non possono essere ritenuti validi. Anche nel caso di Napoli non vi è mai stata l’approvazione del consiglio comunale, motivo per cui quei contratti derivati sarebbero de iure nulli. Ma qui arriviamo alle dolenti note: né l’amministrazione de Magistris, prima, né quella Manfredi, dopo, hanno impugnato la cosa e contestato questa speculazione in modo incisivo.
Perché?
L’Amministrazione cittadina, sollecitata in proposito, c’ha risposto per iscritto. In sintesi, sebbene ci sia la decisione della Cassazione, teme ritorsioni da parte delle banche. La paura è comprensibile, perché effettivamente queste cose sono già accadute. Quando, come Consulta popolare di Audit sulle Risorse e sul Debito, abbiamo consegnato un documento di analisi sulla natura speculativa dei contratti derivati, il Comune di Napoli è stato contatto da una banca, che l’ha “messo in guardia” da eventuali azioni ritorsive. L’Amministrazione non vuole agire in autotutela, perché, a detta dei suoi rappresentanti, potrebbe generare un danno maggiore. Loro preferiscono pagare da qui al 2035 interessi passivi scaturiti dai derivati, nonostante questi contratti siano stati dichiarati nulli. Per riassumere: siamo di fronte al danno e alla beffa. All’epoca, vennero sottoscritti documenti che nessuno capiva. Ci fu entusiasmo, perché al principio c’è stata data una grande liquidità con cui sembrava di poter ripianare i debiti pregressi. Ma il danno è stato immensamente più grande del risultato, aumentando in modo spropositato il debito comunale.
Parlavi di un ruolo della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). In che modo il Comune di Napoli ha contratto debiti anche con questa Spa controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef)?
Il Comune ha in essere 800 milioni di euro in mutui con la Cdp. Molti di questi vennero sottoscritti per tentare di colmare debiti pregressi. Il Comune non poteva garantire alcuni servizi, così sottoscrisse mutui con Deutsche Bank, Banca Intesa e, appunto, Cdp. Per esemplificare, lo schema è questo: il commissariamento dello Stato lascia dei debiti al Comune. A sua volta, il Comune li recepisce, ma non può pagare. In questo modo, accende dei mutui per disporre subito di una liquidità di denaro, ma questi mutui vengono concessi a tassi fuori mercato. Parliamo di un tasso medio superiore al 4%, quando vengono erogati a soggetti privati tra lo 0,95% e l’1,2%. Nello specifico, il Comune di Napoli paga una rata annuale intorno ai 90 milioni di euro di interessi su questi 800 milioni di mutui. Finora, nessuno ha avuto intenzione di andare a trattare con Cdp per abbassare almeno della metà gli interessi sui mutui esistenti. In sintesi, lo Stato taglieggia il Comune, che è un’articolazione dello Stato stesso! Naturalmente, non tutti i comuni italiani hanno queste problematiche. Napoli dovrebbe riflettere su queste peculiarità, perché la gestione del problema finora è stata pessima. Rosa Russo Iervolino, durante il suo secondo mandato, aveva iniziato ad affrontare la questione. Spinto da Massa Critica e altri movimenti sociali, anche de Magistris aveva preso di petto il tema del debito, ma non affrontandolo in modo radicale.
Cosa si potrebbe fare?
La Consulta di Audit sul Debito e sulle Risorse ha definito le tematiche da affrontare, proponendo anche delle modalità di intervento. Non dimentichiamo che, a partire dal 2012, con la spending review, c’è stato un taglio dei trasferimenti statali ai comuni. Un altro ostacolo è costituito dall’armonizzazione contabile, ossia un processo di riforma dei bilanci pubblici, diretto ad omogeneizzare tutte le pubbliche amministrazioni in base a schemi di austerità. A Napoli, ci troviamo un debito totale intorno ai 5 miliardi di euro, ma 1,4 miliardi di questo disavanzo ha una natura finanziaria. Se riuscissimo a decurtare questa componente speculativa, il Comune avrebbe sì un debito alto, ma non diverso da quello di Milano. Si pensi, ad esempio, che Roma ha 13 miliardi di euro di debito. Come dicevamo prima, il debito dei comuni italiani è inscritto nella comatosa questione degli enti locali, che viene fuori da un taglio tremendo delle risorse da parte Stato centrale e da una modalità di fare il bilancio completamente diversa. In breve, anche se si vuole tendere a omogeneizzare la contabilità delle amministrazioni pubbliche, i parametri sono eterogenei e non sono paragonabili. È una brutta gatta da pelare e la questione andrebbe affrontata in tutt’altro modo.
Quando è scaturita l’idea di una Consulta di Audit sul Debito e sulle Risorse?
Formalmente è stata istituita nel settembre 2019, dopo un anno di trattative con l’amministrazione de Magistris sul suo funzionamento. Questo strumento è nato per analizzare il debito del Comune e identificare delle proposte. Dunque, ha svolto sia una funzione analitica, sia proattiva. Questa cosa è singolare. Le commissioni di audit pubblica, finora, sono state introdotte solo in alcuni stati, come l’Ecuador e la Grecia. Ma queste strutture si sono limitate essenzialmente a un compito analitico sul debito dei rispettivi paesi. A Napoli, abbiamo dato un taglio diverso già a partire dalla modalità organizzativa dei lavori della Consulta, suddivisa in quattro commissioni riguardanti: il debito storico (commissariamenti), le dismissioni (piano alienazioni e possibili valorizzazioni per mano pubblica), i derivati e la nuova finanza pubblica. A queste commissioni, se n’è aggiunta una quinta, dedicata a un ulteriore studio sulla trasparenza e la semplificazione della lettura di questioni inerenti la finanza pubblica.
Per quanto tempo sono andati avanti i lavori della Consulta?
Fino al luglio 2021. Poi, come sappiamo, ci sono state le elezioni amministrative poco tempo dopo, che hanno dato il via al corso di Manfredi. Adesso non siamo più Consulta del Comune, ma siamo riusciti ad ottenere un’audizione nella commissione bilancio del Consiglio comunale. Stiamo portando avanti un’attività di monitoraggio e analisi del cosiddetto “Patto per Napoli”, studiando le azioni possibili sul piano di dismissioni che il Comune sta gestendo con Invimit SGR, società che, per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si occupa di gestire e mettere sul mercato il patrimonio immobiliare italiano. Inoltre, stiamo conducendo uno studio sulle aziende partecipate sulle quali il Comune ha annunciato la presentazione di un piano per settembre-ottobre prossimi.
In cosa consiste il “Patto per Napoli”?
Nello stanziamento, da parte dello Stato, di 1 miliardo e 231 milioni di euro, che verranno destinati alle casse cittadine per colmare il disavanzo esistente. Questi fondi verranno erogati nei prossimi 21 anni. Ma per acquisire questi finanziamenti, il Comune dovrà porre in atto una serie di misure. Qui faccio rilevare una prima contraddizione. Il Patto era stato annunciato con grande fanfara una prima volta, nel marzo-aprile 2021, tra Conte (Movimento 5 Stelle), Manfredi (attuale Sindaco, in quota PD), Speranza (Ministro della Salute ed esponente di Art. 1), Letta (segretario nazionale PD). Questi soggetti si erano impegnati a ridurre il disavanzo e il debito del Comune di Napoli in un tempo molto limitato, grazie a un’ingente immissione di liquidi nelle casse del Comune. Si parlava, all’epoca, del ridurre addirittura il disavanzo a zero in tempi rapidissimi, versando dalle casse dello Stato alla città circa 3 miliardi e mezzo di euro.
Invece, cos’è accaduto?
Che quelle promesse sono state pura propaganda elettorale. Su questo tema si è giocata l’elezione di Manfredi. Il Patto per Napoli, in realtà, riguarda una manovra più generale per il sostentamento degli enti locali. Attraverso l’ultima legge di bilancio, lo Stato stanzia i summenzionati 3 miliardi e mezzo a fondo perduto per tutti i comuni italiani- quindi, non solo per la nostra città- che hanno un certo disavanzo pro capite. Napoli riceverà, in 21 anni, 1,2 miliardi di euro ripartiti come 450 milioni nei prossimi cinque anni e poi, a scalare, fino al raggiungimento della cifra. Questi soldi arriveranno a fondo perduto, quindi non andranno restituiti. Però il Comune, per riceverli, dovrà trovare un quarto di questa cifra attingendo alle proprie risorse, mettendo sul mercato una parte di patrimonio e riorganizzando le aziende partecipate.
C’è il rischio che aumentino anche le imposte locali?
Certo. Non a caso, la questione è stata portata in Consiglio comunale. Si sta ragionando attorno ad un ulteriore aumento dell’Irpef e delle tasse di sbarco, che dovrebbero portare circa 308 milioni di euro a carico dei contribuenti. Dall’Amministrazione hanno detto che faranno di più e che metteranno in campo una fortissima riscossione dei crediti. Ma, eventualmente, questa cosa riguarderebbe l’attingere risorse, non la riduzione del debito. L’unica cosa che appare certa è l’aumento della quota dell’Irpef, in deroga al massimo che già paghiamo. Ad ogni modo, il Patto per Napoli porterebbe nelle casse comunali in media 60 milioni di euro all’anno, a fronte degli 80-90 milioni di euro di interessi che ogni anno paghiamo alle banche. Attenzione, il Patto è un importante contributo, ma bisogna capire questi soldi non è che chissà quanto colmino il nostro disavanzo.
Non era meglio ritrattare prima gli interessi con le banche e dopo avere questi soldi?
Esatto. Quel quarto che il Comune deve impegnarsi a trovare verrà preso dai contribuenti. Pagherà chi ha sempre pagato. Non essendo stata fatta una ricognizione sull’evasione fiscale, la crisi verrà scaricata sui cittadini, sui lavoratori, sulle fasce più deboli della popolazione. Eppure, sono i grandi contribuenti che devono più soldi al Comune. Alcuni di questi, per giunta, sono grandi asset pubblici, come l’Università, che deve circa 30 milioni alle casse comunali. Per non parlare dei grandi gruppi privati. Chi doveva già pagare, continuerà a fare il furbo ed evadere. Da un punto di vista di classe, questa cosa è inaccettabile. Bisogna trovare soluzioni per riscuotere soldi dove ci sono, andando a prenderli dalle cartelle esattoriali che devono versare più di un milione di euro al Comune (parliamo di circa 90 soggetti). Tra l’altro, la riscossione di soldi da 90 soggetti comporterebbe un lavoro burocratico completamente diverso rispetto all’andare a riscuotere circa 150 mila multe non pagate, su cartelle da 800 o 1000 euro. Il che non vuol dire che anche questi soldi non vadano recuperati. Il rischio è che si faccia i forti coi deboli e i deboli coi forti. Bisogna andare prima da chi deve più denaro, perché 308 milioni di euro non possono essere presi dai soliti contribuenti.
Cosa ci puoi dire sulla messa a reddito del patrimonio?
Ci sono due fasi. Nella prima, il Comune sta preparando una lettera di intenti con Invimit SGR che, come accennavo, è una società partecipata dello Stato che gestisce il patrimonio pubblico degli enti locali. Al suo interno, ci sono dei fondi o dei capitolati, dove Stato e Enti locali mettono soldi sotto forma di patrimonio. Questi fondi, però, sono in parte gestiti da privati, tra cui figurano i più grandi immobiliaristi italiani. Potremmo trovarci all’improvviso un contratto con Invimit SGR che potrebbe gestire l’alienazione del patrimonio pubblico tramite privati. Questo perché nessuno le impedisce di dare un subappalto o la gestione di servizi, come la vendita, a un privato. Con l’alienazione di 600 immobili, il Comune dovrebbe recuperare circa 90 milioni di euro. Fra questi, la Galleria Principe di Napoli, che sarà tra i primi immobili ad essere messa sul mercato. I rischi di ingresso dei privati sono enormi.
Quindi, possiamo parlare di svendita a privati del patrimonio pubblico?
La seconda fase rischia di essere molto più perniciosa. Potremmo avere un’alienazione spinta, addirittura mettendo in mano di terzi (la Giunta), e non del Consiglio comunale, la gestione del patrimonio. Questo, ad esempio, è stato un punto di forza delle amministrazioni de Magistris, che avevano tolto a Romeo Immobiliare la gestione del patrimonio pubblico. Si pensi che, dopo vent’anni di conduzione di questo delicatissimo settore pubblico da parte di un privato, non c’era neppure una lista degli immobili del Comune. Certo, le amministrazioni de Magistris non è che abbiano generato chissà quali risultati, ma almeno hanno impedito grosse privatizzazioni e hanno salvaguardato delle proprietà pubbliche. Non dimentichiamo poi, che c’è stata l’esperienza dei beni comuni, che è stata in grado di sottrarre al mercato parecchi luoghi di proprietà pubblica. Riassumendo: la gestione della fuoriuscita dal debito, anche se non è gestita da privati, attualmente presenta una governance di tipo privatistico. E, ciò che è peggio, è che ancora una volta ci troviamo in una situazione in cui il patrimonio pubblico viene messo a garanzia e saldo del debito.
Come si può agire, invece, rispetto ai mutui con Cassa Depositi e Prestiti?
Il punto è questo, Cdp è al 78% pubblica (controllata dal Ministero Economia e Finanze) e al 22% di fondazioni bancarie, che dunque non ne detengono la maggioranza. Ma, di fatto, questa struttura è una società per azioni, che gestisce risparmi pubblici con una logica privatistica. Su questo, l’associazione Attac Italia e il Comitato per l’abolizione del debito illegittimo (Cadtm) hanno fatto decine di studi. Per com’è impostata attualmente, la Cdp se ne frega delle politiche di sovvenzionamento pubblico, non sostiene investimenti in infrastrutture e lavora solo sull’utile. Non solo. Sappiamo che la Cdp ha messo sul mercato asset strategici. Una parte delle nostre infrastrutture, come il 35% delle quote di Cdp-reti, sono già di proprietà del governo della Repubblica Popolare Cinese. C’è di più, quando Cdp dà mutui agli enti locali, lo fa come fosse una banca, non li agevola, ma valuta il loro rating: se è basso, alza i tassi di interesse; viceversa, li abbassa. Vale a dire che gli Enti locali vengono trattati come clienti e non come una parte dello Stato. Quando si fanno interessi al 4%, non si può parlare di prestito, ma di strozzinaggio. Se sono un ente locale e ho una difficoltà, mi rivolgo allo Stato e vengo trattato come da una banca privata, se non peggio. Uno dei nuclei fondamentali della speculazione sugli enti locali è proprio questo ragionamento.
Ma se Cdp dipende da un ministero, non si potrebbe fare qualcosa?
Il Mef potrebbe sempre intervenire. Tuttavia, ogni qualvolta si formula una proposta di ristrutturazione del debito e di revisione al ribasso dei mutui, non si guarda mai a una diminuzione degli interessi. Ciò che si fa, è agire nella direzione di uno “spalma-debito” nel tempo. In che modo? Si abbassa la rata all’inizio, per alzarla poi negli anni. Se gli enti locali non alzeranno la voce in modo organizzato, questa storia non sarà mai risolta. Non bisogna “spalmare il debito” negli anni, ma bisogna abbassare gli interessi. Perché Cdp gestisce i risparmi dei lavoratori e dei contribuenti e non può far pagare due volte dei debiti. È questo il meccanismo che va interrotto.
Mario Draghi è stato chiamato a gestire i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Eppure, più che a una ripresa, non ti pare di assistere a un’ondata di rincari e privatizzazioni?
Sembra che, dopo anni di austerità, in Italia sia iniziata una fase di politiche espansive. Ma teniamo a mente ciò che dicevamo riguardo il Patto per Napoli che, nella migliore delle ipotesi, va a pareggiare ciò che c’è stato tolto, ma in 21 anni. E facendo pagare un carissimo prezzo a lavoratori, cittadini, fasce deboli della popolazione. Ci troviamo in una situazione in cui gli enti locali hanno visto decurtati i loro trasferimenti fino a 750-800 milioni di euro. Fra l’altro, a fronte di questi tagli, doveva essere attivato un fondo della perequazione, che non è mai partito al 100%. Gli stati europei sono stati soggetti a 10-12 anni austerità e hanno applicato i programmi della Troika[3]. Il disastro di queste ricette è sotto gli occhi di tutti.
Cosa intendi?
Il Pnrr va a dare un po’ di ossigeno agli stati dopo tanti anni di austerità. I soldi vanno gestiti bene e si cercherà di farli fruttare. Ma non c’è un vero investimento. Il Pnrr va a finanziare asset strategici, ma, nel nostro caso, il Comune ha deliberato 302 milioni di euro in progetti per il Pnrr, tra cui investimenti su trasporti, patrimonio (eco-quartieri a San Giovanni e Scampia), viabilità e infrastrutture di base. Se tutti questi fondi non verranno blindati all’interno di una cornice pubblica, avremo dato soldi pubblici a privati. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. Se a settembre, col piano comunale sulle aziende partecipate, divideranno il trasporto su gomma dal trasporto su ferro in Anm[4], dando in gestione a un privato uno di questi due rami, avremo utilizzato soldi pubblici per favorire speculazioni. La sintesi è che il Pnrr è certamente una misura migliore del Piano europeo di stabilità. Ma bisogna prestare grande attenzione a cosa accadrà, perché va monitorata la gestione di questi fondi affinché non vengano regalati soldi pubblici ai privati. Com’è già successo a Milano e Torino. Inoltre, bisogna considerare che il Pnrr rientra in un ambito di aumento delle materie prime e del costo dell’energia. Questi soldi, come afferma anche il Sole 24 ore, possono essere risucchiati da quelli che sono i problemi del sistema di produzione capitalista, che ha fatto aumentare queste risorse al di fuori del controllo dello Stato.
Il Comune di Napoli riuscirà a gestire questi fondi?
Il Pnrr prevede uno sforzo di tipo amministrativo, che spesso i comuni non sono in grado di sorreggere. Spesso, però, a fronte dei tagli del passato, non si vede l’ora di dire che “abbiamo perso fondi” o “non siamo stati capaci di spenderli”. La verità è un’altra: bisognerebbe lavorare per recuperare personale e risorse. Il governo non ci sta regalando soldi. Bisogna riappropriarsi della discussione e della proposta. I soggetti che presiedono il governo centrale e l’amministrazione cittadina sono di natura tecnica, ma il monitoraggio popolare può fare la differenza. Il Pnrr va studiato non solo dagli enti locali, ma dalle popolazioni e dalla gente che vive in questo Paese. Queste risorse devono essere monitorate da audit, sindacati di base, partiti, movimenti o dai parlamentari, che possono presentare anche delle interrogazioni in proposito.
Prima menzionavi la Romeo Immobiliare. Che ruolo potrebbe svolgere in questa fase?
Sappiamo che ha provato a prendere il controllo della Napoli Servizi, la principale azienda partecipata del Comune di Napoli. De Magistris, da sindaco, ha evitato questa situazione. Romeo deve tanti soldi al Comune, ma è più forte di dieci anni fa. Bisogna stare attenti, perché questi grossi gioielli che il Comune metterà sul mercato per fare cassa, corrono il rischio di finire nelle mani di grossi privati. Se, ad esempio, si porrà sul mercato la Galleria Principe a 20-30 milioni di euro, chi avrà da subito questa liquidità? Il timore è che siano sempre gli stessi, che intendono divorare fette di pubblico.
I privati vogliono mettere le mani sulla città?
Questi grossi gruppi, come Caltagirone e Romeo, sono un potenziale pericolo. Anche per questo bisogna fare una grossa battaglia sugli articoli 41, 42, 43 della Costituzione, in cui si parla dello scopo sociale della proprietà privata. Bisogna insistere sulla natura della proprietà privata, che non è inviolabile. Se il patrimonio pubblico verrà acquistato da un privato, il Comune dovrà porre un vincolo per consentire una funzione sociale di questi beni. Altrimenti, si corre il rischio di far finire luoghi pubblici nella ricezione turistica privata, escludendo gli abitanti dalla loro fruizione. Il rischio è che, abbassando la guardia, alcune cose uscite dalla porta potrebbero rientrare dalla finestra. Non a caso, lo stesso rischio interessa l’avvenire di Bagnoli. Insomma, non dobbiamo delegare ed essere spettatori passivi. Dobbiamo partecipare attivamente alla gestione di questi fondi. In ballo, c’è il futuro della città.
In altri termini, ci vuole un monitoraggio popolare sulla gestione dei fondi Pnrr?
Assolutamente, sì. Bisogna fare attenzione a come e dove questi soldi andranno a finire. Ricordiamoci che fine hanno fatto i fondi del Piano Marshall, della Cassa del Mezzogiorno, dell’Iri. Si sono fatte gigantesche speculazioni private coi soldi pubblici, senza porre rimedio ai problemi cronici del Mezzogiorno e di tutto il Paese. In questo, la retorica del “governo dei migliori” è molto pericolosa, perché vuole strappare alla popolazione un pezzo fondamentale di discussione democratica e partecipazione diretta alla gestione di risorse strategiche.
©Riproduzione riservata
ALCUNE FONTI E LINK CONSULTABILI:
https://www.comune.napoli.it/pattopernapoli
https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/39860
https://www.fanpage.it/napoli/patto-per-napoli-draghi-scheda/
[1] Letteralmente: revisione della spesa pubblica, per cui si intende un processo volto ad efficientare le finanze pubbliche per contrastare lo sperpero di risorse. In realtà, la spending review ha finito col comportare tagli lineari agli stanziamenti dati ai Ministeri, nonché tagli ai trasferimenti di risorse agli Enti locali. Queste politiche, ispirate a criteri neoliberisti, anziché riflettersi sulla riduzione degli sprechi, hanno prodotto una diminuzione della quantità e qualità dei servizi essenziali erogati ai cittadini.
[2] Finanziamenti erogati a una fascia di popolazione ad alto rischio di insolvenza. Questi prestiti speculativi, erogati perlopiù da istituti bancari statunitensi, hanno portato all’esplosione di una crisi finanziaria che ha avuto gravi ripercussioni in Europa e nel Mondo. In Italia, gli effetti di questa grande recessione si sono palesati nel 2008. Sulla base di questa crisi strutturale del capitalismo, i governi occidentali hanno spinto politiche di austerità con enorme danno delle classi lavoratrici e delle fasce più deboli della popolazione.
[3] Per troika (termine russo) si intende la triade Commissione europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale. Questo insieme di soggetti creditori ha determinato le politiche di austerità che si sono abbattute su tutti i paesi europei, in particolare sulla Grecia, portandoli a tagli drastici della spesa pubblica per servizi essenziali come l’istruzione, la sanità, la ricerca, il lavoro, lo stato sociale. Di fatto, col pretesto del pagamento dei debiti pregressi, le ricette della troika hanno portato sul lastrico interi paesi, favorendo la privatizzazione delle principali banche e infrastrutture pubbliche.
[4] Azienda Napoletana Mobilità.