Una mattina di poco tempo fa, devo necessariamente raggiungere Fuorigrotta. Per evitare il traffico pedonale di Toledo e piazza Trieste e Trento ho deciso di attraversare i quartieri scendere a via Chiaia e arrivare a piazza Vittoria dove più agevolmente posso prendere un mezzo di trasporto.
Quando da salita Trinità degli Spagnoli mi immetto in vico Conte di Mola, la strada sembra perdere l’anonimato e vestirsi delle parole di Lilì Kangy, la canzone scritta da Giovanni Capurro e Salvatore Gambardella nel 1905. Narra la storia di una ragazza giovane che dopo aver scelto di fare la “sciantosa” (chanteuse in francese, ovvero cantante), decide di cambiar nome da Concetta a Lilì Kangy, dove “Kangy” diventa un modo francesizzato per dire Concetta.
La protagonista, che orgogliosamente rivendica di provenire da vico Conte di Mola, sceglie un nome esotico più seducente, come di moda in quel periodo, per meglio competere con le altre sciantose. Presentandosi un po’ come francese, un po’ come spagnola, la provocante Lilì conquista il pubblico aiutata dal ritmo spumeggiante della musica e da una simpatica sfrontatezza tutta partenopea.
Napoli, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento[1] conosce un periodo veramente creativo e fertile per autori e musicisti: vive la sua Belle Époque. Già da tempo è considerata la capitale mondiale del bel canto, tuttavia è in questo periodo che la melodia e la poesia partenopea raggiungono il loro massimo splendore. Lilì Kangy viene scritta come una macchietta.
La macchietta, pur derivando da macchia che stava ad indicare la varietà dei colori tipica del trucco degli artisti, viene definita da Ferdinando Russo come ”una canzonetta appena cantata e solo un po’ sussurrata che, serbando tutto il carattere napoletano, doveva delineare tipi, non sospirare d’amore; e questi tipi, curiosi, comici e grotteschi, dovevano essere scrupolosamente interpretati”[2].
La “macchietta” metteva insieme il canto, il teatro comico, l’arte della deformazione e del “ridicolo” applicata a personaggi caratteristici della vita quotidiana: erano brevi e ironiche esibizioni realizzate spesso nei Cafè-chantant. Lilì Kangy non è solo una macchietta divertente ma testimonianza storica di un’epoca ben precisa della Storia Musicale, proprio quella del café chantant.
Il Café Chantant, in italiano caffe-concerto, nato a Parigi nel 1791 con il Café d’Apollon, dove insieme alle consumazioni al tavolo venivano offerti spettacoli di intrattenimento come, canzoni, giochi di prestigio, barzellette e altre forme d’arte: ha avuto il massimo sviluppo intorno al 1864 ed è durato fino al 1914.
In Italia il primo caffè concerto è stato aperto a Napoli nel 1890 nella Galleria Umberto I con il nome di “Salone Margherita”. A lanciare il brano Lilì Kangy non è stata una donna ma un uomo Nicola Maldacea[3], che l’ha presentata in chiave ironica e con abiti femminili. Non si tratta, comunque, dell’unico caso di canzone lanciata da un uomo travestito. Ninì Tirabusciò, per esempio, è stata presentata allo stesso modo, e a interpretarla è stato il grande Gennaro Pasquariello[4].
Nella Napoli dei café chantant come il Gambrinus, il Salone Margherita e tra i teatri, l’Augusteo, l’alternanza dei sessi, interpretata dal medesimo attore o attrice, costituiva un ulteriore pretesto per sorridere. Lilì Kangy che fu la canzone preferita della più famosa “sciantosa” dell’epoca Lina Cavalieri, vanta uno sterminato elenco di interpreti: da Olimpia d’Avigny a Gina de Chamery, da Miranda Martino ad Angela Luce, da Maria Campi a Virginia Da Brescia fino all’israeliana Noa che durante il Premio Carosone tenutosi a Napoli nel 2006, ha eseguito una versione di Lily Kangy tradotta in ebraico.
Dopo aver percorso un centinaio di metri o poco più di vico Conte di Mola, imbocco a sinistra una strada con una lieve pendenza: Vico Lungo Trinità degli Spagnoli. Sulla mia sinistra stanno salendo due donne. Tra di loro, sotto il braccio della più anziana, un robusto giovane non vedente.
L’uomo, forse perché finalmente può muoversi fuori casa, è felice: ride e ruota la testa; il capo sembra un radar pronto a captare i suoni che si riversano nella strada in questo ottobre luminoso e piacevolmente estivo. Subito dopo l’incrocio con via S. Mattia, in via Cedronio, quando la strada diventa più larga ed animata da negozi, mi posiziono in un angolo e decido di chiudere gli occhi per provare ad ascoltare.
Il risultato è straordinario: riesco a sentire le voci che si scambiano le signore da due balconi vicini anche se non ne comprendo il significato per la distanza. Dalla parte opposta, da un altro balcone o forse una finestra, mi arriva il suono di una canzone che con fatica riesco a riconoscere Tuppe tuppe mariscià[5] cantata da Maria Paris.
Ad un certo punto è la voce di una donna a ripetere a gran voce: ‘A sapite a Carmilina – Ca sta ‘e casa ‘ncopp’ ‘a scesa? – È ‘na mala chiappa ‘e ‘mpesa – Vujell’avit’ ‘a fàarrestà – Mo’ ve dico, mariscià – Mo’ ve conto, mariscià!
È come se volesse cantare o meglio gridare la strofa a qualcuno o a qualcuna dei dintorni. Intanto si avvicinano persone che dialogano con una lingua molto ricca di consonanti[6] e povera di vocali dove prevalgono suoni che dalla faringe alla laringe richiedono l’emissione di un fiato: a passarmi accanto sono due arabi.
Quando riapro gli occhi e continuo a camminare sono più sensibile alle voci dei dintorni e riesco anche a cogliere il dialogo di una simpatica vecchietta che fa notare i difetti e la scadente qualità dei cachi per abbassarne il prezzo e la voce rassicurante del fruttivendolo che non vuole cedere.
Più avanti lo sfregamento stridulo dei badili che strisciano sui basoli per “impastare” la malta di una casa in ristrutturazione, il rumore meccanico e ripetitivo che cambia frequenza quando deve adeguare la velocità al percorso della stoffa di una macchina da cucire. Il sarto che la utilizza ha un laboratorio tanto piccolo da utilizzare lo spessore del muro della porta per il suo strumento di lavoro. I clacson delle auto congestionate nel traffico, il rumore delle porte che si aprono e chiudono alla fermata dei bus, le moto e i motorini che sfrecciano o si incuneano tra le macchine ferme, mi avvertono che sono a piazza Vittoria dove la città presenta altri suoni.
Claudio Corvino autore di un interessante volume sulle voci della strada, sulle musiche della tradizione, e i rumori di una città pulsante di vita, scrive: «… osservare Napoli dando la precedenza ad un senso come l’udito anziché alla vista, porta non solo a percezioni, ma anche a considerazioni molto diverse da quelle cui siamo abituati»; perché «contrariamente a quanto si penserebbe, il paesaggio sonoro cela più informazioni di un paesaggio “normale”, esclusivamente visivo[7]». Quando il terreno di indagine è una città che si conosce perché vi si è vissuti, l’illustrazione è più facile da riportare e più facile da spiegare.
Quando ascolto un brano[8] dell’artista napoletana Gaia Eleonora Cipollaro che, come chanteuse, ha scelto di chiamarsi Dada resto impressionato. Il brano “Cavala”[9] ha un sound innovativo ed originale. È cantata in un napoletano reso musicale e poetico per la scelta delle parole funzionali al suono, per la base elettronica che valorizza i glissati arabeggianti.
Su Instagram Dada scrive: «Cavala è la Vita … Quella vita unica, personale eppure così gigante, immensa, comune a tutti… È quel misto di coincidenze, istinto e verità che fanno piombare un essere umano nel pieno dell’esistenza e lo fanno trottare, nel bene e nel male, verso i suoi unici e legittimi orizzonti. … voglio dedicare questa galoppata in musica a ciascuna persona: siate liberi, coraggiosi nella timidezza e sciogliete la criniera della vostra essenza nel vento… ».
E in occasione della presentazione di un mashup[10]: «Mi piacciono le ‘mmescafranscesca: ho sempre pensato che le cose, le persone, le idee che sembrano più distanti, in realtà poi si rivelano quelle più preziose quando si avvicinano e si miscelano insieme».
E quando ci sono stati i bootcamp[11] gli scontri per realizzare i Roster (gruppi) da portare all’ultimo fase di un talent show ha spiegato agg fatto fà capa e capa a Nancy Sinatra e Renato Carosone… “ma che sta succerenne” lungo la schiena; proprio come rimanevo da piccola, a metà tra la soddisfazione e l’incertezza, seduta a guardare il gran casino che avevo fatto un attimo prima dipingendo, incollando, modellando la qualsiasi: “Ah! Che piacere, ho creato qualcosina”, pensavo e lo penso anche stasera.
I suoi video si sposano con le canzoni e creano un mondo grafico e sonoro coloratissimo e surreale. Siènte ‘e rrise[12], ovvero: senti che risate è una canzone in napoletano, francese, inglese che coinvolge, impensierisce e travolge. «Ho composto la canzone dopo aver risposto sovrappensiero a mia madre in dialetto napoletano, che è la lingua del mio corpo e del mio cuore», racconta la cantante.
«Vivo in dialetto. Sono ispirata spesso dalla giungla onomatopeica del centro storico di Napoli, in cui sono cresciuta e vivo e mi piace fare leva sulla genialità sbrigativa e la profondità emotiva di questa lingua per raccontare a modo mio esperienze comuni, ma da punti di vista inusuali»[13].Per una canzone incentrata sul concetto di voglia, ha pensato a un video pieno di bocche, «invito a curiosare in una sorta di universo surreale e confuso. Il mio scopo era rappresentare proprio il gusto fantasioso e improvvisato tipico del concetto di voglia. È una visione fugace, ma intensa, un desiderio talmente carico che, dopo il suo soddisfacimento, si accartoccia nel “sapore di un attimo” e basta. Succede di tutto, ma va via velocemente… come una caramella. Per fortuna Samantha Bisogno, mia amica e graphic designer, ha colto al volo i miei propositi e ha ordinato le mie idee e realizzato questo videoclip. Ci siamo divertite molto».
E quando parla di “Gianna Oh“[14], il singolo realizzato insieme con il dj e producer Dashikiche definisce un brano palpitante perché incarna l’essenza della nascita scritto in lingua napoletana arcaica torna sulla sua relazione con le sonorità partenopee «Sì, esatto, quello della canzone è il dialetto storico, più verace, “delle nonne”. Oggi si sono sviluppati nuovi modi di parlare napoletano, questo è sicuramente il più fedele alla tradizione. Più che una scelta, per me è stata un’esigenza, perché io sogno e penso in napoletano, lo adopero tutti i giorni come se fosse la mia lingua madre, ed effettivamente lo è. É stato bello comprendere che potevo usare la lingua del mio cuore per sviluppare i miei progetti artistici[15]»
In un’ intervista con Red Ronnie del giugno del 2017, dopo aver ribadito di essere una cantautrice ha precisato di voler seguire la Psicologia della voce[16] per capire meglio tutto quel mondo che c’è dietro la musica. L’uso della voce serve, in genere, sia per veicolare informazioni sia per esprimere emozioni; il modo in cui la voce si intreccia con la parola consente di creare fenomeni comunicativi particolari quali l’ironia, la menzogna, l’empatia, mentre quando si appropria di un altro codice, quello musicale, per esprimersi attraverso il canto sa trasmettere impressioni e commozioni oltre a cambiare il nostro modo di cantare in funzione delle nostre emozioni[17].
Pur essendo la funzione comunicativa della voce importante per conoscersi e conoscere, oggi viene studiata poco dalle scienze della comunicazione ed i suoi studi non sono utilizzati in ambito scolastico. Quando si parla di “terzo orecchio”, non ci si riferisce a quello che si ascolta con le parole delle persone ma a quello che si coglie attraverso gli aspetti emotivi della voce. Nella lingua e nella canzone napoletana la voce gioca un ruolo importantissimo. Napoli ha una lunga tradizione musicale sia in quella lirica che in quella leggera, molti sono gli artisti che ha fatto crescere nel suo humus culturale e molti i capolavori che ha ispirato.
Un esempio è quel brano incredibile L’erba cattiva di un cantautore straordinario Enzo Gragnaniello[18] riarrangiato in blues da un talentuoso chitarrista italiano e internazionale: Gennaro Porcelli.
Ogni città ha una propria identità sonora che il più delle volte non viene né valorizzata né percepita come un vero e proprio patrimonio culturale. Tra le risorse immateriale di Napoli due di sicuro hanno una primaria importanza: la lingua e la musica. La formazione della lingua napoletana è stata influenzata di sicuro dall’essere la città crocevia di popoli e culture.
Dagli antichi greci che l’hanno fondata nel VI secolo a. C. lasciando la matrice greca in molti termini partenopei alla profonda influenza data dal latino dopo che nel 326 a. C. la città diventò una colonia dell’impero romano.
Dopo la caduta dell’Impero romano le relazioni con gli arabi, i normanni, i francesi, gli spagnoli e perfino gli americani, durante la seconda guerra mondiale, hanno influenzato ed arricchito il napoletano con la nascita di nuove espressioni. Per secoli il napoletano ha fatto da ponte fra le culture orientali e quelle occidentali dell’Europa settentrionale; veniva parlato dalla popolazione, ed era usato nelle udienze regie.
Ci sono testimonianze scritte di napoletano già nel ‘960 con il famoso Placito di Capua[19]: l’autore del suddetto documento è il giudice di Capua Arechisi chiamato a risolvere una diatriba fra l’Abbazia di Montecassino ed un privato di nome Rodelgrimo mentre è dell’inizio del Trecento La Storia della distruzione di Troia tradotta in lingua volgare da Guido delle Colonne. Con la fine del Regno delle Due Sicilie inizia il processo di omologazione alla lingua italiana.
L’idioma napoletano è legato alla tradizione letteraria, soprattutto con il teatro, la poesia, la novella e alla tradizione musicale con la canzone e l’opera lirica. Il napoletano è presente all’interno dell’Atlante delle lingue in pericolo[20], un catalogo in cui sono censite, nel momento in cui scrivo, 2.465 lingue che a vari livelli rischiano la scomparsa.
Il napoletano, senza entrare nella diatriba lingua–dialetto, è riuscito a resistere nel tempo descrivendo le emozioni della città: si è fatto ambasciatore nel mondo di stati d’animo universali. Per questo motivo va tutelato come un bene culturale identitario ed economico da chi si occupa delle sorti della città. Lucio Dalla in una intervista disse «… Io non posso fare a meno, almeno due o tre volte al giorno di sognare di essere a Napoli. Sono dodici anni che studio tre ore alla settimana il napoletano, perché se ci fosse una puntura da fare intramuscolare con dentro il napoletano, tutto il napoletano, che costasse anche duecentomila euro, me la farei, per poter parlare e ragionare come ragionano loro da millenni»[21].
La canzone a Napoli, grazie all’uso della lingua/dialetto nelle sue diverse declinazioni, da quella letteraria a quella parlata nel quotidiano, non ha mai smesso di raccontare i mille volti della città.
Il musicologo Pasquale Scialò, che nell’opera “Storia della canzone napoletana”[22] racconta la città e il Paese, in un’intervista[23] dopo aver detto che il napoletano con i diversi gerghi, i neologismi e le ibridazioni, ha già una propria musicalità e morbidezza afferma che in pochi altri luoghi al mondo come a Napoli è stato messo in musica tutto quanto fosse parte della vita pubblica e privata della città: dalle storie d’amore, di odio o di passione alle vicende politiche, dalla cucina alla guerra, dall’emigrazione alla disoccupazione, dalla malavita alla dolce vita, dalla toponomastica all’architettura. Alla domanda Dove sta andando la musica napoletana? l’autore risponde “… sorvolando a volo d’uccello sulla produzione della musica napoletana contemporanea, introduco la metafora dell’arcipelago, inteso come un insieme di isole (i diversi filoni) immerse nel mare (la lingua napoletana) con frequenti collegamenti – alcuni in superficie (affinità melodiche, ritmiche, armoniche) e altri in profondità (scambi tra sistemi sonori e matrici) – a tenerle unite, con la costa (tradizioni del canto napoletano) che fa da cornice. Questa immagine dall’alto ci aiuta a superare categorie statiche, come la dicotomia colto-popolare, elementi autoctoni e d’importazione, che non tengono conto di quanto le correnti liquido-sonore abbiano da sempre prodotto, e tuttora producano, frequenti scambi, ma anche conflitti e collisioni, nel loro continuo movimento.
Per poter sostenere questa ricerca musicale si potrebbe pensare a un’intesa tra Comune – Regione – Stato nazionale per realizzare un grande contenitore un Auditorium un’Oasi della Musica, adatto a ospitare eventi musicali ed in particolare quelli di Musica napoletana ed una rassegna di Musica Internazionale Mediterranea. Fino al 1971 la città già ha avuto una rassegna il Festival di Napoli simbolo della Canzone napoletana nato nel 1952, l’anno successivo alla nascita del Festival di Sanremo. Oggi i tempi sembrano maturi per immaginare un Festival Internazionale di Napoli dove ospitare e far esibire le culture musicali di tutti paesi Mediterranei.
Il cantante algerino Akim El Sikameya che ha dato vita a un gruppo composto da artisti tradizionali, provenienti dalle diverse parti del Mediterraneo, ciascuno ai massimi livelli della sua scuola, per spiegare la sua esperienza ha affermato: «Ho voluto dimostrare e dire finalmente che la cultura mediterranea è un’unica cultura, le sue frontiere sono solamente politiche. Ho scelto i musicisti e le opere in maniera federale, per cosi dire: ognuno ha cantato nelle lingue degli altri, per far smarrire l’ascoltatore che non riesce a capire a quale cultura appartenga ciascuna canzone».
Si tratta di lavorare sul principio dell’unità e dell’unicità della cultura mediterranea, paradigma di tante possibilità espressive e non solo espressive.
Quando nel pomeriggio torno a casa e nel silenzio della mia stanza, attraverso le voci e i suoni, ripercorro gli eventi della giornata mi rendo conto che le risorse immateriali sono sorprendenti: hanno la capacità di mettere in moto quelle materiali. Tutelarle, valorizzarle e svilupparle è un dovere per noi tutti: lo dobbiamo a quelli che verranno dopo di noi a una città straordinaria che le ha custodite, difese e fatte crescere nel corso dei tempi.
«Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Napoli è l’altra Europa». ( Curzio Malaparte, “La pelle”).
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Il testo di “Cavala”
Tengo tre uocchie
Duje normali
Uno ‘mmiezzo ‘a fronte
È pe’ sgamà
Tutti ‘e scieme
Core zulù
Capatosta
Nun dà retta a nisciuno
Ma se t’ha siente
Stamme assieme
Oinè, amaramente
Tieni a mente
Siente, siente
Oinè, amaramente
Me ne moro
Pe’ tramenta
E aballa
E aballa
Che ‘a vita è ‘na cavalla
Dacci ‘o pacchero
E se scarfa
E aballa
Futti e magna
Che ’a vita è ‘na cavalla
Bravo, balla
Moscioscia forte
Tutte ‘e vulie
Che ‘o viento s’è porta
Va’, fallo cu
Sentimento
Che curallina
Vocca ‘e rosa
Culo a mandulino
‘O sai sunà?
‘Mparatillo
Oinè, amaramente
Tieni a mente
Siente, siente
Oinè, amaramente
Me ne moro
Pe’ tramenta
E aballa
E aballa
Che ‘a vita è ‘na cavalla
Dacci ‘o pacchero
E se scarfa
E aballa
Futti e magna
Che ’a vita è ‘na cavalla
Bravo, balla
Pizzeche ‘e zucchero
‘Nu poco d’acqua ‘e mummara
Ammiscabbuono e susete
Che s’ha dda fa’
Puziona magica
Guagliò, però hê a fa’ pratica
Te leva pure ‘a sciatica
NOTE
[1] Un periodo di circa 40 anni che va dal 1880 e termina poco dopo la fine della grande guerra.
[2]Ferdinando Russo definisce la macchietta in un articolo apparso sulla rivista “La Tribuna” del 18 agosto 1925.
[3]Nicola Maldacea (Napoli, 29 ottobre 1870 – Roma, 5 marzo 1945) è stato un attore, comico e cantautore che intraprese la carriera teatrale nella propria città natale debuttando giovanissimo sulle assi dei palcoscenici dei varietà e dei cafè-chantant
[4]Gennaro Pasquariello, noto anche solo come Pasquariello (Napoli, 8 settembre 1869 – Napoli, 26 gennaio 1958, è stato un cantautore e attore teatrale. L’inaugurazione del Salone Margherita (1890) coincide pressappoco con l’inizio della carriera di Gennaro Pasquariello
[5]Questa canzone fu presentata nel 1958 al festival di Napoli.
[6]Con le consonanti della lingua araba si può produrre qualsiasi suono che la gola umana possa emettere, per questo, l’arabo è considerato una delle lingue più ricche anche da questo punto di vista
[7]Claudio Corvino Napoli come non l’avete mai sentita Newton Compton Editori Roma 2019
[8] Il brano è stato presentato nel Talent show di Sky “X Factor 2022”
[9]https://www.youtube.com/watch?v=N90PivHZjDo
[10]Un mashup è un lavoro creativo, solitamente una canzone, creato fondendo due o più brani preregistrati, in genere sovrapponendo la traccia vocale di una canzone senza soluzione di continuità alla traccia strumentale di un’altra e cambiando il tempo e la tonalità ove necessario. Da Wikipedia
[11]Bootcamp letteralmente significa, ‘campo di addestramento’. Si tratta diuna fase in cui i concorrenti devono mostrare di avere i talenti per poter ambire a far parte del programma e costruire il gruppo.
[12]https://www.youtube.com/watch?v=hkx1Xdr3IdY
[13]https://www.rollingstone.it/musica/anteprime-musica/dada-in-anteprima-il-video-di-siente-e-rrise/554122/
[14]https://www.youtube.com/watch?v=xM5QiySzAzM
[15]https://stefanofisico.it/2021/07/08/dashiki-dada/
[16]https://www.youtube.com/watch?v=KKtT5BqVpBs
[17]https://siing.net/la-psicologia-della-voce/
[18]https://www.youtube.com/watch?v=og-EB4UYGyU
[19] Con il termine Placito di Capua si intendeva il parere di un giudice su una disputa
[20]https://www.unesco.org/sites/default/files/medias/fichiers/2022/06/redirect_new_world_atlas_of_languages_en.pdf
[21] Pasquale Ferro Gli indimenticabili/Ciao Lucio, sarai sempre nel cuore di Partenope Il mondo di suk 4 dicembre 2017
[22] Pasquale Scialò Storia della canzone napoletana. 1824-1931, Volume I Neri Pozza, 2017 Storia della canzone napoletana. 1832-2003, Volume II Neri Pozza, 2021
Pasquale Scialò
[23]https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/02/11/storia-della-canzone-napoletana-unopera-monumentale-che-racconta-la-citta-e-il-paese/6482860/