Domani, giovedì 11 maggio, alle 17.30, all’Istituto italiano per gli studi filosofici, in via Monte di Dio 14 (Napoli) ci sarà l’anteprima dell’esposizione di Vanni Rinaldi “Le macchine teatrali. Parafrasi da una mostra Caravaggio Bacon” a cura dell’Istituto culturale del Mezzogiorno. Saranno presentati 21 studi dell’artista di origine calabrese che vive e lavora a Roma dedicati al binomio Caravaggio/Bacon. Con l’autore interverranno, Antonio Filippetti, di cui proponiamo di seguito un intervento, Carlo Di Lieto, Mauro Giancaspro e Natale Antonio Rossi.
Nella storia dell’arte e più in generale della creatività espressiva, non mancano certamente le operazioni audaci, talvolta persino rischiose quando non del tutto temerarie o pretestuose. Ma esse fanno per così dire parte della intrinseca sensibilità di ciascun autore, nel tentativo, al di là dei risultati eventualmente conseguiti, di indicare nuovi percorsi, di aprire strade poco battute o completamente inedite. Alla fine si potrebbe anche dire che non si otterrebbero mai risultati apprezzabili se la ricerca non si avventurasse spesso e volentieri anche nei sentieri meno battuti o più perigliosi.
La storia dell’arte offre in questo senso esempi illuminanti. Quando nel 2009/2010 venne proposta l’accoppiata per così dire Caravaggio Bacon dalla Galleria Borghese di Roma, a molti parve un azzardo. E tuttavia quell’esposizione risultò non solo indovinata ma capace di suscitare motivate riflessioni e portatrice anche di un “approach” critico destinato ad alimentare nuovi stimoli in vista di ulteriori verifiche.
Due artisti diversi tra di loro per epoche, stili, biografie venivano messi a confronto attraverso una trentina di dipinti nei quali i due protagonisti riuscivano tuttavia a trovare un imprevisto collegamento, a interagire tra di loro, ma più ancora a suscitare nello spettatore/visitatore un sentimento di profonda emozione. E soprattutto destinato a lasciare tracce visibili e qualitativamente profonde.
Un risultato patente è rappresentato proprio dall’entusiasmante lavoro compiuto nell’arco di circa quattro anni da Vanni Rinaldi e sostanziatosi in una originale parafrasi di quell’episodio apparentemente così insolito ed eccezionale.
Occorre dire subito che Rinaldi ha una particolare esperienza a trattare con personaggi e situazioni di alto profilo e di grande impatto emotivo, essendosi preso carico in passato d’interpretare l’intera “Commedia” dantesca o di aver più volte reso sulla tavolozza immagini e figure di grandi poeti, dalla latinità al Novecento.
Ma questa volta il compito, almeno in apparenza, si presentava più arduo, giacché la strada appariva già in partenza intrisa di ostacoli visto l’accoppiamento di per sé fuori dal comune che la mostra romana proponeva. Ma qui sta poi anche il fascino che questa sfida nella sfida in qualche misura emana. L’artista si è, infatti, posto di fronte ai suoi due grandi colleghi del passato in termini poetici, riuscendo a ricavare da entrambi una originale, straordinaria emozione. Le opere di Caravaggio e Bacon, così diverse tra di loro, vengono “riproposte” da Rinaldi in virtù si direbbe di una terza estetica, quella appunto che nasce da un sentimento visionario che insieme le comprende e le trascende.
La suggestione è forte, drammatica sin dal primo approccio. E non è pensabile che sia diversamente. Rinaldi osserva le tele caravaggesche e baconiane, le studia attentamente, le “smonta” come se dovesse rigenerarle, ma poi le ricompone e ripropone assemblate in una sorta di “duetto” che va in scena ogni volta in una sintesi “teatrale” che nulla toglie ai due grandi geni ma che semmai aggiunge un tratto di sofferta eppur lirica comprensione che affonda lo spettatore/visitatore in una emozione senza tempo e senza respiro.
In questo “terzo occhio” di Rinaldi ritroviamo tutto il fascino e le caratteristiche peculiari dell’arte dei due grandi predecessori. Rinaldi li segue accondiscendente, consentendoci di inverare la cifra stilistica più eloquente di entrambi: la potenza miracolante della luce di Caravaggio, attraverso cui la vita esplode o si nasconde ma reclama ogni volta con forza la sua determinazione ad opporsi alla finitudine e alla morte; e per contrasto il decadimento ai limiti della deformazione mostruosa della figura dell’artista irlandese laddove pare affermarsi perfino l’incapacità di annullarsi e morire.
L’originalità della proposta di Rinaldi consiste principalmente nella determinazione dell’artista a voler realizzare la parafrasi di un evento eccezionale rivisto in chiave spettacolare, proiettato vale a dire in una dimensione teatrale, come se tutto si svolgesse appunto in un’affascinante scenografia, in funzione di un canovaccio in cui immedesimarsi, ovvero una visione metamorfica in cui l’esistenza stessa si giova della “macchina teatrale” per meglio definirsi od anche soltanto per reclamare la proprio esistenza.
In questo “teatro delle metamorfosi” Rinaldi fa muovere e incontrare i due grandi geni che tuttavia agiscono ora soltanto grazie a lui, in virtù vale a dire della sua personale invenzione che tutto comprende e giustifica. L’esistenza, che è al tempo stesso invenzione e conoscenza, trova la propria giustificazione nel farsi personaggio, nel poter divenire cioè “ dramatis personae”, in una dimensione un po’ vera e un po’ artefatta, ora reale ed ora astratta, che assorbe ed annulla l’evolversi del tempo.
E’ questa poi la stupefacente cifra iperrealista di Vanni Rinaldi che ci mostra come nella visionarietà artistica si condensa e rinnova l’esperienza consueta del passato ma capace ogni volta di riabilitarsi in una nuova, ulteriore sintesi metastorica, al tempo stesso straniante e lirica, tenera e possente.
In foto, particolare della copertina al catalogo della mostra che sarà pubblicato dall’Istituto culturale del Mezzogiorno in inglese e italiano