Ultimi giorni per poter visitare la mostra Gli Spagnoli a Napoli allestita fino al 25 giugno a Capodimonte. Ecco un nuovo approfondimento (Intorno a Raffaello e Le Aquile del Rinascimento Spagnolo) di Carmine Negro che su questo portale le ha dedicato già tre articoli (primo, secondo, terzo).
In un momento difficile, quando il trono di Spagna passa da Ferdinando il Cattolico a Carlo d’Asburgo, a guidare la città di Napoli viene chiamato Ramón Folch de Cardona, viceré dal 1509 al 1522.
Affiancato, nel governo del Regno da un Consiglio Collaterale,[1] con le sue abilità diplomatiche riesce a condurre un’azione efficace di pacificazione sociale. Nello stesso periodo Napoli conosce una straordinaria stagione artistica, caratterizzata dall’abbandono dei moduli quattrocenteschi, dalla trasformazione dello stile prospettico di origine lombarda, che si sviluppano sulla spinta delle novità introdotte a Roma alla corte di papa Giulio II, dal fenomeno Raffaello definito dal Vasari divino.
Raffaello Sanzio, che mostra versatilità e competenza nelle diverse arti, si trasferisce a Roma nel 1508, su richiesta di Giulio II. Il suo stile spicca per il linguaggio armonioso e rasserenante con cui costruisce il suo ideale bellezza: un modello pervaso di spiritualità cristiana a cui associa la riscoperta della classicità. Come pittore, dipinge con una tale naturalezza che l’opera non mostra il segno della fatica ma quello della spontaneità. Più giovane di Leonardo e di Michelangelo, Raffaello Sanzio riesce a fondere la raffinatezza e la resa del naturale del primo con la maestosità e il plasticismo del secondo, dando vita così ad uno stile eterno che affascina ed è capace di influenzare l’arte di tutti tempi. L’abilità nella pittura e nell’architettura, lo eleva a simbolo dell’ultima e straordinaria epoca rinascimentale quello della maniera moderna.
Per il grande pittore francese Eugène Delacroix, Raffaello è la manifestazione terrestre di un’anima che parla con gli dèi. Di sicuro è uno dei più grandi protagonisti della storia dell’arte perché nessuno come lui è riuscito a coniugare in modo così equilibrato e armonioso il bello ideale, la purezza delle figure rappresentate, la dolcezza e la tranquillità degli atteggiamenti, uno spiccato senso dello spazio che si traduce in composizioni apparentemente semplici ma in realtà molto studiate e articolate. Quella di Raffaello è un’arte complessa e allo stesso tempo facile: “la sua pittura”, per la storica dell’arte Marzia Faietti, è talmente meditata, ponderata, sublimata, contiene tanti e stratificati livelli di lettura che ogni osservatore, dal più semplice al più colto, ha la possibilità di ammirarla ed ammirarne aspetti e qualità diverse. Raffaello è un artista per tutti[2].
Le invenzioni romane di Raffaello furono recepite prontamente dagli artisti meridionali, sia attraverso i contatti sempre più frequenti con le opere che realizzava nella città dei papi, sia attraverso la mediazione di quanti decidevano di stabilirsi e lavorare per un periodo più o meno lungo nella capitale del viceregno. Importante in questo senso è il ruolo svolto dagli artisti spagnoli non solo da pittori come Pedro Fernández, ma anche da scultori come Diego de Siloe e Bartolomé Ordóñez, autori di straordinarie creazioni apprezzate e prese a modello.
I due artisti, per realizzare superbi altari e straordinari sepolcri, coniugano la poetica degli affetti di Leonardo, la grazia di Raffaello e la forza espressiva di Michelangelo. La loro attività, caratterizzata da notevoli qualità esecutive e dai pregevoli materiali usati, in particolare il marmo di Carrara, tanto amato dagli umanisti napoletani, contribuisce a far nascere e sviluppare la grande scuola di scultura napoletana del Cinquecento. Una fioritura artistica, che grazie alla presenza di esponenti come Girolamo Santacroce e Giovanni da Nola è capace di dare all’aristocrazia quelle garanzie imprenditoriali e qualitative necessarie per saper condurre a compimento decorazioni in marmo pienamente rispondenti alle esigenze di conservazione della memoria del Regno di Napoli.
Intanto arriva a Napoli un’opera originale e tra le più belle di Raffaello La Madonna del pesce che, accolta con entusiasmo, diventa ben presto per gli artisti un modello da studiare e seguire, un prototipo per una scuola napoletana fondata sulle opere di Sanzio[3].
È il periodo di Girolamo Santacroce, già collaboratore di Diego de Siloe e Bartolomé Ordóñez, il più apprezzato degli artisti locali, l’unico a guadagnarsi l’attenzione ammirata del biografo Giorgio Vasari.
Una versione più inquieta ed espressiva del raffaelismo si diffonde in città nel secondo decennio del Cinquecento, con il soggiorno napoletano di artisti come il toledano Pedro Manchuca o il bergamasco di Polidoro da Caravaggio.
Il dialogo molto stretto a Napoli tra scultura e pittura che si concretizza nel confronto tra Polidoro e Santacroce rappresenta un momento di fervore creativo che si interrompe con la guerra del 1528-1529 tra spagnoli e francesi che porta alla fuga la maggior parte degli artisti che operavano in città.
La Madonna del pesce eseguita da Raffaello per la Chiesa di S. Domenico Maggiore dell’ordine dei domenicani, facilmente accessibile sia dai fedeli che dagli artisti, segna una svolta nella storia dell’arte dell’Italia meridionale. L’artista con questa tela, e le altre opere dello stesso periodo, segna un passaggio importante nel rinnovamento nelle pale d’altare del Rinascimento attraverso la dimensione monumentale ed eroica dei personaggi che la compongono, attraverso i gesti e gli sguardi, un complesso sistema di rapporti, e si presentano come interpreti di un’azione drammatica.
L’apparente semplicità del dipinto rivela in realtà una costruzione molto complessa. L’equilibrio della configurazione, che si fonda sulla centralità del gruppo della Vergine in trono e le figure che convergono poste ai lati, viene trasformata da un deciso movimento da destra verso sinistra, testimoniato dal taglio della tenda verde, che sembra suggerirne la lettura.
A destra l’atteggiamento di attesa è descritto da San Girolamo che interrompe la lettura della Bibbia per focalizzare la sua attenzione sul piccolo Tobiolo su cui si posa lo sguardo regale e discreto della Vergine mentre è intenta a sorreggere con le braccia, da cui traspare tenerezza ma anche rispetto e sacralità, il figlio.
Il Bambino ha il braccio e la mano destra sul libro aperto, come a segnare l’importanza di quella lettura, mentre il destro è proteso e, con le dita della mano aperta, sembra voler unire il testo al giovane ebreo che è affettuosamente accompagnato dall’arcangelo Raffaele.
Il nome dell’opera deriva dal pesce che il giovane tiene in mano, parte integrante della sua leggenda, narrata nel Libro di Tobia, secondo la quale Raffaele, che non si era ancora rivelato come Arcangelo, l’aveva aiutato a catturare un pesce velenoso, con la cui bile il giovane avrebbe poi guarito il padre dalla cecità.
Lo sguardo tra il Bambino e Tobiolo è intenso e le braccia tese, quelle del giovane sono accompagnate da quella dell’arcangelo, vogliono simboleggiare, secondo alcuni studiosi, il cammino verso la salvezza: Cristo che viene a guarire l’umanità dalla sua cecità.
Il gioco degli sguardi rimanda all’Adorazione dei Magi della Galleria degli Uffizi o a Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino del Louvre di Leonardo mentre la monumentalità, che nella Vergine si esprime nel contrapposto dello sguardo rispetto al corpo a richiamare le Sibille michelangiolesche della Cappella Sistina.
Il trono con i braccioli a doppia lira rovesciata richiama quello di Giove Ciampolini, attualmente al Museo Archeologico di Napoli presente in Sala con la dicitura Arte imperiale romana, II – III secolo d.C. (da un originale di età ellenistica). Figura virile in trono (Giove Ciampolini). Questa scultura doveva essere stata molto cara a Raffaele sia per le possenti gambe fasciate dal plastico panneggio che per i preziosi ornati del trono che ripropone più volte a cominciare dall’incompiuta Madonna del Baldacchino, a cui lavora prima del trasferimento nell’Urbe nell’autunno del 1508, rivelando una conoscenza anteriore dell’opera. La volontà di misurarsi con l’antico non si limita all’ornato del trono; anche il gruppo dell’arcangelo con Tobiolo è una rielaborazione di un suo disegno di una posa ispirata da un antico sarcofago.
L’opera si trovava a Napoli nella cappella della famiglia del Doce, ubicata all’interno del Cappellone del Crocifisso attiguo alla Chiesa di San Domenico Maggiore, edificato per contenere il dipinto duecentesco del Crocifisso miracoloso. Con la sua testimonianza il sacrestano riporta che il crocifisso impresso sulla tavola pittorica si sarebbe miracolosamente rivolto a San Tommaso dicendogli: Tommaso tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi? Il santo, irradiato da un raggio di luce, avrebbe risposto: Nient’altro che te, Signore. Nello stesso ambiente si apre a Cappella di Carafa di Ruvo, dove si trova il presepe di Pietro Belverte e gli affreschi di Pietro Fernandez[4].
Fu l’umanista Pietro Summonte a descriverla, nella famosa lettera del 1524 inviata a Marcantonio Michiel, e a fornire l’ubicazione dentro la cappella del signor Ioan Baptista del Doce. La datazione più probabile della tela è ancorabile al 1512-13[5]. L’assegnazione della cappella, concessa al cugino Girolamo nel 1509, e questo potrebbe spiegare l’iconografia del dipinto con la presenza del santo con il medesimo nome, venne revocata allo stesso nel1518 per mancati pagamenti. Dal 1519 il titolare della Cappella è Giovanni Battista che nel 1520 rinnova e abbellisce la cappella con marmi lavorati da Girolamo Santacroce.
Nel 1634, il viceré Ramiro de Guzman, acquisisce l’opera con l’opposizione dei frati dominicani e la complicità del padre generale suscitando un grande scandalo[6] [7]. Il dipinto, una volta requisito, fu inviato in Spagna per entrare a far parte delle collezioni di Filippo IV all’Escorial.
La tela nel 1813 venne presa dalle truppe napoleoniche, ed inviata a Parigi dove venne trasportata dalla tavola alla tela. Nel 1818 c’è il definitivo ritorno in Spagna e oggi fa parte delle collezione del Museo Nacional del Prado di Madrid.
La Madonna del pesce può essere considerata l’opera fondativa del Rinascimento meridionale in accezione raffaellesca. La pittura, particolarmente ricca di gesti e sguardi che rimandano da un estremo all’altro della pala, fa un uso magistrale del colore. Nella struttura compositiva, che nasconde complesse forme triangolari, rettangolari e diagonali, richiama la Stanza di Eliodoro dipinta da Raffaello in Vaticano. Gli sguardi teneri dipinti, danno un’armoniosa unità emotiva, anche per lo spettatore, grazie al taglio stretto della composizione e al dettaglio del gradino in prospettiva, che sembra quasi invitarlo a partecipare[8].
Dai pittori e dagli scultori napoletani come Andrea da Salerno, Cesaro De Sesto, Andrea Sabatini, Girolamo Santacroce e poi più avanti fino al pieno Seicento, è stata incessantemente utilizzata. Gli artisti hanno tratto da quest’opera uno stimolo rilevante, tale da sollecitare una maturazione di segno moderno del loro linguaggio artistico.
Le altre opere della sezione. La tavola ad olio San Bertario in trono fra i suoi confratelli e santi martiri con il committente Ignazio Squarcialupi, commissionata dall’abate fiorentino Ignazio di Manfredo Squarcialupi, uomo abile, elegante, dotto, fecondo, bello ed innamorato del bello, ingegno pronto e vivacissimo […] una delle più fulgide glorie cassinesi del secolo XVI[9].
Eletto più volte alla presidenza della Congregazione è stato artefice della rinascita artistica e culturale di cui fu protagonista Montecassino nel Cinquecento[10]. Squarcialupi, oltre ad ammodernare la chiesa fonda una cappella a san Bertario, abate di Montecassino dal 856 fino alla sua morte avvenuta il 22 ottobre 883 quando fu trucidato dai Saraceni.
La pala rappresenta una delle più significative testimonianze dell’arrivo della Madonna del pesce di Raffaello a Napoli. Il santo, ritratto in abito vescovile e con la barba non rasata, per benedire Squarcialupi, sembra aver interrotto la lettura del testo sacro che si mostra con i suoi fogli volteggiare al vento. Il panneggiare del piviale rosso depresso nell’incavo tra le due gambe ripropone quello della Vergine raffaelesca, il trono ligneo con soppedaneo su cui è seduto san Bertario o i personaggi come l’uomo con la barba, l’adolescente con tunica gialla e lo stesso Squarcialupi richiamano i personaggi presenti intorno alla Madonna nella pala di S. Domenico Maggiore. La pala, attualmente in Spagna nel Museo de la Abadìa di Montserrat, è stata acquistata a Parigi nel 1950[11]. Sempre di Sabatini l’opera San Nicola in trono, che appartiene alla collezione del Museo di Capodimonte.
Un San Nicola anziano, seduto su un trono a gradoni di marmi policromi mentre gli angeli lo incoronano con la mitra da vescovo, è dipinto mentre compie i suoi due miracoli più grandi. A sinistra ci sono le tre figlie di un nobile economicamente in rovina, dipinto in piedi con la mano protesa per farsi riconoscere dal santo come suo compaesano.
Alle tre ragazze, salvate dalla prostituzione dona tre sfere o sacchetti d’oro per consentire loro di congiungersi in matrimonio. A destra, tre uomini condannati ingiustamente vengono risparmiati dopo l’intervento del santo. Una cortina verde, come una quinta scenica, separa i personaggi dal paesaggio aperto che fa da sfondo sul lato destro dove si può riconoscere la Rocca Janula di Montecassino.
Questo dipinto, realizzato tra il 1514 e il 1516 circa, segna l’inizio della lunga collaborazione di Sabatini con l’antico monastero benedettino di Montecassino: si protrae fino alla morte dell’artista avvenuta nel 1530.
La formula compositiva richiama la Madonna del pesce di Raffaello con l’impianto monumentale della figura in trono, la luce che proviene da destra che modula le figure e analizza la mitra damascata, le ciocche dei capelli, il piccolo pezzo di arta spiegazzato sul gradino.
Andrea da Salerno nelle sue opere fa riferimento non solo alla pala di S. Domenico Maggiore ma anche alle prime due Stanze vaticane come si può vedere nella forte somiglianza tra il Sant’Agostino della Disputa del Sacramento e il San Nicola in trono realizzato per l’abbazia.
È stato attribuito dalla storica dell’arte Andreina Griseri a Pedro Machuca l’olio su tavola Madonna del latte acquistato nel 1931 dallo Stato italiano con la generica attribuzione di scuola raffaelesca e destinato alla Galleria Sabauda. La composizione è dominata dalla figura della Vergine che con la mano sinistra stringe a sé il Figlio e la destra spreme il seno su cui il Bambino posa la sua manina mentre con l’altra stringe affettuosamente il mignolo della mamma.
Il volto pieno della Vergine, il dinamismo del Bambino, dove le folte ciocche di capelli sottolineano un’espressione vivace e intensa, il panneggio del velo bianco, teso a sottolineare la spalla, rendono l’opera originale nella produzione del pittore toledano. La pala, dai più datata 1516, con la figura dominante della Vergine e la tenda verde dietro la quale si apre uno squarcio di cielo ed un paesaggio montano è un chiaro riferimento alla Madonna del pesce di Raffaello.
Proviene dalla chiesa di Santa Maria dei Pignatelli, che si affaccia su Largo Corpo di Napoli nel decumano maggiore la scultura Figura femminile semigiacente di Diego de Siloe.
La chiesa eretta prima del 1313, dalla famiglia dei Pignatelli accanto a un loro palazzo e al Seggio nobile di Nido, fu donata negli anni ’90 all’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa“, che nel giugno 2018, grazie ai lavori di restauro effettuati dagli appartenenti al corso di studi in Scienze dei Beni Culturali della Facoltà di Lettere, l’ha riaperta al pubblico. La cappellina che s’apre alla destra dell’unica navata della chiesa, costellata da stemmi Pignatelli e ornata da una Madonna col bambino al centro sull’altare contiene la statua di una defunta giacente, identificata con Caterina Pignatelli duchessa di Fondi, morta il 28 agosto del 1513.
La figura semigiacente sollevata nel busto e raffigurata in atto di leggere e come assopita, rimanda sotto il profilo iconografico alle tombe di Sansovito di Santa Maria del Popolo a Roma e marca una forte influenza della cultura raffaellesca. Le incertezze esecutive possono leggersi come frutto dell’ancora modesta esperienza del giovane scultore spagnolo a quel tempo poco più che ventenne e impegnato nei cinque anni appena trascorsi a fare esperienza a Roma sul linguaggio della maniera moderna.[12] Questa invenzione della figura semigiacente introdotta a Napoli proprio da Siloe fu replicata nella realizzazione di altri sepolcri[13].
Bartolomé Ordóñez, nella sua scultura San Matteo e l’angelo, della Chiesa di S. Pietro Martire di Napoli, presenta un gruppo in cui emerge un intreccio dinamico dei due corpi che richiamano i celebri modelli di Donatello e di Michelangelo, mentre il panneggio ampio e corposo, il classicismo dei volti e delle capigliature ricordano le opere di Raffaello. La novità portata a Napoli da questa scultura fu recepita dagli artisti locali come Girolamo Santacroce nel suo San Giovanni Battista della cappella Caracciolo e da Giovanni di Nola nel suo Battista della cappella Artaldo in Santa Maria di Monteoliveto.
In mostra è presente un San Giovanni Battista sempre di Giovanni da Nola che proviene dalla collezione dei principi del Liechtenstein che lo acquistarono nel 1909 come opera di un seguace di Donatello. I caratteri compositivi di questa scultura rimandano ai modelli di Girolamo Santacroce e la postura alla conoscenza dell’Apollo dipinto da Raffaello in una delle nicchie della grandiosa architettura della Scuola d’Atene. Questo Battista fa parte di quella straordinaria stagione della scultura napoletana del Cinquecento … da … Giorgio Vasari, definita “concorrenza”, cioè lo spirito di emulazione, tra i due principali rappresentanti della scuola napoletana (che) portò alla realizzazione di alcune fra le opere più originali e di maggiore qualità di tutto il secolo[14].
La Sacra Famiglia di Pedro Machuca, proveniente da Villa Borghese, rielabora l’abbraccio tra madre e figlio sviluppato da Raffaello nella Madonna della Seggiola imprimendo alla composizione un dinamismo accentuato ed un impeto che si discosta dall’equilibrio sentimentale che caratterizza le opere del pittore di Urbino. Il Bambino, instabile sulla gamba sinistra di Maria dai grandi occhi scuri, ha il busto in torsione tra le braccia della mamma che lo avvolgono come a difenderlo mentre Giuseppe calvo dipinto con pochi toni bruni affiora dall’ombra alle loro spalle. La scelta cromatica caratterizzata dal contrasto tra i verdi e i blu freddi e scuri ed i volti luminosi e rosati richiamano la pittura di Michelangelo.
Alonso Berruguete, nelle sue opere come la, Salomè con la testa del Battista della Galleria degli Uffizi o La Temperanza del Museo Nacional de Prado di Madrid, mostra chiaramente la sua ammirazione per Michelangelo nelle immagini di donne forti. Mira soprattutto a essere espressivo, cercando effetti di forza e di commozione con atteggiamenti forzati e contorti di figure scarne, allungate. La sua arte evoca, più che definire; dalla natura prende solo quello che può rendere più intensa l’espressione.
Altra opera interessante di questa sezione è Trasporto di Cristo al sepolcro di Polidoro Caldara, detto Polidoro da Caravaggio, per le sue origini bergamasche, considerata da Roberto Longhi un dipinto all’apice non di un artista soltanto ma di un intero secolo. Secondo il Vasari intorno al 1515 è a Roma, dove inizia a lavorare come manovale, ma poi, grazie ad alcune conoscenze, riesce ad entrare nella bottega di Raffaello, dove stringe rapporti con lo spagnolo Pedro Machuca e intraprende la carriera pittorica.
Tra il 1517 e il 1518 lavora alla decorazione delle Logge Vaticane, commissionata da Leone X a una squadra di pittori diretta da Raffaello. Soggiorna in due periodi a Napoli nel biennio 1523-24 e nel 1527 quando deve scappare da Roma, durante il sacco, che ebbe inizio il 6 maggio 1527 a opera delle truppe imperiali di Carlo V d’Asburgo, composte principalmente da lanzichenecchi tedeschi e soldati spagnoli. Il dipinto, realizzato per la chiesa di Santa Maria delle Grazie alla Pescheria[15], racconta il trasporto del corpo morto di Cristo nel luogo della sepoltura.
Al centro la figura del Cristo inerme, il capo chino, pendente verso la Madre, con le braccia di incrociate sul petto. Ai quattro angoli i personaggi protagonisti della scena portano mantelli dai colori forti. San Giovanni in alto a sinistra, con un mantello da un rosso scuro, sembra estraneo agli eventi, volge uno sguardo in alto e sembra chiedere una risposta dal cielo, mentre tiene le mani giunte.
Accanto a lui Giuseppe di Arimatea, il ricco mercante che cede il suo sepolcro al nazareno, indossa un ricco abito rosa, mentre la vita è cinta da un mantello di seta giallo ocra, dal quale spuntano un ulteriore abito bianco. Accanto a Maria una delle pie donne, Maria di Cleofa che stringe addosso a sé il dolore, raffigurato in un mantello giallo limone. Due figure sono poste sulla parte inferiore della tela, a sinistra una donna, completamente nascosta dal suo mantello rosa, mentre sul lato opposto Maria Maddalena.
La donna è il personaggio più importante della tela, in primo piano l’artista disegna i suoi piedi, Maddalena è scalza, così come tutti i personaggi, ma contrariamente dagli altri che hanno una colorazione di un rosso intenso, i suoi sono bianchi, e il suo corpo è proteso verso il morto. Maddalena sorregge i suoi piedi, li lava con le sue lacrime, li asciuga con i folti capelli biondi. Quei capelli che pare non servano più alla santa, ma che sono ormai a servizio del suo signore.
L’ultima sezione della mostra è dedicata al ritorno in patria degli artisti spagnoli, dove realizzano opere per la diffusione del Rinascimento. Il lavoro di Bartolomé Ordóñez si svolge soprattutto a Barcellona, mentre Diego de Siloe tra Burgos e Granada, realizza sculture e architetture fatte di sentimento e grandiosità di impianto. Pedro Machuca coglie e riporta del suo maestro Raffaello la genialità inventiva sia in pittura, sia in architettura.
La sfrenata passione per Michelangelo porta Alonso Berruguete a realizzare opere di grande potenza espressiva e visionaria che possiamo definire fra le maggiori del Cinquecento europeo. In Aragona, emerge con forza Gabriel Joly, intagliatore originario della Piccardia, in Francia presente in mostra con il busto in legno di Guerriero caratterizzato dalla materia lasciata pura, priva di policromia.
Della stessa caratura è la Sacra Famiglia con San Giovannino, dove mostra di aver avuto un intenso rapporto con i modelli della “maniera moderna” italiana. L’artista sembra avere la stessa raffinatezza formale di Siloe e di aver assimilato la lezione di Raffaello e le espressioni creative di Donatello. Di Alonso Berruguete, invece, è visibile la Deposizione di Cristo nel sepolcro, dove reinterpreta le fonti classiche, rileggendo in modo audace i modelli e creando un linguaggio molto personale e pieno di carattere.
Alonso Berruguete, Paredes de Nava [Palencia], 1489 circa-Toledo, 1561, Deposizione del Cristo nel sepolcro, 1540 circa, Olio su tavola cm 100 x 90, Fuentes de Nava (Palencia), chiesa parrocchiale di San Pedro
NOTE
[1] Il Consiglio collaterale è stato il più importante organo politico e giurisdizionale del vicereame di Napoli. Istituito nel 1516 quando il Regno di Napoli fu conquistato da Ferdinando il Cattolico, sostituiva le antiche funzioni giuridiche della corte partenopea con un consiglio composto dal viceré e da cinque giuristi, spagnoli e napoletani, denominati reggenti. Quando diventava Collaterale di guerra era allargato a numerosi nobili di spada.(da Wikipedia)
[2] Liberamente tratto da https://www.uffizi.it/eventi/mostra-raffaello-roma
[3] Andrea Zezza Catalogo mostra pag. 235
[4] Articolo sulla mostra su ilmondodisuk.com I parte
[5] Konrad Oberhuber Raffaello Mondadori 1982 pp. 92, 112 e 192
[6] Francesco Palermo Narrazioni e Documenti Sulla Storia del Regno di Napoli dall’Anno 1522 al 1667 Firenze 1846 pag.325
[7] Degli annali della città di Napoli di don Francesco Capecelatro parti due 1631-1640 Stamperia reale Napoli 1849 pag. 139
[8] http://www.orizzonticulturali.it/it_studi_Otilia-Doroteea-Borcia-12.html
[9] P. Puccinelli, Istoria dell’eroiche attioni di Vgo il grande duca della Toscana, di Spoleto, e di Camerino, … Di nuouo ristampata con curiose aggiunte, e corretta. Con la Cronica dell’abbadia di Fiorenza, suoi priuilegi ponteficij, e cesarei. Il Trattato di circa mille inscrittioni sepolcrali. La Galleria sepolcrale, con l’introduttione della festa di S. Mauro. Et le memorie di Pescia terra cospicua, … Del p. d. Placido Puccinelli, monaco cassinense, Milano 1664., p. 65
[10] G. Minozzi, Montecassino nella storia del Rinascimento, Roma 1925, I., pp. 52-53
[11] http://www.museudemontserrat.com/es/colecciones/pinturaantigua/95/andrea-da-salerno/485
[12] Pierluigi Leone De Castris Catalogo mostra pag. 254 – 255
[13] In particolare tale invenzione fu replicata nel sepolcro di Aniello Arcamonio in San Lorenzo Maggiore commissionato ad Antonino De Marco nel 1513e in quello di Caterina della Ratta mostra nel 1511 inS an Francesco delle Monache.
[14] Riccardo Nasti Catalogo mostra pag. 270
[15] La Chiesa di Santa Maria delle Grazie dei Pescivendoli si trovava in Vico Marina del Vino, vicino all’attuale Via Saverio Baldacchini. L’edificio venne eretto nel 1526 grazie all’interessamento dei pescivendoli del borgo. Inizialmente il luogo di culto era sprovvisto di facciata, ma era possibile accedervi grazie a due ingressi laterali aperti su Vico Marina del Vino (oggi scomparso) e Vico Chianche. Al suo interno custodiva tre dipinti di Polidoro da Caravaggio, la pala d’altare rappresentante i Santi Pietro e Andrea, protettori dei pescatori, e due tondi raffiguranti l’Annunciazione, mentre all’esterno si innalzava un campanile con cuspide a cipolla e un orologio maiolicato. La chiesa venne sfregiata durante i lavori per il Risanamento (fine XIX secolo) che coinvolsero il quartiere, quando, per permettere il passaggio alla Via Saverio Baldacchini, fu privata delle cappelle laterali (due per lato). In quell’occasione venne realizzata la facciata. L’edificio venne definitivamente abbattuto nel 1968, nell’ambito di un progetto comunale per migliore la viabilità di Via Nuova Marina, in una zona già molto colpita dai bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale.
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La foto in copertina, Arte imperiale romana da un originale di età ellenistica Figura virile in trono(Giove Ciampolini) II-III secolo d.C. marmo Napoli, Museo Archeologico Nazionale