Pia Rosenberger ha un talento nello scrivere biografie romanzate e lo dimostra raccontando la vita di un’altra artista dalla vita tormentata: Camille Claudel (1864 –1943). Mi piacque molto il modo in cui aveva, con garbo, dispiegato i pensieri, gli stati d’animo, i turbamenti, le paure ma anche il coraggio, la tenacia, la determinazione e il talento di Niki de Saint Phalle. Con “La scultrice. Vita di Camille Claudel”, pubblicato da Neri Pozza, compie la stessa magia.
Tra le pagine leggiamo del rapporto con Auguste Rodin, con la famiglia – in particolare con il fratello Paul – e con le amiche. Di Rodin, scultore già famoso e più grande di lei di ventiquattro anni, diventa la musa, l’amante, la modella e una collega, lui è l’unico che possa comprendere la sua totale dedizione alla scultura.
Purtroppo per lei scelse un uomo già legato ad un’altra donna, che non lascerà, un uomo che non voleva figli. Tra loro vi fu un rapporto profondo, tempestoso e lacerante. Camille, come leggiamo – e come attestato da diverse fonti – rimane incinta ma abortisce.
L’autrice fa emergere la complessità del legame tra i due, la consapevolezza di Claudel dei limiti egoistici di Rodin, della sua infedeltà amorosa e della sua slealtà artistica nel ritenere le opere da lei realizzate come ispirazioni e materiali da poter usare a piacimento. Anche se la sostenne sempre, anche economicamente quando finì in manicomio, usò il frutto del lavoro da lei realizzato facendole comprendere che per lui vivere d’arte significava non darsi limiti, ogni cosa era consentita: «Per Rodin era tutto così semplice quando si trattava di arte, sfruttava senza scrupoli le sue idee. Ma con la maschera di Umberto le aveva strappato un pezzo di anima».
Due caratteri forti, lei la meno fragile ma la più esposta perché coerente e lineare nelle scelte e nei comportamenti. Di fronte al genio artistico è difficile comprendere cosa, ed entro che limite, sia concesso in nome di tale genialità e cosa no, è troppo facile liquidare la questione definendo gli artisti come persone dallo stile di vita bohémien. La sensibilità di un talento artistico è profonda, acuta e avverte ogni singolo momento della vita in modo amplificato, avverte il senso della vertigine, della connessione cosmica.
La scultrice scoprì il suo talento da bambina e – incoraggiata dal padre e avversata dalla madre – si dedicò anima e corpo allo studio: «Era scultrice con tutto il proprio essere e non sarebbe mai stata nient’altro. La scultura era la sua origine e la sua fonte di vita. Quando non plasmava, cessava di esistere». Una dedizione così totalizzante può annientare perché al venir meno di quello che ci conferisce non solo un’identità professionale ma – anche personale – sprofondiamo nella disperazione, non sappiamo più chi siamo. Se è vero, come è vero, che ancor oggi c’è bisogno di ribadire che il talento non conosce genere e – che non esistono lavori da donna e lavori da uomo – nell’Ottocento la situazione era di gran lunga peggiore.
Claudel aveva la pretesa di studiare ed essere accettata in un mondo maschile: «Ma alle donne la frequenza [all’Accademia nazionale di Parigi] è vietata per principio. Non possono nemmeno candidarsi. […] Non se la prenda, la faticosa strada dello scultore non è adatta per la delicata costituzione femminile. E poi c’è lo studio del nudo. Non è appropriato per delle giovani donne. Provi a immaginare un gruppo di signore nell’aula di anatomia. Sverrebbero una dopo l’altra di fronte a tutto il sangue e i corpi smembrati».
La madre la pensava esattamente allo stesso modo, Camille era da raddrizzare, riportare sulla retta via affinché affinasse le doti che un uomo cerca in una giovane fanciulla da sposare. Per sua fortuna il padre ne riconobbe il talento e la iscrisse all’Accademia Colarossi dove le donne erano ammesse.
Troppo spesso il talento artistico fatica a trovare spazio e modo di esprimersi, Claudel fu avversata dalla madre, che la riteneva egoista, ostinata e ribelle e dal fratello convertitosi a un cattolicesimo bigotto intriso del senso di colpa e, poco dopo la morte del padre, decisero di rinchiuderla in manicomio dove morirà dopo trent’anni – trent’anni – di reclusione.
La madre non volle rivederla mai più e si adoperò affinché fosse isolata da amici e conoscenti, il fratello le fece visita qualche volta ma – anche di fronte al parere positivo dello psichiatra – entrambi rifiutarono di farla uscire dalla galera alla quale l’avevano condannata.
In una lettera del 1915 Camille scrive al fratello: «Mio caro Paul, ho scritto molte volte alla mamma, a Parigi, a Villeneuve, senza riuscire a ottenere una parola di risposta. E anche tu, che sei venuto a trovarmi alla fine di maggio e ti avevo fatto promettere di occuparti di me e di non lasciarmi in un tale abbandono. Com’è possibile che da allora tu non mi abbia scritto una sola volta e non sia più tornato a trovarmi? Credi che mi diverta a passare così i mesi, gli anni, senza nessuna notizia, senza nessuna speranza! Da dove viene tale ferocia? Come fate a voltarvi dall’altra parte? Vorrei proprio saperloi».
Al suo funerale non parteciparono familiari né amici e, tempo dopo, si scoprì che i suoi resti – non reclamati da nessuno- erano finiti una fossa comune. Già, viene da domandarci, perché tanta ferocia? Forse perché scelse di vivere come una donna libera? Libera di seguire il proprio talento e di frequentare uomini senza sposarli? Libera di dedicarsi alla scultura e di dire quel che pensava? Libera di mostrare un carattere forte e indipendente?
Rodin l’ho scoperto a diciassette anni, alla Tate Gallery di Londra, dove fui rapita da una copia della scultura “Il bacio”. Mi colpì per la fisicità, la passione, la dinamicità. Anni dopo, a Parigi, andai al museo Rodin pensando di rivivere le sensazioni provate tanti anni addietro ma successe qualcosa di diverso.
Le emozioni furono altre perché, nel frattempo, avevo conosciuto le opere di Claudel che trovo più intense, più forti, meno erotiche ma infinitamente più sensuali, le sue mani hanno impresso alla materia il movimento che, da secoli, le rende vive e piene di passionalità, le sue sculture sono un vortice che cattura in cui la forza del sentimento, palpabile, è cristallizzata. La copertina scelta per il libro propone una fotografia di una giovane Claudel, a vent’anni, commissionata da Rodin a César, uno sguardo diretto che comunica il carattere indomito e volitivo. Lo stile narrativo al quale Rosenberger ci ha abituato è coinvolgente, fluido e intimista e cattura l’interesse di chi legge in una vicenda tragica di cui quel che ci rimane è la potenza del talento di una donna che non rinunciò all’arte solo perché nata non uomo.
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IL LIBRO
Pia Rosenberger
La scultrice. Vita di Camille Claudel
Neri Pozza
Traduzione di Alessandra Petrelli
Pagine 301
euro 18
L’AUTRICE
Pia Rosenberger è nata vicino a Osnabrück e ha studiato storia dell’arte e letteratura a Stoccarda. Vive con la sua famiglia nella medievale Esslingen da oltre vent’anni e lavora come autrice, giornalista e guida della città
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