Le disobbedienti/ Voci femminili della diaspora italiani in Nordamerica. Quei gerani rossi, simbolo di un’identità

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«È questa speranza del ritorno che abbiamo ereditato, anche se inconsciamente. Una parte di noi sente sempre il bisogno di tornare alla MATRIAMIA e di portarla dentro di sé». Scrive Annie Rachele Lanzillotto in uno dei racconti che compongono l’antologia “E c’erano gerani rossi dappertutto. Voci femminili della diaspora italiana in Nord America” curata da Valentina Di Cesare e Michela Valmori per Radici edizioni.
Il testo, parte del progetto Strade Dorate Osservatorio di Letteratura e cultura della diaspora italiana e italofona nato nel 2020, come spiegato dalle curatrici è lo strumento per far emergere le storie di generazioni di italiani che hanno lasciato il loro paese natale per attraversare l’oceano dando spazio alla voce di autrici americane e canadesi: «Nel tempo questo tipo di scrittura è stato spesso soffocata e letterariamente ghettizzata. Perché espressa da “penne migranti”, e quindi appartenenti alle classi sociali più deboli, ma anche perché prodotta da donne. Confinate dalla cultura patriarcale della società italoamericana alla cura del focolare e all’educazione dei figli. Quando hanno iniziato a scrivere, le loro parole sono diventate l’arma di una ribellione sociale silente. Hanno denunciato le storture delle dinamiche familiari nelle quali erano cresciute e soffiato vita dentro racconti amari, che hanno arricchito l’immagine stereotipata, e talvolta un po’ schiava dei cliché, che gli scrittori uomini avevano fatto nascere anni prima».
Il tema della ricerca identitaria mi appassiona da tempo, ne scrivo spesso per #ledisobbedienti e l’anno scorso, insieme con un’amica glottologa che da oltre quarant’anni diffonde la cultura e la lingua italiana in Italia e all’estero, ho fondato un premio “La letteratura delle Radici” convinta che questa – trasversale a ogni genere – sia ricca di aspetti interessanti.
Nelle pagine del libro si susseguono le esperienze vissute – o create- da sedici autrici, Rita Ciresi, Joanna Clapps Herman, Kathy Curto, Luisa Del Giudice, Loretta D’Orsogna, Jean Feraca, Annie Rachele Lanzillotto, Nadina LaSpina, Maria Laurino, Marianne Leone, Chiara Montalto-Giannini, Gail Reitano, Jennifer Romanello, Mary Saracino, Rosanna Staffa e Karen Tintori. Le protagoniste dei racconti sono donne immigrate di seconda e terza generazione alle prese con la ricostruzione di un tessuto identitario personale e familiare che si avverte slabbrato e in pericolo, a rischio di estinzione.
Figlie e nipoti dell’ondata migratoria partita dall’Italia, soprattutto meridionale, sul finire dell’Ottocento e nel Novecento scrivono di rimembranze, lacerazioni, malinconia struggente, nostalgia, volontà di riscatto, umiliazione, sacrificio, fatica, apprendimento linguistico, creazione di legami comunitari, assimilazione di una cultura diversa con i suoi codici, aromi,  sapori e colori tenuti tutti insieme nel caleidoscopio di chi l’Italia la porta dentro vivendola da un altrove.
Le donne, non mi stanco mai di ripeterlo, dalla notte dei tempi fanno del racconto, orale, scritto o per immagini, lo strumento per tramandare la memoria e l’identità collettiva e individuale, raccontano per affermare chi sono e per partecipare alla costruzione di un bagaglio culturale condiviso che sostenga le persone alla ricerca delle proprie radici e accompagni chi, conoscendole, ha bisogno di trovare comunanze, appartenenze.
«Chi è stato messo a tacere più delle donne della nostra tradizione? Quali strumenti di resistenza avevano? Forse vivevano in attesa di una rivendicazione da parte delle loro figlie. Noi. […] Mia madre non è stata in grado di esprimersi per se stessa. Ho dovuto leggere a fondo tra le righe, e facendolo mi sono sentita in dovere di amplificare la sua voce, come in un compito autoassegnato: dare voce a lei e alle altre antenate silenziose verso il futuro, chiedendo giustizia per gli oppressi (per classe, per genere e per altre classificazioni), aggiungendo l’immagine di queste donne al mio altarino domestico, alla mia coscienza, facendo spazio per loro» scrive Luisa Del Giudice.
I racconti hanno una carica emotiva che colpisce, con gradazione diversa, chi di emigrazione ha letto o sentito parlare e chi, invece, ne ha avuto esperienza diretta. Quando chiedevo a mia nonna dove fosse nata e lei mi rispondeva: “Sotto il ponte di Brooklyn!” le dicevo che nessuno nasce sotto un ponte, ho impiegato anni per capire cosa intendesse, da adulta ho compreso la sua difficoltà nel tener insieme i pezzi, ho immaginato lo sforzo del sentirsi a cavallo tra un prima e un dopo, un qui e lì.
L’identità è un mosaico in cui il numero delle tessere non è predeterminato ma ce ne sono alcune ricorrenti: «Quando ero piccola, cercavamo di mascherare la nostra vulnerabilità alla vergogna, tenendo sottochiave i dettagli “etnici” che erano il cardine della nostra identità. Segreti e vergogna convergevano quotidianamente nell’uso del dialetto del Sud Italia» scrive Maria Laurino facendo emergere la centralità della lingua come medium di appartenenza.
Accade spesso che i discendenti di italiani emigrati usino vocaboli desueti non più presenti nei territori da cui provenivano i loro parenti, per loro la lingua – come le pietanze e le tradizioni – si sono cristallizzate e quando tornano nel luogo d’origine fanno fatica a ritrovare quei sapori o quelle parole e quei riti superati e dimenticati. Il tempo dell’emigrazione diventa un tempo sospeso in cui l’assenza diventa ancor più sofferta poiché comporta l’esclusione da un andare avanti di cui  non si può più essere parte, il paese, la città e la regione che ci è lasciati alle spalle continuano a vivere, a mutare ed evolvere anche senza chi partendo se ne è allontanato fisicamente.
«È possibile recuperare ciò che è andato perso? O almeno rivendicarlo? È questa la domanda onnipresente e irrisolta dei nipoti della diaspora italiana. Con i piedi ben piantati sul suolo americano, ma non del tutto americani. […] L’America ha fatto del proprio meglio per cancellare l’appartenenza etnica dei miei nonni. Ma il loro spirito si è rifiutato di negare ciò che erano» scrive Mary Saracinolasciando trasparire il bisogno, la necessità, di affermare la complessità di una appartenenza culturale dilatata e messa a dura prova dal tentativo di ricercare un punto di equilibrio.
Il modo di parlare degli emigrati è codice di appartenenza nel nuovo mondo e diventa motivo di esclusione da quello di provenienza, bastione identitario per i neo arrivati e motivo di vergogna per le generazioni successive.
Le comunità italiane all’estero creavano una nuova lingua in cui confluivano i diversi dialetti locali che si inframmezzavano con una versione della lingua inglese in cui le parole venivano foneticamente traslate per essere adattate all’orecchio, come un alfabeto farfallino, una lingua segreta per soli iniziati.
I discendenti degli emigrati hanno combattuto gli stereotipi dovendo, come acrobati, dimostrare di essere americani senza tradire le proprie origini, un equilibrismo che può comportare strappi. Bisognava convivere con il peccato originale, essere nati in un altro Paese, e la voglia di sentirsi non corpi alieni ma persone pienamente integrate e convintamente americane, ma – molto spesso- l’integrazione ha il retrogusto amaro del rinnegamento. 
I gerani rossi coltivati dai genitori appaiono a Kathy Curto nell’adolescenza tozzi e privi di grazia, rappresentativi di quello da cui distaccarsi per aderire a simboli e modelli diversi che gridavano America! Ma, da adulta in Italia, li riscoprirà pregni di altri significati e di una valenza interiore che le restituirà una parte di sé e della propria storia.
Le autrici dei racconti sono consapevoli che la migrazione ha portato con sé il modello sociale di provenienza in cui le donne erano dipendenti dalle decisioni degli uomini della famiglia ma alcune delle protagoniste dei racconti disobbediscono sottraendosi a matrimoni imposti, scappano sfidando le regole e dimostrando che non tutte le donne rimangono silenziose e sottomesse. La cultura di approdo può rappresentare la speranza di un cambiamento, di un affrancamento dal patriarcato.
Quel che emerge dall’antologia è la valenza del tema affrontato dall’Osservatorio Strade Dorate, la letteratura e cultura della diaspora italiana e italofona è degna di attenzione e regala pregevoli opere che ci restituiscono, come in uno specchio, un’altra Italia fuori dai nostri confini, un’Italia fatta di persone che questa l’hanno assorbita nei racconti, nelle abitudini, nei sapori e nei gerani rossi fino a sentirne il richiamo. I figli e i nipoti di chi è partito in piroscafo tornano in aereo per scoprire i luoghi di cui hanno sentito parlare cercando scorci, edifici, piazze, campanili e rami familiari cui ricongiungersi. Il viaggio del ritorno è carico di aspettative, speranze, domande, dubbi e voglia di ritrovare l’origine di storie e familiari, desiderio di comprendere le ragioni che hanno spinto alla partenza e di vedere con i propri occhi luoghi talvolta idealizzati e dalla memoria spogliati di ogni asperità fino a diventare l’idillio di un ricordo che attenua la nostalgia cancellando ogni difetto.
Ma se chi torna lo fa per cercare le proprie radici e ricomporre il mosaico della propria identità recuperando parti di cui si avverte la mancanza noi, messi dinanzi allo specchio, dovremmo domandarci: chi vogliamo essere per gli italiani e le italiane della diaspora? Li abbiamo dimenticati o, forse, volutamente obliati? Ma se non ci fossero state le tante rimesse dall’estero come sarebbero sopravvissuti i parenti rimasti in borghi e paesi abbarbicati sulle dorsali delle aree interne privi di mezzi di sostentamento?
La letteratura si offre come strumento di recupero, pacificazione e condivisione di una memoria che non è solo individuale ma anche collettiva, una memoria che non è esente da ferite.
 ©Riproduzione riservata
IL LIBRO
Valentina Di Cesare, Michela Valmori
E c’erano gerani rossi dappertutto. Voci femminili della diaspora italiana in Nord America
Radici edizioni
Pagine 263
euro 17

LE AUTRICI
Valentina Di Cesare è laureata in filologia moderna e specializzata in Didattica della lingua italiana a stranieri. Insegna Lettere nella scuola secondaria di primo grado e Lingua italiana a studenti stranieri. È autrice di “Marta la sarta” (Tabula Fati, 2014), “L’anno che Bartolo decise di morire (Arkadia, 2019) e “Tutti i soldi di Almudena Gomez (Polidoro, 2022). Ha scritto diversi racconti e nel 2020 ha fondato Strade Dorate Osservatorio di Letteratura e cultura della diaspora italiana e italofona.

Michela Valmori è visiting lecturer di Italiano presso la University of British Columbia in Canada, per molti anni ha insegnato Lingua inglese presso un istituto di istruzione secondaria di Forlì e presso il Centro linguistico dell’Università di Bologna. Dal 2020 fa ricerca presso Birbeck, University of London, dove ha insegnato i corsi di Italiano avanzato. La sua ricerca interessa la letteratura di genere italoamericana e le raffigurazioni letterarie del patriarcato e della violenza sui corpi femminili. Partecipa e collabora al progetto Strade Dorate.

Sul tema identitario, delle radici ed emigrazione tra #ledisobbedienti:

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