Riceviamo e pubblichiamo l’articolo di Massimiliano Nastri, assistente al dipartimento di storia, antropologia, filosofia e scienze politiche alla Queen’s University, Belfast, uno dei tanti napoletani trapiantati all’estero.
Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 15 maggio 1864 – Copenaghen, 13 febbraio 1916) è stato un pittore danese, noto per i suoi ritratti e interni poetici e sommessi.

La monotonia può essere l’espressione stessa di qualcosa di bello. … i predicati applicabili all’amore coniugale. … fedele, costante, umile, paziente, tollerante, sincero, contento, attento, persistente, volenteroso, gioioso. … possiedono la proprietà di essere specificazioni interiori dell’individuo … le loro verità consistono nell’applicarsi … tutto il tempo. E nient’altro si acquisisce … solo il sé. … l’amore sano … ha un’idea del tempo e del significato della ripetizione del tutto diversa.
Kierkegaard, “La validità estetica del matrimonio”, Aut-Aut. II. Tradotto da Alastair Hannay. Penguin Book 2004.
Cominciamo, à la Kierkegaard, da ciò a cui Hammershøi si avvicina ma non è. L’aria e tutto ciò che è effimero sono stati risucchiati, come in Piero, ma ciò che è rimasto non è l’“eterno”; le scene sono domestiche come in Vermeer, ma la luce olandese abbracciava tutti i dettagli – qui ci sono pochissimi dettagli. È un mondo ordinario, come in Chardin, ma senza giocosità; quanto a Caillebotte, qui non ci sono interazioni sociali, né femminili né maschili. Se si percepisce un mistero nei paesaggi urbani o naturali spopolati, non emerge dal simbolismo ovvio di De Chirico; se c’è solitudine, non è né urbana né all’aperto come in Hopper.
Eppure, se ci si avvicina ai dipinti di Hammershøi attraverso ciò che non sono, la risposta non è negativa, non c’è ostilità verso i suoi soggetti o gli spettatori. Da quando ho visto i suoi dipinti, ho sempre avuto l’impressione di una privacy, di un lasciarmi essere, e muovermi, se facevo lo stesso con le sue opere.
Infatti, la prima volta che vidi uno dei suoi dipinti, credo fosse Ritratto di una giovane donna, capii che era del Nord Europa: forse olandese o tedesco, e persino della Germania del Nord, del Baltico, un “cugino” di Caspar David Friedrich.Qui ci immergiamo e scopriamo che quei tratti stereotipati dicono qualcosa di vero: se partiamo dal basilare, dal rapporto tra il pittore e il soggetto, quando si tratta di una persona, lei difficilmente è una modella.
Sebbene lei – Ida, sua moglie – possa essere seduta, l’atto materiale e concreto di dipingere deve aver coinvolto pochissime o nessuna istruzione. Sì, è quasi sempre ritratta di spalle, ma l’immobilità implica una distanza rispettosa. Il pittore non aveva bisogno di interferire o avere un contatto ravvicinato con il modello, per mancanza di una parola migliore: Hammershøi si fidava di Ida e di un atteggiamento condiviso.
Pittore e “soggetto” sono separati; c’è molto spazio per gli occhi degli spettatori per osservare, i dettagli della porcellana, i pianoforti, gli orologi, le stufe, eppure, alla fine, l’atmosfera che questi dipinti ci chiedono di percepire è quella di una corrispondente interiorità.
Se si volesse espandere nell’immaginario, nella narrazione, si potrebbe scrivere di vivere sotto lo stesso tetto senza alcuna costrizione a fare, dire, mostrare cose che non sono sentite vere e necessarie per entrambi.
E, poiché non ci sono specchi nelle opere di Hammershøi, non vedremo mai cosa sta pensando lei o, meglio, non avremo mai alcun indizio al riguardo. Ma è vero? Siamo stati abbandonati in queste stanze silenziose e immobili. Non sapremo mai se qualcosa è accaduto?
Penso che questa poetica dell’assenza debba essere qualificata: lo spazio stesso che si trova in queste stanze scarsamente arredate è un indizio, implica che qualcosa è accaduto positivamente, sta ancora accadendo, solo che non ha bisogno di essere mostrato. Questo silenzio, che è reale, ha superato la dispersione mondana per “incarnare” un’“arte del comune”.1 Piuttosto che assenza o taciturnità (Verschlossenheit), la presenza non ha bisogno di parlare – si sono conosciuti.
L’azione rappresentata è la comprensione che, per chi non la possiede, può solo apparire come un’assenza o, al massimo, un’allusione.Il senso di inquietudine che si può percepire dalla suite, le finestre che guardano altre finestre, i binari curvi delle strade deserte, il trattamento della luce attraverso lo spazio, rifratta da altre superfici – i tavoli lucidi, i pianoforti a tre gambe – non deriva da quel vuoto, ma da ciò che noi, gli spettatori, proiettiamo di noi stessi lì, su quella stessa “assenza”, lo spazio, il silenzio, le vite interiori ordinarie degli altri osservati – nel senso latino – sorvegliati e curati.
È solo il nostro senso che sperimenta la composizione come “irritazione visiva”, inquietudine come in Veduta della Vecchia Compagnia Asiatica, un cielo grigio sopra edifici barocchi vuoti.
Ovviamente, è perfettamente legittimo notare l’ossessione per prospettive leggermente diverse, le scene accuratamente disposte con pochi mobili. Ugualmente legittime sono le associazioni stereotipate tra la luce nordica, i colori sommessi, il giallo sbiadito, la tavolozza di terre d’ombra, terre di Siena e marroni, grigi, azzurri pallidi, il bagliore della luce che scintilla tra i mezzi toni, Dreyer e Bergman, il pietismo e il dubbio religioso.
Ma si è davvero messi dove qualcosa sta “accadendo” di nuovo, e questo “ordine” è ora un’abitudine di pace ordinaria, un apparente paradosso di coesistenza tra intimità e inaccessibilità di cui Kierkegaard – le cui prime edizioni Hammershøi possedeva2 – scrisse.
Infatti, si potrebbe anche scrivere della perdita di territorio che la Danimarca subì nel 1864, di quel cristianesimo istituzionalizzato contro cui Kierkegaard scrisse, ma l’etica implicata nell’estetica di Hammershøi dipende dalla scelta che gli spettatori fanno.
Ovviamente, il pittore ha composto ciò che gli spettatori vedono, come sono figurativamente collocati nello spazio: le cornici sono ovunque, nei divani scolpiti come un altare, nei telai delle porte, nei telai delle finestre, nelle cornici dei quadri, nelle parti quadrate delle sedie, specialmente dove non compaiono figure, come nei dipinti del suo appartamento a Strandgade 30 a Copenaghen.
Ma si ha la sensazione non di essere vincolati, di costrizione, ma di vedere ciò che è essenziale. I quadri non mostrano dettagli; l’abbigliamento femminile, molto simile a quello di Whistler, non ha motivi. Tutti gli ostacoli sono stati rimossi molto tempo fa. Qui l’azione è stata ridotta al guardare, ma che guardare! Qual è il punto, qual è la moralità qui?
Se si volesse assumere una posizione a-metafisica, questa è “la” realtà che un occhio (borghese) rappresenterebbe, il dato. I dipinti di Hammershøi sono stati persuasivamente interpretati con la fenomenologia dell’“il-y-a” del filosofo francese Emmanuel Levinas, il “c’è”, l’opacità delle sue finestre, della sua luce simile alla presenza informe che si sperimenta quando tutto il resto è stato rimosso, non uno stato di sogno ma uno stato di insonnia, vagando nel labirinto che l’appartamento è diventato, il precursore di Robbe Grillet e della sua ipnosi della ripetizione.3
Il risultato – che è un problema con Hammershøi – è un’atmosfera, un’atmosfera emotiva di angoscia, sospensione, ritiro, vuoto studiato, auto-repressione luterana.
È ciò che sembra, del tutto possibile per un pittore che non dipendeva da commissioni.
Sì, l’angoscia potrebbe essere percepita dallo spettatore, ma ciò che quelle porte aperte, quelle finestre, le stanze vuote possono – è una possibilità che continua ad accadere – indicare è una distanza voluta e consapevole da una performance Biedermeier di “naturale” domesticità borghese o simbolismo esoterico (Boecklin, Puvis de Chavannes, Mellery): il “significato” di quelle porte, delle finestre, delle strade, delle lettere, è che sono state attraversate, scritte, inviate, aperte, lette.
C’è comprensione lì, intelligenza tra il pittore e il soggetto – sì, anche con una tazza accuratamente posizionata su un tavolo – in un luogo. E una volta entrati nel regno di quelle possibilità, e di come è stata fatta una scelta, allora potremmo davvero comprendere la decisione morale che emerge da come guardare in un certo modo – Merleau Ponty è molto chiaro qui – è diventata un’abitudine, per citare ancora Kierkegaard, una disciplina: qualcosa che è stato appreso per raggiungere e muoversi nel silenzio.
Forse dovremmo dare più credito al pubblico imperialista, patriarcale e capitalista della fine del XIX secolo per come ha riconosciuto non solo l’ovvia maestria di Hammershøi (“il Vermeer del Nord”, le esposizioni internazionali accanto a Whistler) ma anche per il nervosismo, l’ansia che loro vi hanno visto.
Anche la sua riscoperta, dopo un’oscurità di mezzo secolo, riflette come l’arte moderna trasmetta – o almeno sia concepita come dover trasmettere – isolamento esistenziale, immobilità, malinconia. Nulla di sbagliato in questa interpretazione, e in come i musei si siano affrettati a comprare le sue opere, e con il valore di mercato.
Ma possiamo anche avvalerci sia della biografia intellettuale che delle prove materiali, sia di Sainte-Beuve che di Proust, cioè, ancora, Kierkegaard (ibid.) che scrive contro “il conforto della disperazione … che permea la lirica moderna sia in versi che in prosa … nel caso in cui una tale monotonia fosse inevitabile nella vita coniugale … il compito sarebbe … preservare l’amore in essa e attraverso di essa, e non disperare, poiché la disperazione non può mai essere un compito serio; è una comodità”.
Ora, non si può trovare, non si può vedere in Hammershøi, comodità o conforto, nei sensi che abbiamo associato a questo termine; non c’è nulla di banale, non impegnato, fatto a metà.
Piuttosto che percepire l’effetto – disperazione – perché non valutare come Hammershøi abbia resistito così modernamente all’identificazione, alla connessione emotiva tra lo spettatore e l’esterno, come in Donna alla finestra di Friedrich, ponendo invece la consapevolezza dello spettatore sull’atto del percepire, l’ambiguità di e davanti all’interiorità, come in Camera da letto.4
In quell’ambiguità, il poco che Hammershøi ha rappresentato in modo sommesso e attenuato è in ordine, in pace. Non servono molte parole per coloro che si comprendono, che hanno fatto un’abitudine di questa corrispondenza.
Questo è ordinario, austero, ridotto all’essenziale, ma quanto spazio c’è – da vedere per noi, per loro da vivere. (Massimiliano Nastri)
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NOTE
1. Hugues Choplin, “Un silence sans ambiance. Hammershøi, les impressionnistes et le tournant atmosphérique contemporain”, Ambiances Environnement sensible, architecture et espace urbain Varia | 2023.
2. Bridget Alsdorf, “Hammershøi’s Either/Or”, Critical Inquiry, Winter 2016, Vol. 42, No. 2, pp. 268-305.
3. Harri Mäcklin, “How to Paint Nothing? Pictorial Depiction of Levinasian il y a in Vilhelm Hammershøi’s Interior Paintings”, Journal of Aesthetics and Phenomenology, 2018, 5:1, 15-29.
4. Anne Hemkendreis, “Inner and Outer Realms: Opaque Windows in Vilhelm Hammershøi’s Interior Paintings”, in Interiors and Interiority. Edited by Ewa Lajer-Burcharth and Beate Söntgen. Walter de Gruyter GmbH, 2015.
Nella foto, di pubblico dominio, Interior with Young Man Reading