“Giardini, cimiteri senz’avelli, dove erra forse/qualche spirto/ amante dietro l’ombra dei suoi beni perduti”.
Nell’armoniosa musica d’insieme che dal palcoscenico sembra diffondersi dai veli e dagli abiti luminosi s’intrecciano parole e suoni attinti a un bacino comune dove l’acqua del mare è già da sola complice, e artefice, di vite e di destini. L’ ingannevole azzurro dell’onda si trascina dietro e dentro millenni di storia, lasciandone defluire lungo le coste il limo, superbo della propria fecondità e ignaro dell’inganno che potrebbe serbare.
Tra voci e suoni, quelli di due terre accoppiate per secoli nei nomi le cui storie, mosaici diversi, hanno molti intarsi in comune come le due lingue dove l’ondulata cadenza delle sillabe si modula, danzante o languida, sull’urlo di rabbia e sulle canzoni d’amore.
Ma poche bracciate di mare bastano a scavare, sotto il comune pulviscolo che ne livella apparentemente le vicende e lo splendore del paesaggio, abissi di differenze che consentono loro, o meno, di indossare con senso di appartenenza l’abito che la storia ha tagliato per loro.
Forse, le secolari civiltà che l’una si sente gravare sulle spalle considerandone estranee anche le fioriture, dall’altra terra sono state assimilate e sono confluite in una filosofia di vita che è anche invenzione, illusione, speranza e può consentire al sonno di concedersi un sogno e non il rinnegamento del futuro. Così i lunghi mesi d’estate, i meriggi ardenti senza tramonti refrigeranti dell’una diventano per l’altra culla e alcova di musica e di poesia dove rivivono la leggenda della nascita e il mito diventato storia.
E’ la terra dove il popolo condivide e allestisce insieme al potere la teatralizzazione della vita, quell’effimero voluto dai re nell’intento di coinvolgere, e lasciarsi coinvolgere, da una festa tanto più collettiva quanto più effimera sarà la sua durata, ma che svetta nella storia come vessillo di civiltà.
E in una festa dell’effimero che coinvolge miti e storia, vita e morte, desiderio e passione sembra avvolgere in leggere volute di nebbia l’eternità che ci fronteggia, provocandoci, dal palcoscenico.
Nei candidi costumi volteggianti, nel pallore lunare dell’ambiente dove il significato va smarrendosi nel non sense della scena, eccoci alle soglie di un hortus conclusus dell’effimero, dei desideri e delle voglie che ancora fiammeggiano sulla soglia appena varcata e dove frammenti di suoni e voci cantano inaudibili canzoni.
Sono le voci e i suoni del fastoso spettacolo di Ruggero Cappuccio dove desideri perduti, ma non dimenticati, si esprimono in tutta la loro ancor vivida essenza Ebbene, se alla fantasia è concesso cedere a tanti allettanti inviti, ci sembra che l’oratorio di Cappuccio potrebbe considerarsi una festa dedicata all’effimero da consegnare alla storia perché si traduca in eternità: l’eternità dei desideri, delle voci, delle parole lanciate nell’aria a costruire un’iperbolica architettura dove tutto è in limine, sulla soglia tra memoria e oblio, vita e morte, passato e futuro.
Ma i frammenti che ce ne parlano sono quelli, eterni, di lingue, musiche, filosofie e miti, sacro e profano colti da diversi e affascinanti “altrove” dello spazio e del tempo. E in questo raffigurare la fuggitiva emozione del desiderio nella sua epifania nel nulla con mezzi espressivi che appartengono all’eternità ci sembra si annidi la sacralità della strepitosa operazione dell’autore: un simposio di parole e di idee in grado di appagare ogni gusto ma anche di stimolare, in ciascuno a suo modo, curiosità e fantasia.
Nei desideri “da” mortali non sono ammesse devianze: il corpo urla il suo linguaggio, il cibo deve serbare il suo sapore e l’amore deve ancora “sapere di paradiso” ma gli aneliti restano paradisi inaccessi ai desideri inappagabili, come quelli del corpo dei desideri che va lasciato andare per raggiungere la regione di perenne certezza dove solo una stella fedele può darci appuntamento.
Così, per allusioni e cifre identitarie, l’autore suggerisce allo spettatore la sua interpretazione dei sogni di eternità dei desideri umani. Esemplarmente, il linguaggio appartiene a terre dove i secolari cumuli di civiltà hanno suscitato reazioni diverse: in una di esse l’errata autoconsapevolezza della propria superiorità, già perfetta come quella degli dei, può condurre solo alla morte. Nel gran ballo dove il vecchio e il nuovo sembrano potersi fondere in un rinnovellarsi dei tempi e delle speranze, questa imperfettibilità si palesa come finale di una storia che non può durare, nemmeno se tutto cambia.
Ed è proprio qui, nel salone sfolgorante di luci, che la bellezza trionfante della scena si fa struggente attesa della morte dove incanalare, finalmente, l’infinito sonno dell’isola. Il Principe ne è vittima ed emblema, e sa che esso contagia chi non se ne allontana prima del patto d’amore e di morte che l’isola, restia a lasciarlo andare, contrae con chi le appartiene.
Anche l’autore è restio a lasciar andare i personaggi del suo gioco drammatico dove vibra, sempre percorsa da una sottile ironia, la cultura mediterranea nelle sue diversità e nelle sue possibili sovrapposizioni. Ricorrendo alla lingua, alla danza, alla musica, l’autore imbandisce il suo sontuoso festino al quale fare accesso sbrigliando la fantasia, anche se a pena di perdere di vista la riva che consentirebbe di mettersi al sicuro…ma, forse, l’approdo non c’è.
Per rendere possibile questa affascinante trasposizione di realtà e di ipotesi di possibilità l’autore si è circondato di una squadra di attori la cui bravura non merita i confini di un aggettivo.
Claudio Di Palma copre, come molti dei suoi compagni di cordata, ruoli diversi con la credibilità di chi le dicotomie e i contrasti esistenziali li conosce tutti. La lettura musicale di Gianluca Scorzillo e Luca Urciuolo è da manuale per le innovazioni interpretative che, pur nella manipolazione, restano fedeli ai contenuti del messaggio loro affidato.
Le luci e i costumi attingono gli uni dalle altre colori e guizzi di sole e i loro artefici, insieme agli attori, andrebbero citati tutti. Se ne potrebbe parlare ancora di questo spettacolo dalle molte chiavi di lettura e dalle troppe cifre interpretative.
E così, torniamo in superficie e concludiamo che se tutto cambia pur restando com’è, ci piace che restino queste velature dorate di sole, quest’intreccio di un ballo lontano, queste donne, schiave e regine della loro e delle altrui sorti: tutto senza tramonto, come le lunghe sere estive di una terra arroventata nelle quali smemorarci, desiderandone l’eternità. E intorno, come una promessa di perenne certezza garantita da una stella, la musica di un valzer…
“Desideri mortali “, scritto e diretto da Ruggero Cappuccio è andato inscena al teatro San Ferdinando di Napoli dal 24 gennaio al 4 febbraio 2018