Quando si va ad assistere alla “Cavalleria rusticana” ci si aspettano carrettini siciliani, zagare, sole abbagliante e tradizione.Nell’allestimento sancarliano di Pippo Delbono, invece, non troviamo folklore, e neppure luce e tradizione, ma un buio insolito e una innovazione che tuttavia non sfocia nell’effetto, per fortuna. Abbiamo assistito a tante, troppe edizioni di classici rivisitati e snaturati, tradotti in salsa punk o rivestiti di contaminazioni rockeggianti.
La lettura di Delbono non rientra tra questi pastiches perch ha conferito un valore aggiunto all’opera,ha saputo creare un interesse forte per una pagina di cui un melomane di media entit conosce ogni nota e ogni parola. Non deve sfuggire che ci siamo trovati di fronte a un’altra cosa rispetto alla “Cavalleria”. Seppure bravissimo, il regista ha evidentemente dimenticato che il rispetto per le intenzioni dell’autore è la regola fondamentale; in ogni caso, ha deciso di allontanarsi e di creare un’altra cosa.
Il grande assente, infatti, era proprio Mascagni,sostituito da colori ambienti situazioni che mai avrebbe potuto concepire l’Autore. Forse per questo il regista era cos presente fisicamente in scena, quasi a sottolineare la “sua” intenzione, che non è quella di Mascagni. Un’intenzione di tutto rispetto, consapevole e coesa, ma lontana da quello che volevamo vedere, la “Cavalleria rusticana” di Mascagni.
Belle le luci di Alessandro Carletti, come i costumi di Giusi Giustino perfettamente in linea con il regista, ma non con l’Autore. Il coro, sapientemente guidato da Salvatore Caputo, ha retto benissimo la parte; non cos tutte le voci dei solisti, tra le quali spiccano la corposa Santuzza di Susanna Branchini e la Lucia che rasenta la perfezione di Elena Zilio.
Non si può dire che è una Cavalleria da ricordare, forse è troppo, ma lo sguardo tenero e spaurito di Bobo, l’attore sordomuto che ha vissuto l’intera sua vita in manicomio, quello s, sar molto difficile dimenticarlo.
Per saperne di più
In foto, Pippo Delbono