Eravamo nel 2008, in piena emergenza rifiuti, e Napoli era diventata l’avamposto di una guerra civile che non è ancora finita. Le strade erano piene di buste di plastica ricolme di rifiuti di ogni genere che raggiungevano, nei quartieri più poveri, i primi piani delle abitazioni; dappertutto affiorava il “prodotto lordo” di una societ consumistica fondata sull’utopia delle risorse infinite. Di notte, la gente, esasperata e sobillata, appiccava il fuoco alle montagne di “monnezza” e quei roghi facevano il giro delle tv di tutto il mondo, scolorando il fascino antico di una capitale del Sud dalla personalit unica, incorreggibilmente romantica e caotica, ferita da una infinita barbarie chiamata Camorra.
L’atmosfera era da “8 settembre”,con le istituzioni che si arrendevano e uscivano con la bandiera bianca dai bunker del potere; esperti e commissari di governo, pescati con le mani nel sacco, tremanti davanti alle impietose domande di giornalisti d’assalto, si dimettevano da incarichi straordinariamente retribuiti, mentre la protezione civile, incapace di risolvere l’emergenza, si limitava a gestire gli spalatori e algidi commissari europei stilavano inutili dossier. C’era anche chi scopriva l’utile di fare film a catena sui drammi di questa citt .
Per strada, la gente stordita e incapace di reagire ad una ferita cos profonda, portava il fazzoletto alla bocca. Un senso di vuoto, di impotenza, di vergogna ci rendeva silenziosi, ingannati e ridicolizzati davanti al mondo intero da dichiarazioni di un Governo che sembrava venire da un altro pianeta.
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Qualche anno prima, ricordo bene, avevamo deciso di mettere su, insieme con Julio Santucho, il gruppo di lavoro del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli e di affrontare la prima edizione di questa manifestazione. Eravamo determinati a dare un segno di vita da una citt di frontiera, volevamo a tutti i costi far sapere che anche nel sud dell’Europa c’erano emergenze umanitarie e che l’Italia non era scevra da problemi di ordinaria violenza. Migranti, homeless, carcerati, poveri chiedevano uno spazio nella nostra societ e l’Africa e l’Oriente, di fronte a noi, preparavano il loro futuro, ma la competizione dei mercati riempiva i tele-giornali con numeri incomprensibili, non c’era posto per la questione sociale e per la politica estera.
Ci ispirava l’esempio coraggioso dell’Argentina che, con sorprendente determinazione, aveva mostrato al mondo come perseguire, senza rancori, i responsabili di un genocidio. Da Buenos Aires, Julio mi ripeteva al telefono che sembravamo un paese in caduta libera e io tacevo perch sentivo che aveva ragione. Di quei mesi ricordo le battute ironiche di alcuni registi italiani che asserivano che questo “cinema dei diritti” era roba da Terzo Mondo, uno schiaffo in faccia alla gloria del neorealismo italiano, che avremmo fatto meglio a smettere e cambiare genere, perch quei documentari deprimevano la gente, raccontavano un’Italia minore di cui vergognarsi.
C’era nell’aria un residuo di orgoglio nazionale che impediva a molti di noi di capire da dove venisse la crisi che incombeva sulla nostra imperfetta democrazia; avevamo davanti immense speculazioni finanziarie che avevano inghiottito aziende sane come la Parmalat e la Olivetti e credevamo di essere ancora il felice paese del “made in Italy”. Narcotizzati da anni di provvidenze pubbliche e da una informazione deteriore, la nostra gente non si rendeva conto che quel modello di crescita era finito per sempre.
Noi, invece, avvertivamo un gran bisogno di raccontare, discutere e agire, di riflettere sulla follia degli ultimi venti anni. Occorreva dare spazio a chi si impegnava per gli altri, ma non aveva “editori di riferimento”. Centinaia di piccole associazioni, fatte di persone umili che lavoravano per i migranti, i carcerati, i disoccupati, i minori e i malati, la spina dorsale del welfare italiano, non avevano voce, erano invisibili, eppure indicavano il nuovo mondo possibile. Bisognava alzarsi in piedi e gridare.
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Il Festival è nato fiutando l’aria di queste contraddizioni ormai incontenibili, interpretando il sussulto di orgoglio di chi non voleva omologarsi e avvertiva il senso delle grandi trasformazioni globali che stavamo vivendo, coscienti che un filmaker può raccontare la realt meglio di tanti scrivani che hanno cantato le gesta dei Chicago Boys.
Il Cinema è la prosa che abbiamo scelto per restituire alla nostra gente lo sguardo verso il resto del mondo, offrendo un’informazione più ampia e onesta, ricordando che la povert va combattuta ma può arricchirci di solidariet e che Napoli può diventare, proprio in virtù delle sue debolezze, una Capitale dei Diritti Umani, un osservatorio privilegiato da cui ripartire verso il mondo nuovo. Non è un’utopia se oggi andiamo a Buenos Aires, dopo gli anni della terribile dittatura, per capire come resistere alla globalizzazione selvaggia, allora possiamo farcela anche noi a cambiare Napoli.