Finalista al Premio Scenario 2011, “Senso comune” del teatro dei Venti di Modena è lo spettacolo andato in scena lo scorso weekend a Galleria Toledo.

Due uomini e una donna, la tangenza di tre solitudini che non fanno una storia brandelli esistenziali di vita come “possibilit -che non”. Lo sfondo uno squallido non luogo, cui l’antefatto autobiografico del primo personaggio, una canzone neo-melodica e l’assunzione di una “dose” a pretesto per un beffardo rovesciamento parodico del buonistico rituale eduardiano del caffè (Questi fantasmi) rivelano essere Napoli nord, capitale europea del traffico di stupefacenti.
Sfondo efficace dell’alienato agitarsi dei tre è un deposito-nascondiglio, dove taniche vuote e percussioni ossessive, eseguite dal vivo, sottolineano a livello sensoriale un agitarsi in loco, un falso movimento, sapientemente sottolineato da musiche originali e un forsennato in/off di luci a effetto Ridolini che si fa traduzione visiva di una concezione di vita svuotata di senso. Il primo oscilla tra fuga dalla realt  e rabbia, il secondo è chiuso nel buio autoreferenziale di una mente malata, la donna oscilla tra piatta realt  del tran tran quotidiano e il “cos’è la vita senza l’amore”.
In fondo il suo “non voglio mica la luna” le lascia un ingravidamento. Buio. L’immagine della Vergine, la fioca luce di un cero avvolto di rosso che ricorda il fuoco nel quale ardevano le anime del Purgatorio agli angoli delle strade. “Mandami almeno una figlia che sappia cantare e ballare”, chiede la donna. Alla preghiera fa da rabbioso contrappunto, una cantilenante invettiva contro i luoghi comuni cui Napoli è stata accostata nel tempo e un doloroso elenco delle aggettivazioni negative alle quali oggi la si può abbinare. Un atto di odio-amore che si conclude con la dichiarazione di volerci restare. Nonostante tutto.
Belle le prove attoriali di Igino L. Caselgrandi (autore con Matteo Valenzi, anche delle musiche originali), Francesca Figini, Antonio Santangelo e Stefano Tè, cui si deve una regia asciutta e senza sbavature.

In alto, una scena di "Senso comune", fotografata da Chiara Ferrin

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