Amore infinito. Quello di una mamma che si chiama Rosafa. E che ammanta di leggenda il castello di Scutari nell’Albania nordoccidentale, con imponente vista d’acqua tra i fiumi Drini, Kiri e Bojana e il lago in lontananza. A Rosafa il destino assegna una fine atroce: essere sacrificata affinché le mura della fortezza che sta costruendo suo marito con i fratelli crescano forti e resistenti.
E’ un anziano saggio a ammonire i tre, avviliti dai continui crolli che distruggono il lavoro giornaliero: una delle loro mogli deve essere immolata per la causa comune, quella che porterà il pranzo.
Nonostante abbiano giurato di non farlo, due dei tre fratelli avvertono le consorti che trovano un pretesto per non uscire. Il compito spetta alla più giovane che, una volta lì, apprende la terribile verità.
Con coraggio non si sottrae alla condanna, tuttavia a una condizione: «Muratemi viva, ma lasciatemi fuori la parte destra del corpo: una gamba, un braccio, un occhio e una mammella per accarezzare, cullare, allattare, veder fiorire il mio bambino». E dalla sua generosità si sviluppa la vita di una popolazione.
Lo sguardo fiero e lungimirante di Rosafa brilla negli occhi di tutte le donne d’Albania, un paese dove convivono pacificamente religioni differenti (musulmani e cristiani di rito latino, bizantino e ortodosso). Candidato a entrare in Europa, accoglie turisti di anno in anno sempre più numerosi, affrancandosi, grazie alla propria bellezza, dal peso di un passato comunista. Affabilità e gentilezza, le armi per sconfiggere i luoghi comuni che vorrebbero inchiodare la nazione al ruolo di covo mafioso, dove prospera il narcotraffico.
Un po’ la stessa sorte che tocca a una città sorella, Napoli. Giovanni, il figlio che il celebre eroe guerriero Giorgio Castriota Scandberg (barriera al sogno islamico del dominio su Roma da cui prende il nome la più importante piazza della capitale) ebbe da Marina Donica Arianiti, qui si rifugia, dopo la scomparsa del padre, stroncato, sessantatreenne, dalla malaria, nel gennaio 1468. Ospite di re Ferdinando d’Aragona, Giovanni dal sovrano riceve in dono il castello di Gagliano in Puglia, confermandosi esponente di spicco dell’aristocrazia partenopea.
L’Albania e Napoli, unite oggi dalla rinascita che sbriciola gli stereotipi. Il passaparola si espande di bocca in bocca come sorprendente grido di ammirazione di due realtà che si tuffano nell’orizzonte a colpi di emozioni, spiazzando chi ne ha sentito parlare solo male e comunque si è spinto fin lì per constatare di persona.
Le emozioni pure in Albania si moltiplicano sul filo della storia, affiancate da un presente ricco di sorprese. Non è, infatti, solo questione di archeologia, anche se stupefacente. Durazzo, sull’Adriatico, a ovest della capitale, custodisce l’anfiteatro romano più significativo dei Balcani, sorto nel II secolo d.C., durante il regno dell’Imperatore Traiano.
Gli scavi iniziano nel 1966 e 30 anni dopo viene candidato a entrare nella lista del patrimonio Unesco (ma la nomina resta sospesa). Propone mosaici di una cappella paleocristiana in pieno centro cittadino e sgomenta però per tutta la selva edilizia sorta intorno: di grande conforto è la prospettiva che la municipalità presto dovrebbe radere al suolo gli edifici che ne lambiscono il perimetro.
Riaperto nel 2015 dopo 4 anni di chiusura, il vicino museo archeologico raccoglie oltre tremila manufatti rinvenuti nel sito di Dyrrhachium. Tra i reperti di rilievo, stele funerarie romane, sarcofagi in pietra e una collezione di busti in miniatura di Venere.
Brividi storici percorrono la pelle dei visitatori quando a Tirana si infilano nel Bunk’ Art 2, aperto il 17 novembre 2016. Mille metri quadri che testimoniano come il comunismo abbia combattuto gli oppositori del regime (fino al 1991) attraverso immagini, accessori e oggetti. Rifugio per accogliere la polizia d’élite e il personale del Ministero dell’Interno in caso di attacco nucleare. In una stanza di questo claustrofobico incastro di spazi, c’è la sedia del barbiere insieme a ciocche sparpagliate, quelle dei giovani socialisti svedesi che, per rimanere, dovevano sottoporsi a un drastico taglio di barba e capelli.
L’oscurità di ieri cede il posto a orgoglio d’identità e speranza del futuro nello sventolio della inossidabile bandiera rossa con l’aquila nera dalle due teste. Anche se qualche nostalgico ancora passeggia nelle strade mostrando il pugno di una storia ormai sepolta.
Il realismo socialista è tutt’ora raccontato dalle opere esposte di famosi artisti albanesi e internazionali nel Museo di belle arti che gli albanesi chiamano Galeria Kombëtare e Arteve. Molte provengono da importanti collezioni messe in mostra negli anni precedenti. Al terzo piano della struttura riorganizzata in un nitido allestimento, anche lavori contemporanei firmati tra gli altri dall’italiano Nicola De Maria. Mentre nel giardino antistante, si espande la nuvola dell’architetto giapponese Sou Fujimoto, installazione che fa da scenografia trasparente a tante iniziative culturali.
Si è rifatto il look pure il mercato di Tirana, in vetro e acciaio. Non ha nulla da invidiare a quelli europei, anzi si profila come modello da imitare, moderno e colorato in piazza Avni Rustemi.
Tirana offre uno spiraglio di luce perfino alla gioventù di casa nostra che sogna di studiare medicina ma non ha superato il test nazionale oppure non lo ha nemmeno tentato, certa di non farcela. L’Università privata Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio promette un’abbagliante chance: la prova d’ingresso più facile e tutti professori italiani, grazie a una convenzione con l’ateneo romano di Tor Vergata. Infine, la laurea rilasciata conta davvero in tutta la Ue.
Ma non ci allontaniamo dai Balcani prima di aver dato un’occhiata al magnifico vicino dell’Albania, il Montenegro. Qui la nostalgia per il socialismo di Tito è struggente: chi ha vissuto quel periodo ricorda come tutte le famiglie potessero permettersi belle vacanze e frequenti weekend a Trieste per shopping. Contro un presente che con una media salariale di 500 euro (moneta adottata nonostante il paese sia fuori dell’Eurozona) non consente nemmeno un intervallo estivo di poche ore. E il turismo si prospetta come risorsa d’oro.
Tramonto fiabesco sui tornanti che conducono alle bocche di Cattaro, fiordo più profondo del Mediterraneo e in mente una meta: la Madonna dello Scalpello, patrimonio dell’umanità davanti a Perasto, località brulicante di ristoranti e lussuosi alberghi.
La musica accoglie i passeggeri appena sbarcati dal battello: una violinista e un chitarrista davanti alla chiesa cattolica festeggiano i neosposi, lei montenegrina, lui barese.
Gli italiani ci stanno rubando le nostre ragazze, esclama sorridendo il parroco che, oltre a questo, ha celebrato anche altri matrimoni davanti al volto dolce della Madonna che adorna l’altare: è proprio l’icona trovata su uno scogli dai fratelli marinai Mortešić nel 1452. Da quello scoglio nasce l’isola artificiale: 2 secoli dopo avrebbe ospitato il santuario. Una luce nel mare limpido, che benedice attese e desideri.
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