I bambini protagonisti nel patrimonio culturale: la città diventa grande laboratorio creativo. Questo è lo scenario di Bambini e Musei, un’iniziativa di Luigi Filadoro per l’associazione culturale étant donnés (da lui presieduta) di cui in questa seconda tranche della rubrica ripercorriamo alcune tappe.
“Da Duchamp in poi, l’artista è l’autore di una definizione”
Marcel Broodthaers
Quello che più conta, nell’attuale scenario complesso dell’informazione e della conoscenza diffuse e disordinate, è ciò che sappiamo e riusciamo a fare con gli elementi che abbiamo a nostra disposizione. Lungi dall’essere ricezione passiva e desoggettivante, il modello del “consumo”, della rielaborazione -di dati, strumenti, contenuti- implica immediatamente l’atto creativo della “produzione”.
Utilizzare un oggetto, visitare un museo, leggere, guardare un’opera d’arte o un film comporta necessariamente una sua interpretazione, convoca in noi un insieme di operazioni assimilabili ad una produzione silenziosa e clandestina.
A ben guardare, l’arte del XX secolo sembra essersi sviluppata secondo uno schema analogo: quando Marcel Duchamp espone uno scolabottiglie, un orinatoio o una ruota di bicicletta, prodotti già esistenti e finalizzati ad altre funzioni, e li sceglie come oggetti d’arte, associa il ruolo dell’artista al mondo dello scambio, afferma che anche il consumo è una maniera di produrre.
Questa pratica, nota come ready made, stabilisce un’equivalenza tra scegliere e fabbricare, consumare e produrre e sposta la problematica del processo creativo sullo sguardo che l’artista “posa” su un qualsiasi oggetto (e sullo spostamento semantico che fa di quell’oggetto) piuttosto che soltanto sull’abilità manuale.
Insomma, non si tratta più soltanto di elaborare forme a partire da materiali grezzi, ma di lavorare con oggetti già esistenti, che stanno già in circolazione sul mercato culturale, modificando, inevitabilmente, il concetto di originalità e di creazione.
Lo spazio creativo diventa luogo di una riformulazione di contenuti, stili e modalità già esistenti. Ciò che accade (o sarebbe auspicabile) anche nello spazio formativo.
In questo ambito, e nella scuola che è il principale tempo e luogo di formazione, l’apprendimento avviene attraverso una rielaborazione e una ricostruzione attiva del soggetto in interazione con i molteplici elementi dei tanti contesti che la complessità che ci circonda ci propone. Svolgono un ruolo fondamentale per la formazione della persona l’acquisizione di pensiero critico, la creatività, lo spirito di iniziativa, la capacità di trovare nessi e soluzioni, l’assunzione di decisioni e la capacità di gestione costruttiva dei sentimenti e delle relazioni (non solo interpersonali); E non basta ciò che egli riproduce (quel che sa) ma conta piuttosto ciò produce (che sa fare con quel che sa).
Étant donnés, attraverso progetti e attività che immettono nella scuola un know how che partecipa di un “curricolo realizzato (…) con atteggiamenti di tipo professionale”1 opera un progressivo e concreto allargamento dell’ambiente di apprendimento.
Il museo, patrimonio identitario della comunità, diventa luogo di mediazione culturale, di cooperazione, di compensazione e di confronto inscritto entro un itinerario di socialità e relazionalità.
Ma più che collaterale e alternativo, il museo acquista la caratteristica di quella creatività ora descritta (riformulazione di contenuti), coabitazione di significati che diventano processo, produzione e moltiplicatore di altri significati possibili. L’arte (come patrimonio di idee e prassi procedurale) è sicuramente uno dei più convincenti equilibratori dell’individuo in corso di formazione, soprattutto quando riesce a coinvolgere tutta la persona, favorendo l’interazione con gli ambienti e i suoi soggetti e avviando intenzionalmente lo sviluppo di una personalità estetica.
I materiali e le informazioni del museo diventano apprendimento e trasformazione immaginativa, reinvenzioni sul registro di una inedita texture iconica.
Sollecitando istanze educative in chiave sistemica e privilegiando prospettive di collaborazione.
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Nella foto, in alto: bambini in azione. Il consumo come modello della didattica
NOTE
1 Cesare Scurati, Un nuovo curricolo nella scuola primaria, La Scuola, 1977
QUINTA FOTO E QUINTO INTERVENTO
All’origine dell’opera: Sant’Elmo e il paesaggio come testo (educativo). Quando l’aula urbana svela i suoi colori
In attesa di decisioni su forme e modalità da assegnare alla scuola per una ripresa “in sicurezza” vale la pena rivolgere lo sguardo a ciò che è oltre l’aula scolastica e si dipana abitualmente sotto i nostri occhi. L’educazione del soggetto va mediata all’interno di un contesto culturale e di una comunità, dove l’educazione alla cooperazione, alla reciprocità, ai comportamenti, all’osservazione delle differenti presenze culturali possono diventare “operative”.
In questo posizionamento tra parte e tutto, tra io e altro, tra realtà e immagine la città è in grado di offrirsi come ambiente educativo con precise connotazioni estetiche. E a ben guardare, il tessuto urbano possiede tutte quelle articolazioni morfologiche per contenere e gestire beni che la scuola non potrebbe mai assemblare e contenere in se stessa.
Offre una prospettiva di accesso a giacimenti culturali che, anche se solo osservati nelle loro evidenze di “prospetto” possono costituire le forme di una straordinaria scenografia nella quale si intravede il nesso tra territorio e tempo e si rileggono i molteplici segni della presenza umana.
Strade, mura, palazzi, torri, castelli, parlano della stratificazione delle lotte e delle guerre di una comunità, e ogni angolo denota funzioni culturali, estetiche, sociali e politiche che potremmo riscoprire. Convergere su questi luoghi significa operare una ricognizione sul passato e simultaneamente sul nostro presente.
Una città, se appartiene al cittadino, è implicitamente in grado di educare, i suoi spazi sono testi educativi “aperti” e i suoi luoghi ambiti di formazione: rivolgerle uno sguardo “contemporaneo” e mettere ordine nell’immenso deposito di simboli, segnali e messaggi che formano l’intertesto urbano della metropoli contemporanea sarebbe già cosa di non poco conto, e metterebbe chiarezza tra l’apparente disordine del polimorfismo testuale prodotto dall’intreccio di oggetti e comportamenti.
L’automobile, il monitor pubblicitario, le scale mobili, il grattacielo e il taxi sono ora gli sfondi ora le figure di uno scenario ambiguo per il suo fascino e le sue contraddizioni.
Già nel 1977 Marshall McLuhan nel suo ultimo testo intitolato City as Classroom sostiene che l’esplosione delle informazioni elettroniche è così grande che per gli allievi “la maggior parte dell’apprendimento avviene al di fuori della classe”. Nonostante questa prospettiva metta in questione l’egemonia del libro come unico sussidio didattico e il monopolio dell’istruzione conferito alle istituzioni ufficiali dell’apprendimento, i prodotti dei mass media sono considerati intrattenimento piuttosto che elementi educativi.
McLuhan sottolinea, di contro, che molti classici della letteratura erano originariamente considerati allo stesso modo. L’imperativo educativo è padroneggiare i nuovi media (e lo scenario tramite il quale si rappresentano) al fine di “assimilarli al nostro patrimonio culturale totale” e che questo “fornisce gli strumenti di base della percezione”, oltre che lo sviluppo di “giudizio e discriminazione con la normale esperienza sociale”1.
Drammatico, grottesco, paradossale o avventuroso che sia, il profilo di ogni città possiede sempre un proprio tratto estetico. E Calvino, ne “Le città invisibili” lo ha inequivocabilmente dimostrato.
L’aula urbana svela colori, suoni e linguaggi e diviene “educativa” in ogni sua parte. In questo complesso mosaico di forme, al paesaggio spetta una peculiare esemplarità estetica: è contemplazione della “natura” e pertanto assolve alla necessità (estetica, appunto) di assenza di ogni interesse strumentale. Ed è parte integrante del patrimonio culturale, secondo legislazione, perché costituisce “espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio”.
Napoli, città particolare e categorica, offre passeggiate e percorsi con scorci nei quali il paesaggio (l’ampia veduta generale del territorio o di parte di esso da un luogo sopraelevato) raggiunge livelli di bellezza straordinari.
Tanto per muoversi nel perimetro dell’arte ed evitare “peregrinazioni” poco finalizzate, si potrebbe ripercorrere l’inverso della scena paesaggistica dipinta nella tavola Strozzi custodita alla Certosa di San Martino e porsi nella traiettoria contraria allo sguardo del pittore per collocarsi alla sommità della scena, risalendo le pendici della collina vomerese, zona cittadina che cominciò a popolarsi soprattutto a partire dalla costruzione del Chiostro Certosino nel 1325 e dove, quasi contemporaneamente, gli Angioini sostituirono l’antico torrione di vedetta di epoca normanna attiguo al Chiostro con il Castello di Belforte, nucleo di partenza del Castel Sant’Elmo.
Dalle terrazze e camminamenti di questo possente edificio si gode un’esperienza visiva straordinaria. È il primo castello per estensione della città, ed è in parte ricavato dalla viva roccia di tufo giallo napoletano.
Tra bellezze e testimonianze artistiche che oggi “contaminano” il luogo di opere contemporanee, il paesaggio è innanzitutto un’immagine, una rappresentazione in cui le tre dimensioni dello spazio vengono riprodotte sul “piano” e questa condizione, apparentemente ovvia e deducibile, è in grado di chiarire che l’esperienza estetica della natura è il modello preliminare alla configurazione dell’opera d’arte. Esperienza non di poco conto, che prende il posto dell’occhio lasciando indefiniti la cornice e il nostro punto d’osservazione.
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Note
1Marshal McLuhan, City as Classroom, Understanding Language and Media, 1977 (trad. it. La città come aula. Per capire il linguaggio dei media, Armando, Roma, 1980)
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QUARTA FOTO E QUARTO INTERVENTO
Piccoli cittadini a regola d’arte si misurano con il fascino di Ercolano
(24 febbraio 2020)
L’antico è una fonte di ispirazione per l’arte sin dagli inizi del Novecento. Moltissimi artisti si sono confrontati con i resti del passato e con i reperti che lo rappresentano: emblematico è il lavoro di Picasso che con passione quasi archeologica ha sistematicamente re-interpretato e attualizzato iconografie remote.
In tempi a noi più vicini, gli artisti dell’Arte Povera “saccheggiano” con determinazione i resti che l’antichità ha tramandato: rilievi, teste senza corpo, mani, colonne spezzate, icone di bellezza. Forme o frammenti recuperati dall’antichità compaiono nelle opere di Jannis Kounellis come oggetti che costruiscono un legame ininterrotto con il passato.
Altri artisti hanno preferito confrontarsi direttamente con gli oggetti che il caso ha restituito dal naufragio del mondo classico, in particolare con quelle sculture che nel corso del tempo sono diventate icone di bellezza e di fascinazione erotica. Così la figura di Afrodite, emblema di una bellezza impossibile da dimenticare, che Yves Klein nel 1962 (“Venus blue”) ricopre interamente del suo tipico colore blu. E ovviamente la celebre “Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto del 1967, una Venere che mostra le natiche al visitatore, posta di fronte a un cumulo di vestiti usati.
L’obiettivo non è mai produrre opere di rigore scientifico, basate su una ricostruzione archeologica, ma è piuttosto il procedere di un antropologo, l’intenzione di realizzare un’immagine omologa dell’oggetto considerato che si possa abbracciare in un solo sguardo e contenere in un solo gesto, non seguendo il percorso scientifico dell’archeologo ma quello più ampiamente culturale, sensibile, sentimentale, emotivo.
Quasi un magazzino della memoria che queste rovine contengono e che gli artisti vogliono rivitalizzare.
Ercolano è città unica al mondo, per la presenza di un sito archeologico i cui reperti sono in uno stato di conservazione così particolare da fornire ancora oggi informazioni utili e applicabili in numerosi campi di ricerca attuali.
Il patrimonio archeologico di Ercolano si presenta sotto forma di frammento e questo consente una particolare strategia di rielaborazione culturale, in grado di riconnettere una parte al tutto e tracciare una sequenza narrativa che, a partire dalla Storia, si proietta nell’oggi e nel futuro.
Oltre seicento bambini di due scuole del territorio hanno rielaborato, negli anni passati e attraverso duraturi percorsi scolastici, l’eccezionale unicum archeologico ercolanese quasi come ready-made culturale per individuare temi figurativi capaci di avviare un’analisi riflessiva e generare ulteriorità artistiche e formali. Il mosaico, gli affreschi e la statuaria sono elementi restituiti evitando ipotesi riproduttive a favore di una reinterpretazione in chiave contemporanea, proiettati verso una dimensione ambientale e urbanistica.
Tra i tanti temi elaborati, estrapolare le due immagini di Nettuno e Anfitrite (dalla casa che prende nome dal mosaico che li raffigura) e rileggerli alla luce di poetiche di artisti contemporanei ha evidenziato risultati inattesi.
Gli artisti scelti hanno usato principalmente la grafica: Carla Accardi, Ugo Nespolo, Bruno Donzelli e Fortunato Depero. Trasferire lo stile e le poetiche di questi artisti ha riattualizzato un tema classico proiettandolo in una dimensione di attualità, ma soprattutto ha consentito ai bambini uno studio approfondito di concetti di natura estetica molto specifici, consentendo di cogliere quell’ insieme strutturato di intenti espressivo-contenutistici che un artista evidenzia costantemente nelle sue opere.
L’allestimento, poi, li ha impegnati in una forma attiva e riflessiva sulle diverse modalità espositive, rendendoli protagonisti di scelte e decisioni: “cittadini a regola d’arte”.
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In foto ,installazione al Museo MAV di Ercolano, giugno 2016 delle classi quinte del Secondo Circolo di Ercolano “F. Giampaglia”
TERZA FOTO E TERZO INTERVENTO
Quel desiderio di un mondo migliore
E gli allievi inventano la bellezza sui murales
(16 dicembre 2019)
Non sarà sfuggita la grande diffusione dei murales, sia in ambito artistico che didattico. Dalle grotte di Lascaux ai grandi cicli affrescati dal Medioevo in poi, la pittura parietale è una tecnica pittorica di grande interesse e adoperata per scopi differenti.
I murales, però, non vanno confusi con i graffiti writing, che nascono da scritte, per lo più in origine firme, che poi si sviluppano ingrandendosi e presentandosi in modalità di realizzazioni differenti.
I writers sono movimenti di protesta, nascono come libere espressioni creative di artisti contro il potere e la mercificazione della creatività e degli oggetti d’arte, ma hanno assunto sempre più nel tempo valore estetico.
Questo aspetto furtivo, rapido e non programmato giustifica anche l’uso di vernici spray e l’utilizzo di stencil, considerando che questi artisti hanno agito in luoghi underground e marginali attenti ad eludere ogni controllo. I depositi dei treni metropolitani soprattutto, negli anni ’80, sono stati i luoghi preferiti e ancor oggi è possibile vedere vagoni che “viaggiano” con tracce di interventi “pittorici”.
I murales invece (dallo spagnolo mural, usato al plurale in italiano anche in maniera erronea) indicano dipinti di vario genere eseguiti sulle mura, e appare una forma più completa e “distesa” di pittura.
La necessità di conservare queste opere nei secoli scorsi ha suggerito interventi all’interno di edifici (chiese, palazzi pubblici etc) ma non mancano esempi all’aperto già in epoche passate, come le facciate degli edifici porticati di piazza Erbe a Mantova che risalgono al Cinquecento e forse al Mantegna.
Le tecniche di esecuzione di un murale possono essere varie e includere anche l’affresco, dipingendo con pigmenti stemperati in acqua su intonaco fresco, ma sono ormai frequenti esecuzioni polimateriche, con materiali differenti su una base pittorica.
Attraverso interventi parietali, anche di enormi dimensioni, si auspica la “riqualifica” e l’abbellimento di zone periferiche e marginali, con temi che il più delle volte intendono sollecitare su argomenti di interesse sociale e ovviamente l’intenzione, di committenti ed esecutori, è sempre quello di creare, all’interno del tessuto urbano, una sorta di “museo diffuso”. Non va sottovalutato l’aspetto “effimero” di questi interventi, tipico delle espressioni contemporanee, e l’affermazione di Banksy c’è chi vorrebbe un mondo migliore, io lo voglio solo più bello: se non ti piace puoi sempre dipingerci sopra pare abbastanza esplicativa.
In ambito didattico, l’occasione offre la possibilità di attivare un laboratorio complesso, che attiva vari significati e diventa luogo di ricezione e produzioni di saperi. Inoltre, per la grandezza della superficie di solito impegnata, richiama inevitabilmente a un lavoro condiviso, nel quale la soggettività (e lo stile) di ciascun partecipante può essere mostrata.
Favorisce, tra le altre cose, l’apprendimento di abilità e conoscenze con una modalità del tutto nuova, e promuove un atteggiamento positivo di appartenenza a spazi “familiari e consueti” che vengono reindirizzati in una percezione e in una fruizione completamente originale e differente.
Ha carattere specific site e dunque di interazione con l’ambiente circostante e fa riferimento a tutti gli aspetti della sua identità. Infine, e non da ultimo, il carattere fortemente operativo e di immediata verifica dei segni in relazione al contesto, permette una mediazione costante fra teoria e pratica, progettualità e improvvisazione, regole e creatività.
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Nella foto sopra, l’opera realizzata durante il laboratorio Urbanarte al 46° Scialoja Cortese nell’ambito del programma Scuola viva della Regione Campania
SECONDA FOTO E SECONDO INTERVENTO
Quando l’opera è completato dallo sguardo degli altri
Alla domanda “che cos’è l’arte” Giulio Carlo Argan rispose è una delle culture dell’uomo, cultura che ci indica il pensiero visivo di una comunità, la sua identità, la sua tradizione e capacità di innovazione. Il museo è il luogo che raccoglie e mostra, in modo temporaneo o permanente, le forme di questa cultura ed effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, secondo una recente definizione dell’ ICOM.
La relazione tra questi due luoghi, l’arte e il museo, è insieme ulteriorità e prossimità, poiché rimandano il primo ad un’esigenza di compimento e l’altro ad intenzionalità regolativa.
L’arte può osare il suo potere immaginifico e andare oltre il repertorio già noto delle immagini con azioni trasgressive e corrosive.
Il museo invece si pone come prossimità e richiede una decodifica, una rigorosa interpretazione almeno storico culturale e linguistica.
Il museo è da diversi anni un’aula decentrata nel progetto Bambini e Musei e ogni volta che vedo bambini e ragazzi, che difficilmente avrebbero alternative autonome di visita alle strutture museali, nelle sale e davanti alle opere immagino che il loro stupore sia pari a quello dello spettatore estraniato e spiazzato davanti alla porta dell’étant donnés lasciata da Marcel Duchamp e allestita nel museo di Filadelfia e cerco di metterli alla ricerca dello spioncino da oltrepassare con lo sguardo per vedere la scena che nasconde.
Étant donnés , per chi non ricordasse, è l’opera di Marcel Duchamp realizzata in gran segreto per 20 anni ed esposta per la prima volta dopo la sua morte al Philadelphia Museum of Art, che si presenta come una porta di legno a grandezza reale con due spioncini dai quali è possibile osservare la scena, elencata nel titolo dell’opera e composta da un calco in gesso di una donna nuda e acefala che tiene in mano una lampada a gas con alle spalle un contesto bucolico nel quale si scorge una cascata. Opera polimaterica, che assembla materiali diversi ed eterogenei, ma soprattutto un progetto.
Al di là delle intenzioni dell’artista, che ha prodotto una letteratura critica copiosa e discorde, quello che conta e che qui ci interessa è lo sguardo, il fatto di guardare, di oltrepassare la scena con l’intrusione del nostro sguardo che “fa il quadro”. È lo sguardo a trasgredire la prossimità di una porta che rimane e rimarrà chiusa. Un’evidenza che ci richiede una decodifica (capire che esiste altro al di là della porta che è solo una soglia da trasgredire) e una posizione da assumere per intenzionarci a guardare.
Quest’opera ha inaugurato un’attitudine che gli amanti dell’arte conoscono bene, e il coinvolgimento dello spettatore nell’opera è stata la speranza, per esempio, delle neo avanguardie degli anni 60 e 70 del Novecento, che hanno accolto con entusiasmo l’estetica della ricezione di Jauss e poi dell’opera aperta di Eco per ragioni anche “politiche”, nel tentativo di collocare l’arte e i suoi prodotti al di fuori del sistema di produzione delle merci.
Considerare quest’attitudine vuol dire stare nel sentiero dell’arte ma anche andare oltre la pratica artistica e la produzione oggettuale, cogliere la vocazione generativa dell’arte e dell’opera e, trasferito nei processi didattici, educare all’arte e con l’arte.
Il museo è prossimità, si diceva, e richiede una seriazione, una classificazione, un calcolo…. le sale del Museo diventano aula decentrata perché diventano laboratorio, luogo di studio e sperimentazione delle questioni artistiche che ci offre.
E allora, copiare attraverso il disegno “dal vero” apre un procedimento che pone una problematicità e richiede soluzioni attraverso passaggi logici.
Osservare e riprodurre intuisce proporzioni, relazioni tra le parti e ordini di grandezza; riportare in una scala l’oggetto osservato sottopone a verifica le proprie osservazioni. Ma soprattutto avvicina l’opera e la mette in relazione con chi osserva, fornendo maggiori strumenti per decifrare l’esperienza.
E questo è il punto di partenza per una dimensione generativa e i dati che Bambini e Musei raccoglie dal museo e dalle opere – come luoghi prossimi – che vengono trasferiti in classe e trasformati in materiale di apprendimento, scoperta e costruzione di significati ulteriori. Qui avvengono approfondimenti e rielaborazioni che sono rinforzati dai linguaggi, dalle idee e dalle esperienze dell’arte, dall’utilizzo creativo delle tecnologie informatiche e diventano progetto. Anche in questa fase lo sguardo assume un ruolo fondamentale, poiché rivede e ripensa i segni in una forma differente, attraverso un procedimento che è collage e colore, perché l’arte è comunque immagine, e ogni esperienza di arte visiva si costruisce in una forma.
Depero, le sue immagini pubblicitarie e la grafica in generale, Andy Warhol e molti altri artisti diventano tracce per trasferire poetiche e nutrire il materiale raccolto di altre traiettorie.
In questa fase il “progetto” diventa dimensione totale e condivisa: i laboratori sono condivisi tra gruppi e tra gruppi anche di diverse comunità educanti, condivisi con un pubblico, in attesa di una esposizione, a cui si offrono gli esiti del proprio lavoro (laboratorium deriva da laborare).
Bambini e Musei si inscrive, dunque, in una dimensione “integrata”, partecipativa, sociale.
Convinti che la sostanza formale delle opere e dei modelli artistici non sono dati in un’essenza esaurita una volta per tutte ma possono essere smarginati e reindirizzati in una traiettoria insolita e anche debitamente irriverente.
Parafrasando Roberto Longhi e per ricordare che l’arte include anche le parole e i testi che la raccontano “un processo didattico a regola d’arte non sta mai da solo: dal vaso greco alla Cappella Sistina è sempre un capolavoro squisitamente relativo (…) è sempre in un rapporto”.
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69° Circolo didattico Stefano Barbato: così gli alunni (re)interpretano la Tavola Strozzi. Accanto ai monumenti di Napoli, Pulcinella
PRIMA FOTO e PRIMO INTERVENTO DOPO LA PAUSA ESTIVA
Oggetto di elaborazione creativa della bambine e dei bambini, questa volta, è la Tavola Strozzi custodita nella Certosa e Museo di San Martino .
Nata come spalliera di un letto disegnato da Benedetto da Maiano, la Tavola Strozzi è una veduta di Napoli realizzata tra il 1472 e il 1473 di attribuzione incerta e considerata la più bella rappresentazione urbana quattrocentesca. Rinvenuta nei primi anni del secolo scorso a Palazzo Strozzi di Firenze, rappresenta il rientro della flotta aragonese dopo la vittoria riportata contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò, avvenuta al largo di Ischia il 7 luglio 1465.
E’ un documento di eccezionale importanza storica poiché restituisce la città al tempo degli aragonesi, e sono evidenti numerose presenze di strutture militari, la cinta di mura turrite che cingeva l’intera città e l’impianto fortificato del castello e del faro, circondati da mura merlate. Erano tempi di frequenti rivolte baronali che avevano fatto accantonare i progetti di riordino urbanistico del re Alfondo II a favore di opere difensive. Ordinata e recintata come una polis, la città si espande tutta ad est e mancano gli attuali quartieri di Chiaia, Vomero e Posillipo che si estenderanno in seguito.
La città è vista dal mare, con una minuziosa descrizione del molo in primo piano, dei castelli, delle mura, delle chiese e degli edifici della città. In primo piano si svolge il corteo di barche e il cielo sembra colto alle luci dell’alba.
I monumenti visibili dalla tavola Strozzi sono Castel dell’Ovo, Castel Nuovo, la Certosa di San Martino, Castel Sant’Elmo, il Monastero di Santa Chiara, il Castello del Carmine, il Duomo di Napoli, Castel Capuano e la Torre di San Vincenzo in seguito demolita
La veduta fu costruita con una difficile tecnica di disegno che prevede oltre al punto di vista reale anche un punto di vista fittizio, cioè inganno visivo. Utilizzata per disegnare scene con vista aerea a volo d’uccello in mancanza di una altura da cui osservare la veduta, la tecnica del punto di vista fittizio utilizzava un edificio alto del panorama stesso (una torre, un tetto, un campanile, un faro etc.) che in una seconda fase lavorativa veniva inserito artificiosamente nella veduta collocandolo in primo piano o di quinta. Questo consentiva di ottenere una ripresa aerea.
Il risultato che l’autore misterioso della Tavola Strozzi ha ottenuto con questo espediente, è notevole e studi recenti collocano la ripresa dall’alto della Lanterna, che però non è stata inserita nella veduta.
La reinterpretazione proposta è stata realizzata da bambini del 69° Circolo didattico Stefano Barbato del quartiere Barra con proiezione dell’originale su grandi dimensioni e isolando il particolare dei singoli monumenti, assemblati in seguito con semplici programmi di editing. Completa l’immagine un Pulcinella che allude alla sezione teatrale della Certosa e Museo di San Martino, dov’è custodita la Tavola Strozzi
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IL PROGETTO DI LUIGI FILADORO
Bambini e Musei è un’iniziativa di Luigi Filadoro per l’associazione culturale étant donnés (da lui presieduta) che promuove da molti anni percorsi e laboratori finalizzati a un coinvolgimento concreto e protagonista dei bambini nel patrimonio culturale e artistico, guardando al museo e alle sue collezioni come campo semantico di grande valore ed eccezionale luogo di incontro.
Oltre a potenziare le abilità manuali e creative, il principale obiettivo è promuovere un diritto di inclusione e di cittadinanza intesi come interpretazione, appartenenza e partecipazione alla dimensione storico artistica e culturale che, dal proprio territorio inteso come esperienza e stratificazione complessa di segni e di rimandi, va oltre e diventa metodo e chiave di lettura della complessità, della pluralità e della differenza che ci circonda.
I lavori sono stati realizzati attraverso varie fasi: osservando le opere e realizzando in situazione una copia dal vero, perciò confrontandosi con le difficoltà di “ordinare” in forma grafica qualità percepite attraverso la forma artistica; rielaborando i loro stessi disegni attraverso un collage di carte colorate, con una tecnica suggerita da Depero e dai Futuristi; partecipando, con l’ausilio delle tecnologie e di semplici programmi per l’editing, alla costruzione dello “spazio pittorico” che caratterizza ogni singolo lavoro, frutto di collaborazione di classi intere o gruppi- classe; Attraverso una concreta partecipazione e grazie alla collaborazione dei Servizi educativi dei Musei, sono stati prodotti poster e guide, mettendo quindi i bambini e i ragazzi in una dimensione fortemente comunicativa rispetto ai loro elaborati e partecipando al punto di vista di ipotetici fruitori.
Il progetto “Bambini e Musei” è nato con finalità inclusive e di integrazione, nelle attività curricolari, di bambini e ragazzi diversamente abili e ha avuto inizio al MANN Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
L’arte è per sua natura polisemica, portatrice di linguaggi eterogenei e temi universali declinati con modalità differenti, comprende modalità di espressione varie e interconnesse. Perciò è sempre incontro con l’alterità, con l’altro da sé e offre la possibilità di un discorso e un approccio interculturali.
Il museo è luogo privilegiato di dialoghi e relazioni: tra le opere che formano la collezione e tra il fruitore e le opere, in una dimensione di reciproco accrescimento.