Dal giornalista e fotoreporter Giovanni Ruggiero riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento sul progetto “Sebastiano, la freccia e la palma” cui ha dedicato molte delle sue opere e che rimanda alla realtà sempre attuale delle epidemie che colpiscono il mondo. Dalla peste al Covid.
Nessuno più del giovane San Sebastiano avrebbe potuto rassicurare e confortare le città e gli uomini quando su di loro si abbattevano periodicamente le frecce funeste della peste. Soldato valoroso, Diocleziano lo volle a capo delle sue guardie personali. Ma lo stesso imperatore, nella grande persecuzione dei cristiani del 304 d.C., lo condannò a morte, perché il giovane soldato aveva abbracciato la fede cristiana. Sebastiano fu esposto al martirio delle frecce. Gli arcieri lo legarono ad un albero e lo trafissero con tante di quei dardi da farlo sembrare un riccio, come nota il suo primo agiografo, Arnobio il Giovane, nella “Passio S. Sebastiani”, attribuita erroneamente a Sant’Ambrogio.
La peste ha da sempre infierito sull’umanità. C’è anche una pestilenza risalente al tempo del mito, raccontata da Omero nel primo libro dell’Iliade. L’origine del culto, per una serie di associazioni, nasce proprio in questo tempo della fantasia. Crise, sacerdote di Apollo, si reca nell’accampamento degli Achei per chiedere al re Agamennone la restituzione della figlia Criseide, fatta prigioniera e ridotta a concubina.
Il fiero Agamennone però lo dileggia e lo caccia via. Crise sulla riva del mare chiede la vendetta di Apollo che esaudisce la sua preghiera: “[…] lo ascoltò Febo Apollo / e scese giù dalle cime d’Olimpo, adirato nel cuore, / portando l’arco sulla spalla e la faretra tutta chiusa […] sinistro fu il sibilo dell’arco d’argento. / All’inizio colpiva i muli ed i cani veloci; / ma poi, su loro stessi scagliando il dardo appuntito, / li bersagliava; senza posa; fitti, bruciavano i roghi dei morti. / Da ben nove giorni sul campo cadevano i dardi del dio, […]”
Su questo racconto, scattano associazioni concettuali importanti e, a partire dall’alto Medio Evo, si “costruisce” la figura del santo protettore. La peste, dunque, è portata da un Dio irato che si serve di frecce per cagionare morte e dolore. San Sebastiano effettivamente è ferito con le frecce. La freccia è lo strumento del suo martirio, la palma ne è il simbolo.
Per secoli, fino al 1800, la medicina non può nulla contro questa terribile pestilenza. Già Tito Lucrezio Caro, descrivendo gli effetti devastanti della peste, deve ammettere che “la medicina ammutolisce”.
Nell’alto Medio Evo le pestilenze si succedono. Nella “Historia Longombardorum”, Paolo Diacono ne cita due. La più terribile fu quella che flagellò l’Italia al tempo di re Godeperto che regnò un solo anno dal 661 al 662 d.C. Furono particolarmente colpite le città di Roma e Pavia. Lo storico dei Longobardi offre un affresco vivido della città lombarda: «Allora molti videro l’angelo del bene e quello del male vagare di notte per la città: quante volte, per ordine dell‘angelo del bene, l’angelo del male percuoteva un uscio con uno spiedone, tanti in quella casa erano destinati a morire per il giorno dopo.»
Però ecco già il primo miracolo. Qualcuno andava dicendo in città, forse per rivelazione, che la peste non sarebbe cessata se prima non fosse stato eretto un altare a San Sebastiano nella basilica di San Pietro in Vincoli. E infatti – scrive lo storico – trasportate da Roma reliquie di San Sebastiano martire ed eretto un altare in quella basilica, la peste cessò (Pestis ipsa quievit).
Il culto di San Sebastiano dunque è nato, e si consolida grazie anche a un secondo riferimento concettuale. Sebastiano non mori per le frecce scagliate degli impietosi arcieri, i quali credendolo morto lo abbandonano legato all’albero. Una donna lo trova così: moribondo e sanguinante. Questa pia donna è Santa Irene che lo soccorre e lo cura. Sebastiano appena recupera le forze si presenta all’imperatore che, questa volta, lo condanna a morte per lapidazione nell’ippodromo del Palatino. Dispone che il suo corpo sia poi gettato nella Cloaca Massima, dove poi fu trovato dai cristiani. La credenza vuole che proprio lì fosse edificata la Basilica di San Sebastiano fuori le mura sull’Appia Antica.
I fedeli, in un convincimento che è durato secoli, tirano le somme: Sebastiano è colpito dalle frecce/peste ma non muore, quindi vince sulla pestilenza. Dunque, chi più di lui può proteggerli quando la peste periodicamente colpisce interi popolazioni? La fama di San Sebastiano protettore contro la peste è bella che nata! E più la peste si diffonde più si consolida.
La pestilenza che diventa pandemica è la Peste Nera. Arriva in Italia, nel porto di Messina, nel settembre del 1347 (o 1348), portata da dodici vascelli genovesi proveniente da Caffa in Crimea che hanno a bordo cadaveri e appestati. Le navi trasportano grano e sono invase da topi che sono i principali diffusori, con le loro pulci, del bacillo. Da Messina, la peste a periodi colpirà più volte tutti i Paesi del continente europeo.
E durerà per secoli perché, fino all’ultima epidemia che mise in ginocchio Marsiglia, la medicina non aveva rimedi per questo male. Il consiglio dei medici era laconico: «Cito, longe, tarde!» E cioè: fuggi presto, va lontano e torna il più tardi che puoi. Era dunque un male “non democratico” perché, di certo, potevano fuggire presto e lontano soltanto i ricchi che, quando l’angelo del male bussava alla porta, loro erano già al sicuro nelle dimore di campagna.
Oggi si può solo sorridere leggendo dei rimedi medici o delle cause con cui man mano si spiegava il morbo. Miasmi? Congiunzioni astrali nefaste? E quanta fantasiosa bizzarria poi nell’indicare un medicamento! Epifanio Ferdinando, illustre medico pugliese di Mesagne, vissuto a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, prescriveva lo “sciroppo allungato”, fatto tra l’altro di acetosella, di borragine, di succo di melagrana acida, polvere di semi di echio e di scordio, più polvere di bezoar in grandi 10. Per non dire dell’unguento di scorpione o di una grande panacea, la “triaca maggiore”, composta da cinquanta elementi, tra cui il tritato di vipera.
Poi ecco che uno scienziato moderno trova il rimedio. Si chiama Alexandre Yersin, medico e batteriologo svizzero naturalizzato francese, che nel 1894 a Hong Kong isola il bacillo della peste, il “pasteurella pestis”, e mette a punto un vaccino. In suo onore, il terribile bacillo sarà chiamato “Yersinia pestis”. E dopo secoli, finalmente, la peste arretra: pestis ipsa quievit! Per davvero. Prima di lui, dunque, soltanto un santo poteva salvare gli uomini. Credere se l’abbia fatto è poi soltanto questione di fede.
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Ho pensato a tutto questo quando un mio amico, dopo il trapianto di fegato che avevo subìto, rallegrandosi con me, fece questa stessa considerazione: «Giovanni, venti anni fa soltanto un santo ti avrebbe salvato!»
Proprio così: prima che il trapianto di organi fosse un rimedio possibile, molte patologie, salvo intervento divino, portavano inevitabilmente a morte certa. Mi veniva in mente, mentre con l’amico continuavo nella conversazione, oltre la storia del santo, anche la sua “fortuna” iconografica.
Questo martire è infatti il santo più rappresentato nella storia dell’arte. Il mosaico nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo) lo raffigura nella piena maturità, è canuto e con la barba. S’ispira a questo mosaico certamente l’altro in San Pietro in Vincoli a Roma del secolo successivo. Poi la rappresentazione del martire comincerà ad essere interpretata secondo i canoni estetici e i dettami teologici delle epoche successive. Soprattutto viene rappresentato come un giovane uomo. Questa versione del santo si consolida nei secoli. Testi come il seicentesco “Flos Sanctorum” chiudono la questione: «Era – si legge nel Leggendario de’ Santi – uno spettacolo di molta compassione vedere un giovane bellissimo, nobile, costumato, e di molta stima, e senza aver commesso errore alcuno, dover patire la morte» E si giungerà a rappresentazioni del tutte edonistiche, sganciate da ogni suggestione medievale. Lo fa Guido Reni, e Stendhal nelle Mémoires d’un turiste racconta che quadri del pittore bolognese erano stati rimossi dalle chiese di Roma perché turbavano le bigotte.
San Sebastiano è scandalo e anche imbarazzo per la Chiesa, tanto che in epoca controriformista viene offerto ai fedeli un altro santo taumaturgo contro la pestilenza: San Rocco di Montpellier, vissuto nella seconda metà del Trecento. San Rocco è raffigurato in modo più rassicurante. È infatti intabarrato con mantelli e palandrane. Tuttavia dovrà avere un segno, un simbolo nella sua rappresentazione iconografica, perché possa indurre i fedeli a rivolgere a lui le preghiere in caso di peste. Un po’ come Santa Lucia di Siracusa, protettrice della vista, che mostra in un vassoio, di volta in volta d’oro o d’argento, due bulbi oculari. Bene, il santo pellegrino ha una gamba scoperta e a metà coscia è raffigurato il bubbone della peste. Però si è dovuto ricorrere a una finzione, con un’opera di disinformazione: l’ulcerazione è a metà coscia, quando invece i linfonodi tumefatti della peste si localizzano a livello inguinale o femorale. San Rocco non avrà mai la stessa fortuna iconografica che invece è toccata al Miles Christi, martirizzato da Diocleziano.
Quel giorno, quando il mio amico fece riferimento alla salvezza divina, nella mia mente si proiettavano tantissime opere che avevo visto nei libri o nei musei dove sono adesso custoditi. Immaginate: come una proiezione veloce di diapositive. Uno dopo l’altro: Antonello da Messina, Masaccio, Van der Weyden, Sodoma, Perugino, Holbein il Vecchio, Guido Reni, il Veronese, Tiziano… e tanti altri. Il santo viene rappresentato in diversi situazioni. Spesso è il solo protagonista della tela, legato all’albero e trafitto dalle frecce che si riducono a due o a tre, come simbolo, oppure è a terra. Altre volte è illustrata la dinamica del martirio, compaiono infatti gli arcieri che caricano gli archi. Infine, in altre opere, compare Santa Irene che lo soccorre.
I modi come appare il santo sono stati ben spiegati da Dominique Fernandez: «È ritto in piedi, per fronteggiare il pericolo o incarnare lo spirito di resistenza all’epidemia; (…) spesso è di corporatura atletica, come quello del Mantegna al Louvre, oppure è di costituzione molto fragile come quello del Memling al museo di Bruxelles.»
La rivoluzione nella rappresentazione del santo avviene nel XVII secolo, cioè all’inizio dell’età barocca, quando «compaiono adolescenti nudi e languidi, dipinti o scolpiti per il puro piacere dell’occhio». San Sebastiano, secondo Fernandez, con le sue raffigurazioni dà nuovo lustro al blasone sbiadito dell’epicureismo.
Spiega così: «Nel tema di Sebastiano si trovano, portati per così dire al loro punto d’incandescenza, i caratteri fondamentali di ciò che si potrebbe definire “pessimismo edonistico”: senso della precarietà dell’esistenza, acuta consapevolezza della fragilità delle cose e della brevità del tempo, unione del funebre e del voluttuoso, abbandono all’estasi, sensualità fremente. La coesistenza della morte e dell’amore, di Eros e di Thanatos, non viene forse magnificamente suggellata nella figura del giovane e bel suppliziato?»
La rappresentazione, tuttavia si rifà sempre a canoni classici. Artisti come il Perugino, il Sodoma o Guido Reni certamente ricorrono a questo santo per esaltare la bellezza e la nudità maschile indipendentemente dalla sua missione, quella di tutelare le genti dalla peste. Questa funzione invece è sottolineata da Antonello da Messina.
L’artista si propone due compiti: rappresentare il santo e mostrare la sua missione in modo chiaro e rassicurante, così che tutti con fiducia possano votarsi a lui. Il santo, nell’opera databile al 1478 ed esposta oggi a Dresda, è al centro di una piazza di certo inventata così da sembrare un fondale teatrale; le frecce arrivano a lui come scagliate perpendicolarmente. Sul fondo, tra le architetture eleganti, donne e uomini discorrono tra loro, un soldato dorme per terra e da lontano viene verso di noi una mamma con in braccio il suo bambino. L’armonia della vita non è sfregiata dal male. Antonello dice che il Santo si è posto tra la peste e la città facendo scudo, sicché le frecce colpiscono soltanto lui e gli uomini di questa città sono salvi.
Mi piace proporre, a proposito di città, un’opera poco conosciuta, un San Sebastiano molto vicino a noi, quello di Angiolillo Arcuccio nel duomo di Aversa. È uno dei pochi lavori che illustrano la dinamica del martirio con la presenza degli arcieri che innescano l’arco, mentre nello sfondo è rappresentata la città normanna come doveva essere ai suoi tempi. L’opera è datata tra il 1480 e il 1485.
Decisi dunque quel giorno di dedicare alcune opere a questo santo, che fanno parte di una serie che ho chiamato “Sebastiano, la freccia e la palma”. L’ho inteso come protettore di altri mali moderni, non solo fisici ma anche morali, offerto a chi – ovviamente, ricco di fede – crede nei miracoli e nella capacità taumaturgica dei santi. Ho realizzato diversi lavori utilizzando la ”grammatica narrativa” impiegata per le mie cassette: la foto è sempre velata da una garza, simbolo della malattia; compaiono frecce spesso conficcate sulla fotografia che in molti casi è spezzettata in tante tessere così che ciascuno possa ricomporla a suo estro e piacimento.
In questi giorni che hanno visto un virus insinuarsi nelle nostre esistenze, di gran lunga però meno terribile della Peste Nera, non potevo non pensare a San Sebastiano e ne offro qui una versione particolare: il martire prende su di sé la freccia del coronavirus. È un invito a riflettere sulla caducità delle cose e del nostro corpo. Questo virus è anche un avvertimento o, quantomeno, come lo fu la peste, non è soltanto un “agente destrutturante”.
Rubo questa espressione allo storico della medicina, Giorgio Cosmacini, autore di una storia della sanità in Italia. Scrive, riferendosi alla Peste Nera: «È anche uno stimolo durevole che induce gli Stati della Penisola – non importa se “ducati” o “repubbliche” – a darsi strutture idonee a fronteggiarla, e ad affrontare con essa, dopo di essa, indipendentemente da essa, problemi igienici sanitari di capitale importanza».
Il messaggio che viene da questa moderna pandemia è fin troppo chiaro. Uno Stato moderno, che sia attento al bisogno primario della salute dei suoi cittadini, deve farsi trovare pronto, con strutture e presidi sanitari adeguati e sufficienti, per far fronte a questo e ad altri virus, con essi, dopo di essi e indipendentemente da essi.
Ho visto anche che da tante parti sono venuti inviti ed esortazioni ad affidarsi alla divinità. Lo hanno fatto sacerdoti e vescovi, lo hanno fatto tanti semplici fedeli. E medici e scienziati si stanno ancora affannando per trovare un vaccino. Ho dovuto confrontarmi anch’io, per vicende della mia vita, con il miracolo. Per fede (e solo per fede, non per raziocinio) credo nei miracoli narrati nei Vangeli. Potrei non crederci, ma per la Chiesa – suppongo – smetterei di essere cristiano. Non credo a tutti gli altri: alle guarigioni miracolose, dovute a cause che si ignoravano nel passato e in parte si ignorano anche oggi. I miracoli non sono dovuti al credente. Il miracolo è una grazia misteriosa e, quindi, non dipende da nessuno, se non da Dio. I “miracoli della scienza”, invece, ci sono dovuti. Se oggi in Italia esiste un farmaco o una pratica medica che ha del miracoloso, perché elimina un male altrimenti mortale, come cittadini, abbiamo diritto a questo miracolo. Come ad esempio il “miracolo del trapianto” che mi fu dato, avendone io il diritto.
COME SONO NATE LE OPERE
Il progetto “Sebastiano, la freccia e la palma” è stato molto impegnativo. Ho dovuto risolvere non pochi problemi. Prima di tutto, procurarmi una sala di posa e imparare a fotografare con i flash da studio. Io che ho sempre odiato i flash! Ma, soprattutto, dovevo sapere esattamente come rappresentare il mio San Sebastiano, non solo dal punto di vista stilistico. Censurarlo? Perpetuare i tabù? E perché mai? La Controriforma è acqua passata! Certo che oggi non ci sono più le beghine di Stendhal che arrossiscono, ho denudato il santo in due versioni (foto 1 e 2).
Ho utilizzato per tutti i miei lavori a lui dedicati la stessa “grammatica narrativa” che ho impiegato per le opere di “Memento”. Il santo è spesso inserito in una cassetta di legno che è trafitta dalle frecce. In questo modo, la cassetta non è contenitore dell’opera, ma è già opera. Rappresenta il corpo del santo trapassato dalle frecce. Difatti, la cassetta sanguina nel punto in cui il dardo si conficca (foto 3). I n qualche caso, la cornice non serve a racchiudere l’opera, ma è essa stessa l’opera (foto 4).
La fotografia è poi ricoperta di garza, a rappresentare la malattia da me patita che mi ha portato alla realizzazione di queste opere (foto 5). Altre volte la fotografia è spezzata in tessere. Sono tre foto una sull’altra virate con colori diversi che il fruitore può comporre a suo piacimento (foto 6). Oppure sono soltanto dei particolari dell’immagine ad essere presentati con tessere sovrapposte (foto 7).
In alcune opere, infine, è rappresentata la funzione che fu riconosciuta al santo nell’antichità, cioè quella di proteggere da una malattia che era la peste. In una delle mie opere è presente un’immagine Tac (foto 8). È esattamente quella che mi fu fatta tanti anni fa che rivelò l’origine di un mio male.
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Nell’immagine in alto, “Il martirio di San Sebastiano” di Angiolillo Arcuccio (Duomo di Aversa) e qui accanto “San Sebastiano” di Antonello da Messina (Dresda)