Oggi prendiamo “Un caffè con … Flavia Sorrentino”, che saluto e ringrazio, con la quale continuiamo il ciclo di incontri per parlare di autonomia differenziata e dei rapporti socio-economici tra Nord e Sud del paese. Flavia Sorrentino (foto) è delegata del sindaco di Napoli per l’autonomia della città.
Cara Flavia, la Giunta comunale di Napoli a settembre del 2018 ha votato il “Manifesto di autonomia della Città di Napoli”, una proposta che non è ancora approdata in Consiglio Comunale. Vuoi spiegare in sintesi di cosa si tratta?
Il Manifesto di Napoli Città Autonoma è una idea di futuro. Propone una visione ed una traccia da seguire per costruire un nuovo modello politico ed economico più vicino alle comunità locali. Per la prima volta una grande città italiana, la Capitale del Mezzogiorno, delinea i contorni di un progetto di sviluppo attraverso strumenti di autogoverno. Non si tratta di un mero atto amministrativo, ma di una vera e propria linea di rilancio della città che passa dalla valorizzazione della sua storia, cultura e tradizione e getta le basi di un progresso partecipato e autodeterminato dal basso. L’autonomia non è un modo per chiudersi in sé stessi escludendo gli altri, ma un percorso di apertura della città a tutti coloro che qui vogliono lavorare e vivere. Un passo fondamentale per il ripensamento del ruolo di Napoli nel Paese rafforzandone la vantaggiosa posizione strategica al centro del Mediterraneo. E se è vero che il Manifesto approvato in giunta non è ancora arrivato in Consiglio, resta il fatto che oggi è un provvedimento agli atti del Comune che in ogni momento può essere adottato portando a una modifica sostanziale ed irreversibile dello Statuto della Città di Napoli. Un atto al quale dovranno, dunque, essere adeguati tutti gli altri atti che approveranno le amministrazioni future. L’avvio di un processo che una volta innescato non si potrà più fermare.
L’ultimo scippo al SUD, in ordine di tempo, è la messa in discussione della cosiddetta clausola del 34%, ovvero quella previsione economica da destinare al Mezzogiorno per i programmi di spesa in conto capitale (investimenti). Il DEF 2020 e il cosiddetto decreto Rilancio, di fatto, ne cancellano la portata. Gli amministratori del SUD sembrano non scandalizzarsi più di tanto. Come mai?
C’è sempre un buon motivo per un nuovo sacco del Sud. L’ultimo in ordine di tempo è il coronavirus. Un male diffusosi inizialmente al Nord, che ha coinvolto tutta l’Italia, a causa di un Governo timoroso di minare gli interessi imprenditoriali della parte più ricca del Paese. Ora il Sud, colpito economicamente dal lockdown totale – che invece poteva essere limitato alla Lombardia e alle regioni settentrionali maggiormente interessate – subisce l’ulteriore beffa di un DEF che mette a rischio i finanziamenti che gli sono destinati per legge. Le nostre Regioni, dunque, uscite quasi indenni dal punto di vista sanitario, rischiano di morire di risorse negate. Un film già visto per il quale scandalizzarsi non basta, bisogna dare battaglia. Del resto, se non è vero fino in fondo che gli amministratori del Sud non si sono scandalizzati è sicuramente vero che non è stato dato adeguato risalto mediatico alla loro voce. Esiste un problema di equità territoriale che passa anche per una corretta informazione nazionale.
Il Piano Sud 2030, presentato in pompa magna dal Governo, nei mesi di marzo, aprile e giugno 2020 prevedeva una serie di tappe per “incarnare” le quantità economiche per il Mezzogiorno. Tutte disattese. Questo “sontuoso” documento diverrà l’ennesimo libro dei sogni scritto dal Governo di turno oppure vi è spazio per incalzare questo esecutivo?
Vi è spazio, modo e occasione per pretendere da questo esecutivo non dico quanto promesso, ma almeno una parte di quanto atteso. Il Mezzogiorno non può più aspettare e la fase successiva all’emergenza sanitaria rappresenta un grande banco di prova. Dopo il lockdown le attività commerciali e le aziende sono in gravissima difficoltà e molte di esse rischiano di non riaprire con pesanti impatti negativi sull’occupazione, già particolarmente bassa. Nella nostra città è stato registrato un grande ricorso alla cassa integrazione in deroga ed è particolarmente preoccupante il rischio della perdita di numerosi posti di lavoro alla scadenza della stessa. In questo senso mi aspetto un impegno concreto del Ministro per il Sud affinché sottoponga ai colleghi di Governo la necessità di incrementare da subito lo sforzo per il sostegno al Mezzogiorno, per impedire, ad esempio, un nuovo “caso Whirlpool” o quanto accaduto alla Jabil di Marcianise dove, almeno per il momento, sono stati scongiurati quasi 200 licenziamenti. Le condizioni e le prospettive dei nostri territori sono legate alla storia unitaria del Paese, ma dipendono in misura rilevante da vicende recenti e dalle decisioni di politica economica che saranno prese nell’immediato futuro: bisogna ripopolare il Sud di giovani e di speranza.
Giustino Fortunato sosteneva che la politica gioilittiana dell’intervento speciale doveva ritenersi “la politica pitocca del tozzo di pane”, perché addirittura deresponsabilizzava lo Stato e non ristabiliva equità nei rapporti tra le due Italie. Oltre a gridare a gran voce che il decentramento amministrativo e il reclutamento militare su base territoriale, avrebbero indebolito il processo di formazione di uno Stato unitario forte e rallentato il processo di unificazione economica del paese. Una teoria ancora attuale?
Possiamo definire uno Stato unito, prima ancora che unitario, se non vengono differenziati i diritti di cittadinanza in base alla ricchezza dei territori. In questo senso, l’Italia è un guscio vuoto. Senza un piano strutturale di riequilibrio delle disparità territoriali e senza una politica di rilancio degli investimenti pubblici è impossibile parlare di crescita o sviluppo delle diverse aree del Paese. Del resto, non è mai stata presa in considerazione realmente la parte della riforma federalista della Costituzione che avrebbe dovuto garantire la salvaguardia delle zone più deboli, con capacità contributive più basse. Ossia, la perequazione e i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, che garantiscono l’uguaglianza per evitare cittadini di serie A e cittadini di serie B. Rispettare le reciproche differenze territoriali, valorizzandone storia e peculiarità è il modello di autonomia che sostengo fortemente. Mi oppongo, invece, alle richieste di regionalismo differenziato di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che rivendicano funzioni proprie trattenendo sul territorio il 90% del gettito fiscale. D’altra parte, dalla fondazione dello Stato unitario, pagata con le risorse auree del Mezzogiorno, non sono state mai colmate le diseguaglianze in termini di sviluppo industriale. Anzi, grazie a investimenti indirizzati al Nord, maldestramente bilanciati da interventi speciali “una tantum” al Sud, si è allargata enormemente, nel corso dei decenni, la forbice reddituale e infrastrutturale tra settentrionali e meridionali. Prima di qualunque forma di autonomia, dunque, dev’essere bilanciata la scala economica del Paese. Altrimenti, dopo la torta si prenderanno pure le briciole.
E’ pensiero comune che uno dei principali problemi del Mezzogiorno sono proprio le sue istituzioni locali, che non sono in grado di diventare soggetti attivi della modernità. Tuttavia, continuare a lamentarci della mancanza di una classe dirigente non ci porterà molto lontano. Secondo te, quale può essere il primo presupposto per migliorare questo limite ormai atavico?
Porre un argine allo spopolamento del Sud. I nostri figli migliori emigrano già dopo le scuole superiori e la loro istruzione diventa risorsa per lo sviluppo di altre città, al Nord o all’estero. L’aumento significativo dell’emigrazione studentesca, infatti, contribuisce all’immiserimento economico del Mezzogiorno, già particolarmente colpito dalla perdita progressiva e costante di intelligenze e professionalità. Inoltre, gli effetti di questa massiccia emigrazione, non danno risultati positivi sui nostri territori nemmeno più avanti nel tempo, poiché una volta partiti, i giovani non tornano più. Così il Sud, che attraverso le famiglie sostiene i costi del suo capitale umano, si impoverisce, esportandolo “in sola andata”. Creare una nuova classe dirigente nel Mezzogiorno passa necessariamente per un freno a questa grave emorragia dei cervelli e alla creazione delle condizioni per il rientro di quelli già partiti. Chiunque avrà l’onore di guidare le istituzioni locali nel prossimo futuro dovrà pensare soprattutto a questo: ai giovani che aspettano solo una buona occasione per investire qui il proprio talento e contribuire al progresso della terra in cui sono nati e in cui hanno il diritto di crescere, lavorare e vivere.
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