Abbiamo trovato tutta la polvere che può lasciare il tempo, quando i giorni, i mesi e gli anni si accumulano. In maniera inesorabile, dal 22 marzo 1994, quando Giuseppe Pecoraro prematuramente ci lasciò. Aveva solo 40 anni. La sua patina mortale, allora, può spegnere anche il ricordo.
Siamo ritornati nel suo studio, dopo un quarto di secolo, ed abbiamo tirato su il sipario che il tempo ha abbassato. E c’era tutto, come avvolto in una nube: molti dei suoi dipinti, i disegni, le litografie, i suoi appunti, i pennelli, le tele, i cavalletti, i tubetti di colori, come cose trovate abbandonate in una casa che è stata lasciata all’improvviso. Abbiamo ritrovato, così, tutto il suo mondo e tutta la sua arte.
Giuseppe Pecoraro cominciò a farsi conoscere subito nel mondo dell’arte con personali che si susseguivano l’una dopo l’altra. Pareva preso da un’ansia febbrile nel dipingere. Non poteva non sapere che la sua malattia non l’avrebbe fatto giungere alla vecchiaia.
La pittura era tutta la vita. Ci siamo trovati qui, davanti a questo sipario di polvere, come “presi da un incantamento”, per quelle circostanze strane e fortuite della vita, in tre di noi: chi scrive, Gisella Pecoraro, sorella del maestro, e Linda Irace che anima l’associazione napoletana “TempoLibero”.
E insieme, guardandoci semplicemente negli occhi e trovando subito comunanza di intenti, abbiamo deciso di scrostare questa pesante patina di polvere accumulato negli anni sulla figura e sull’opera di quest’artista. Ed è bastato poco per veder risplendere di nuovo quanto Giuseppe Pecoraro ha creato nei suoi brevi anni di vita.
Pecoraro era solito incontrare gli amici in un punto di Piazza San Pasquale a Grumo Nevano. Adolescenti che sognavano, speravano forse in qualcosa che non sarebbe mai arrivata. la piazza, dove si incontravano, è rappresentata in quest’opera intitolata “La lunga attesa” forse del futuro, forse della realizzazione dei sogni, forse di Godot
Abbiamo cercato, con l’ansia e la curiosità degli archeologi, recuperando scritti, fotografie, oggetti, note che potessero aiutarci e riscoprire questo giovane maestro. E con tenacia abbiamo soffiato sull’ultimo strato di polvere finché non abbiamo visto risplendere i suoi colori, quel rincorrersi dei gialli sulla tela, dal Giallo di Napoli chiaro fino alla Terra di Siena, o quel susseguirsi dei celesti e degli azzurri che nel loro “cammino” finiscono nell’indaco e vanno poi a fondersi nel nero a piccole porzioni geometriche: triangoli, rombi, losanghe o con quei minuti e precisi trapezi che caratterizzano la sua arte.
Quest’opera richiama il terremoto irpino e ha come sottotitolo da lui indicato il giorno e l’ora della scossa: 23 novembre 1980 ore 19,35
È stata una ricerca felice, per i risultati ottenuti, ed è stato sul piano affettivo un ritrovarsi, un rivedere qualcuno che le circostanze della vita ci aveva fatto perdere di vista. Chi scrive ha frequentato Giuseppe Pecoraro in quell’età ancora acerba in cui i ragazzi sognano il futuro e desiderano dalla vita tutto e ancora di più. Io frequentavo le prime redazioni per rincorrere il mio sogno di diventare giornalista; Giuseppe Pecoraro, invece, immaginava tutta la sua vita consacrata all’arte.
Ricordo le appassionate discussioni su Hauser o Gombrich (nostri miti) o sui Dadaisti che entusiasmavano entrambi. Ma a Pino chiedevo di più della sua arte che già negli anni ’70 del secolo passato si andava definendo ben precisa, quell’arte che definii, in una nota critica che accompagnava il catalogo di una sua mostra, “geometrismo pittorico” di Giuseppe Pecoraro. Ho ritrovato tra le carte lasciate dal maestro miei testi dattiloscritti che poi lui portava in tipografia. In questi cimeli, soprattutto, ho ritrovato un’amicizia che si era interrotta perché le imprevedibili vicende della vita ci avevano allontanato. Adesso è stato come un rivedersi o un ritrovarsi, non più nei giorni e nelle ore, ma attraverso l’opera che ha lasciato.
L’arte di Giuseppe Pecoraro si declina con la parola Sud la cui condizione umana, sociale ed economica era al centro dei suoi pensieri. L’artista interviene con la sua arte in termini di denuncia, perché impegnato sui temi sociali, ma spesso, riflettendo questi temi nelle sue tele, fa proprio lo scoramento, l’avvilimento, la resa ed anche la rabbia della gente del Sud.
Il maestro presentò il suo Sud a Rieti, alla Galleria d’Arte “Presenze” dal 16 al 25 ottobre 1975. Dettò a chi scrive una sequenza logica perché comparisse nel catalogo che accompagnava la mostra. Eccola: «mare – monti – aria – luce – sole – natura – poesia – innocenza – bellezza – amore – odio – disperazione.» Poi, staccata tipograficamente da questa catena, più in basso e da sola, la parola “fame”. Era messa come il totale di un’addizione, ma si leggeva anche come se volesse dire: “nonostante tutto, fame”!
Anche quest’opera è ispirata al dramma dell’Irpinia che colpi molto l’artista. Aveva ritagliato volti di quel dramma dai giornali per potersi ispirare. “Risperazione” è un archetipo di quel dolore
Giuseppe Pecoraro faceva propria, con la sua arte, questa sequela e faceva propria, come artista e come uomo, questa sofferenza di tutti. Condivideva quest’angoscia.
Su questi temi ci intendevamo. Volle che ne scrivessi in questi termini: «Nel pittore Pecoraro il problema del nostro Sud è un dolore lancinante, e soltanto la bravura tecnica fa sì che il colore crei le forme, nonostante la sofferenza, che nascano i volti che, insomma, nasca l’opera d’arte che è tale quando l’artista la concepisce a costo di queste sofferenze, le quali proprio perché vanno oltre il fisico, sono più forti. Sono però appagate da quell’intima soddisfazione che solo chi fa arte, o chi la sente in egual misura, può capire.»
Il Sud è riproposto anni dopo con la personale “È da terra che nasce l’ommo”, sempre a Rieti (23 maggio -1 giugno 1981). La mostra racchiude meglio l’inizio di un periodo felice di Giuseppe Pecoraro, quello che lo definisce artisticamente.
“Ritorno” (olio e sacco), 1976
Sulla tela, il maestro aggiunge un sacco.
Il tema del lavoro e della fatica fisica è ricorrente nella sua opera
Alfonso Rossi scrive nella nota critica che l’accompagnava: «L’arte diventa tensione, ostilità, aggressione che costringe a pensare, attraverso immagini, oggetti primari, che vanno oltre il tema, in uno stile forte, primitivo ma elaborato, che esprime, se possibile, un Sud dell’anima».
In questa mostra Giuseppe Pecoraro propone opere molto rappresentative e si sofferma su un dramma nel dramma del Sud: il terremoto dell’Irpinia del 1980. Due tele, olio su tela 40×50, “Risperazione” e “Chiagne” hanno lo stesso sottotitolo: “23 novembre 1980, ore 19.35”: l’ora precisa della scossa.
Spesso l’opera di Pecoraro s’illumina, la tavolozza si schiarisce e si arricchisce di nuovi colori. Sono momenti di gioia e di speranza.
Il maestro, proprio per sottolineare la sua appartenenza al Sud, dà spesso un titolo dialettale alle opere. Questo carica l’opera di ulteriori significati. Dipinge ad esempio una madre con il figlio e chiama l’opera “Ma che allucc’a ffa!”. Come per sottolineare uno stato di rassegnazione in cui neppure il pianto può essere risolutivo e risanatore.
Ad anni da questi dipinti, con problemi forse diversi o in parte mitigati, il Sud resta con la sua attesa. La denuncia sociale dell’artista non è dunque superata, e la cifra artistica, assolutamente personale di Giuseppe Pecoraro, rende ancora attuale l’opera. Non risente né del tempo né del lungo letargo sotto la polvere.
Noi ne siamo convinti, per questo cominciamo a riproporre qui, nello spazio del mondodisuk, questo maestro, invitando tutti a riscoprirlo.
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Nella foto in alto, “Lavandaie”, 1974. Compaiono i volti sofferenti e rassegnati della sua personale e cruda rappresentazione del Sud.
Qui sopra, “Senti la vita che se ne va”, 1973. Giuseppe Pecoraro agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso definisce già quel suo “geometrismo pittorico” che caratterizzerà tutta la sua opera futura. È difficile non scorgere in quest’opera, a parte i richiami ecologisti rivoluzionari per quegli anni, riferimenti personali