Non era per caso che quel pomeriggio di settembre bazzicassi dalle parti del centro storico. Si presentava una collana di libri per bambini in una nuova libreria della zona ed io non potevo mancare.
Anche quella volta avrei buttato giù qualche riga tanto per accontentare il mio giornale, vincendo l’innata indolenza ed il fastidio per un gioco divenuto una routine come le altre.
Tuttavia, non riuscivo a nascondere una certa curiosit  per l’incontro a cui avrei presto assistito. Sull’invito, tra gli intervenuti, spiccava il nome di una persona che avevo frequentato per anni per poi perdere di vista.
Inizialmente, avevo pensato ad un’omonimia ma, nel vederla sul palco stringere, emozionata, il microfono, dovetti ricredermi.
Eh s, era proprio Sabina Gifuni ma per me che la conoscevo dai tempi della scuola sarebbe rimasta sempre e solo Gifuni.
Nei suoi confronti non ero mai riuscita a provare un sentimento diverso dalla compassione e ancora avvertivo una certa ritrosia a chiamarla per nome, come da ragazza quando mi ero imposta di farlo solo per il timore di inimicarmela e di perdere quei piccoli favori che lei, la più brava della classe, non esitava a concedermi. N potevo, però, cancellare i momenti di vita scolastica che avevamo condiviso sia pure con una partecipazione differente.

Durante il quarto anno si era verificato, lo ricordo ancora, un episodio alquanto singolare. Avevo rischiato di essere sospesa con le altre compagne a causa di un insulto alla docente di latino, impresso sulle pareti dell’aula con un pennarello indelebile nero in modo che fosse impossibile ignorarlo.
Non si trattava solo dell’offesa. In una scuola come la nostra, in cui bastava lo sguardo torvo di un professore a farci tremare, fu un affronto tale da scatenare il caos. Per fortuna, avevamo un alibi di ferro: nell’ora incriminata eravamo scese in palestra per la lezione di educazione fisica, a cui avevamo partecipato tutte tranne Gifuni, temporaneamente indisposta.
Ma chi avrebbe potuto dubitare della nostra compagna?
La minima insinuazione sarebbe apparsa ridicola.
Vedete, Gifuni non era un tipo comune. Nell’intervallo fra una lezione e l’altra, mentre noi affollavamo il bagno, lei rimaneva in classe o scompariva del tutto per fare ritorno, come un fantasma, all’ingresso del docente in classe. Eppure, non si poteva definire un tipo servile. Come un filosofo perso nelle proprie meditazioni era astratta e poco propensa a farsi coinvolgere in un’attivit  che non fosse di studio.
Studiava con uno zelo a me sconosciuto, quasi volesse umiliare gli stessi professori che si lamentavano di noi pur limitandosi a scaldare la sedia.
N in seguito, negli incontri fortuiti avvenuti all’Universit , avevo ravvisato in lei dei cambiamenti rilevanti, ma ora, prigioniera di quell’immagine radicatasi dentro di me nei cinque anni trascorsi insieme, stentavo a dominare il disagio di fronte a colei che mi appariva un’estranea e quasi mi auguravo che si levasse la maschera dal volto, dietro le cui sembianze posticce, avrei rivisto la vera Gifuni.
Niente di tutto ciò accadde nel corso di quella serata che ebbe per me l’effetto di un amarcord, un doloroso rimestare nel passato tra emozioni e ricordi ingombranti. Liberi da censure, riaffiorarono quegli anni bui di cui, a più riprese, avevo tentato di sbarazzarmi nello sterile tentativo di sfuggire alla vergogna d’essermi finta amica di Gifuni quando, in verit , la detestavo più di tutti.
A nulla serviva appellarmi a quella razionalit  perversa che mi aveva sempre guidato, giustificando ogni mio comportamento, anche il più spregevole.
A farmi precipitare ulteriormente in quel gorgo di sensazioni fu poi il suono della sua voce. Finalmente colei che avevo bollato come ipocrita trovava la forza di urlare il proprio disagio, ribellandosi al triste gioco delle apparenze. Di colpo rammentai il giorno in cui Gifuni era stata sul punto di confessarmi, tra mille esitazioni, il suo segreto.
Anche quella volta mi dimostrai cos distaccata e superficiale da spingerla a fare precipitosamente marcia indietro. Eppure, con quel suo gesto coraggioso e sconsiderato al tempo stesso, non aveva esitato a schierarsi dalla nostra parte, come se fosse stata una di noi che, ignare, continuavamo a snobbarla.
A quel punto la mia stessa esistenza mi apparve, nella sua sconfinata mediocrit , sotto una luce differente. E fu con un entusiasmo ritrovato che, al mio ritorno a casa, mi accinsi a scrivere il resoconto di quella serata.
Perch, me ne rendevo conto solo adesso, Gifuni non aveva mai indossato una maschera: eravamo state noi a mettergliela per difendere le nostre sicurezze che, seppur traballanti, erano l’unica cosa a cui poterci aggrappare.

*napoletana, giornalista pubblicista e scrittrice, press office/Communication & PR Manager.

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