“C’è bisogno di arte per non morire di realtà” (anonimo)
In questo momento storico in cui arte e cultura sono messe alle strette, la rete diventa un importante veicolo di comunicazione. Oltre a seguire le complesse sorti di musei e teatri, ci sta a cuore sapere cosa pensano gli artisti in prima persona, come vivono, cosa creano e come si rapportano psicologicamente al caos da pandemia.
Così abbiamo virtualmente raggiunto Christian “Chrprn” originario di Cuneo, che è stato recentemente a Napoli per partecipare al progetto di street art mondiale “Paste Up Festival Naples” presso il Giardino Liberato di Materdei.
Christian ha studiato grafica alle superiori e si è laureato in pittura all’Accademia di Torino. Durante il percorso universitario ha fatto principalmente esperienza di street art con stencil (“prima ancora disegnavo i treni, stile vecchia scuola”) e si è appassionato alla serigrafia. Poi paradossalmente nel dopo laurea, è ritornato a uno stile molto più pittorico, abbandonando i colori spray e avviando una ricerca espressiva dei suoi soggetti che sono soprattutto figure umane. Ha vissuto un po’ in America e un po’ nelle Marche e adesso si trova a Bologna.
I ritratti che fanno riferimento a persone reali hanno come scopo non il disegno in sé, che può non essere fedele esteticamente, ma ciò che importa è la storia che c’è dietro ognuno di loro e che traspare da uno sguardo, dalla luce degli occhi o da un particolare che comunica qualcosa.
Quasi sempre ritrae chi ha disturbi o difficoltà, di salute fisica o mentale, diagnosticate o meno. Si convive ogni giorno con aspetti di malessere, sono intorno a noi ma non se ne parla abbastanza. E infatti il suo progetto presentato a Materdei racconta proprio di questo.
I dipinti esposti al Giardino Liberato hanno come tema il suicidio. In particolare alcuni con la scritta “Did you know Chrprn?” e un tuo autoritratto. Come nascono?
«L’idea risale a un paio di anni fa e quando ho conosciuto quest’anno l’organizzatrice del Festival Paste Up di Napoli che mi ha spiegato come funzionava l’esposizione, quasi spontaneamente l’ho scelta per far parte delle pareti dell’ edificio del Giardino, su cui, oltre alle mie opere, ce ne sarebbero state tantissime altre.
Quindi è stato come se rappresentassimo tutti insieme il caos che vive in ognuno di noi e che è presente nella società stessa.
Quelle con la scritta in inglese che recita “Lo conoscevi Chrprn?” (mio nome d’arte) rappresentano una domanda che in realtà si può rivolgere a chiunque cambiando il nome o che facciamo a noi stessi dopo la morte di qualcuno per cause non naturali come il suicidio (“Lo conoscevi? Lo conoscevo davvero? Perché se lo conoscevo non mi sono accorto del suo disagio?”)».
Il tema nasce sia in seguito alla perdita di amici cari che mi ha messo di fronte a queste riflessioni e sia per esperienza diretta come conseguenza di un personale periodo sregolato che mi ha visto ricoverato in ospedale.
Ho considerato quanto un accadimento del genere sia ritenuto un tabù e spesso non è affrontato affatto dalla comunità o da chi ti sta intorno come parenti e familiari.
Attraverso un percorso intenso e impegnativo che mi ha portato ad accettarmi, a superare, a convivere e a raccontarmi, ho poi ritrovato anche la motivazione artistica (dopo circa un anno di buio) e ho quindi scelto di ritrarre anche me stesso nelle opere presentate. Ammetto che inizialmente non è stato facile decidere di esporle in pubblico anche se erano là su carta, avevano preso forma, esistevano e parlavano della mia storia e non soltanto della mia. Metterci la faccia e svelare la propria fragile interiorità non è cosa semplice ma a Napoli è successo e lo slancio che c’è dietro è soprattutto dare un messaggio contro l’indifferenza».
Sui profili social, tra le tante immagini, spiccano una tua versione della Giuditta di Klimt e la tua figura nudo accovacciato (ritrovata anche in giro per Napoli). Ciò che colpisce sono le didascalie. Per la prima scrivi “You can’t immagine a new sense or a new colour” (non si può immaginare un nuovo senso o un nuovo colore) e per la seconda “We have learned to kill our dreams” (abbiamo imparato a uccidere i nostri sogni).
«La mia produzione artistica che si vede sui social negli ultimi anni, è tutta riferita al conseguente percorso personale che ho fatto dopo il ricovero. Sono ritornato alla vita ma è stato lungo e sofferto e sono cambiato molto, lavorando sui miei limiti. La mia visione era ed è inevitabilmente pessimistica, realistica, cruda, nichilista ma con la differenza che ad oggi riesco a far convivere tutto ciò con il mio aspetto da sognatore, affinché non ci sia un unico modo di vedere le cose e perché non per forza debba esserci una spiegazione analitica per tutto. Va benissimo anche il senso soggettivo che ognuno di noi dà a qualcosa…ammesso che poi ci sia sempre un senso. C’è anche una buona dose di ironia in tutto questo».
Un tuo pensiero su questo periodo di pandemia, dal tuo punto di vista di persona creativa.
«Sconvolto non è il termine giusto. Appena successo il lockdown, mi ero da poco trasferito a Bologna, quindi mi sono ritrovato chiuso tra 4 mura sconosciute, in una città che non potevo conoscere per fattori di restrizione. Non capivamo bene cosa stesse succedendo e artisticamente parlando ho avuto un empasse. Vedevo sui social artisti che creavano, “ispirati” per così dire dalla situazione sanitaria e dal ruolo dei medici, che però a me non trasmettevano nulla ed io stesso non trovavo cose da dire attraverso l’arte, non capivo bene molti aspetti del momento. Vivevo anche un po’ la pressione di chi online si aspettava qualcosa anche da me, quale fosse la mia opinione, come vedessi il futuro ma io mi sentivo davvero bloccato. Dopo un po’, prendendo contatti con alcuni artisti conosciuti proprio grazie al progetto del Giardino che intanto raccoglieva adesioni, abbiamo pensato di creare qualcosa che non parlasse affatto della pandemia. Non giudico chi ha cavalcato l’onda dei disegni sulle mascherine o quant’altro possa riguardare il virus in senso stretto, ma semplicemente è qualcosa che non abbiamo sentito nostro e che non ci motivava.
Per cui abbiamo iniziato a lavorare sul tema della percezione del sé, in un momento in cui siamo stati costretti a stare di più con noi stessi, a staccare la spina con il mondo quotidiano e di certo non tutti hanno affrontato bene questo aspetto della solitudine. Personalmente quello che mi ha destabilizzato di più è stata, ed è ancora, l’incertezza globale di non sapere cosa succederà insieme con l’incertezza economica. Adesso, superata la paura iniziale, riesco a vivere meglio anche Bologna, conosco persone e mi concentro artisticamente su tematiche che possono distrarmi dalla situazione attuale. Magari l’affronterò in futuro, una volta che ho lasciato decantare dentro di me le mie tante riflessioni ed emozioni a riguardo».
Che considerazione hai di Napoli sotto l’aspetto artistico, dopo la tua esperienza?
«Me ne sono innamorato e non lo dico per essere ruffiano ma perché è completamente diversa da tutto il resto delle città italiane, così come la sua gente. Artisticamente c’è molta collaborazione (immagino che ci sia anche molta competizione ma è qualcosa che non ho vissuto), così come molta umanità. L’ ho girata in compagnia degli altri artisti che ci tenevano a farmene vedere alcuni angoli, oltre che ad aiutarmi ad attaccare le mie opere. Ho ricevuto i complimenti e l’interesse anche da chi magari passa e guarda quello fai alle 9 di sera su di un muro e posso assicurare che in altri posti questo non succede. Non ho avvertito ostilità verso una forma d’arte quale è la streetart che è tutto sommato invasiva, ancora illegale e può non piacere, mentre a Napoli in questo c’è molta partecipazione. Per esempio ho messo un’opera su un muro dell’Arcigay di Napoli e mi ha scritto il giorno dopo il presidente per il puro interesse di saperne il significato, se fosse una critica o una provocazione nei loro confronti, insomma un atteggiamento che non denota indifferenza o ostracismo ma appunto curiosità ed inclusione».
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(le foto pubblicate sono state gentilmente concesse dall’artista)