Di questi tempi la politica ritualmente invoca lo slogan, evidentemente elettorale, di “una legge speciale per Napoli”. Questo perché i conti dell’ente riportano e ricordano la situazione di pre-dissesto finanziario, ormai da qualche anno.
Che cosa potrebbe mai essere questa “specialità” puntualmente reclamata come la panacea? Quasi nulla. Un solo articolo che destina una certa cifra al Comune di Napoli (foto), ovviamente a determinati patti e condizioni facilmente individuabili.
Lo Stato centrale, da qualche decennio, usa i soldi degli enti locali come bancomat per risolvere problemi più consistenti, individuando le istituzioni locali come foriere di sprechi e privilegi, oltre a tagliare trasferimenti monetari verso quest’ultimi con una certa sistematicità.
Quindi, alla politica locale che si alimenta di demagogia e pressapochismo, proponendo l’allegra cassa pubblica, si contrappone una rigidità monetaria a cui aderisce pedissequamente il centro. Il territorio reclama più soldi e il Governo gliene toglie sempre di più (infrastrutture, politiche sociali, investimenti).
In questo tira e molla a rimetterci sono i servizi resi ai cittadini, anche e soprattutto quelli ritenuti essenziali dalla Costituzione (salute, istruzione). Un’altra strada però si affaccia sulla vicenda, forse più utile per affrontare e uscire da questo pantano.
I Comuni italiani che hanno deliberato l’avvio di una procedura di pre-dissesto, dal 2012 al 2017, sono 217. Con un DPCM dello scorso mese di gennaio il Governo ha introdotto una norma che consente a Comuni e Province in quest’ultima condizione di richiedere allo Stato di accollarsi i propri debiti.
Con questo espediente sarebbe lo Stato a ristrutturare e rinegoziare il debito, ciò innanzitutto per ridurre la spesa per interessi che si aggirerebbe attorno ai 900 milioni di euro, togliendo un consistente peso economico agli enti territoriali interessati.
Il debito di Comuni, Province e Città metropolitane, secondo l’Osservatorio dei Conti Pubblici Territoriali, ammonterebbe a 41,7 miliardi (Giugno 2020), di cui 35,2 a carico dei Comuni e 6,5 delle Province. Gli interessi annui pagati, in gran parte verso banche e Cassa Depositi e Prestiti, si aggirano attorno al 4%.
il merito di quest’ultima novità, in verità più o meno ciò che è successo con il Comune di Roma, dovrebbe indurre una sana politica locale a ragionare con cognizione di causa e valutare, serenamente, ciò che è più utile fare a tal proposito. Per poi regolare la faccenda direttamente con il Governo centrale.
Insomma, si tratterebbe di indirizzare la buona politica a epurarsi da quei bassi rigurgiti elettoralistici e affrontare una discussione seria quanto difficile. Affinché il buon senso possa dare certezze amministrative che incidano direttamente sulla qualità di vita dei cittadini napoletani.
Non è utile continuare ad alimentare (e illudere) una campagna elettorale assai complicata, che già vede affacciarsi una frammentazione pericolosa, avanzando ipotesi irrealistiche, scimmiottando che si possano usare i soldi del Recovery Fund. Ove mai ciò fosse plausibile non basterebbero (finanche tutti insieme) a soddisfare le dissestate casse di centinaia di Comuni sull’orlo del fallimento.
In questo modo la spesa degli enti locali potrebbe liberarsi per essere investita in risorse umane e strumentali, facendo arretrare quel soffocante peso burocratico che appesantisce enormemente l’agire e procedere verso un utile quanto necessario svecchiamento di ruoli e funzioni.
Un terreno incerto ma non proibitivo, sicuramente più degno di una fantomatica legge speciale evocata ad ogni tornata amministrativa. La città di Napoli, come gli altri enti del Sud, ha bisogno di comportamenti amministrativi che portano dritto al futuro, con atti concreti, costanti e duraturi.
Lo Stato centrale, a sua volta, tramuterebbe il debito accollatosi in obbligazioni, con una percentuale di interesse assolutamente inferiore a quel 4% pagato dai Comuni (1% circa).
A differenza dello spettacolo offerto tra il Governo e gli enti territoriali per combattere la pandemia, un terreno di scontro che sta determinando infiniti contenziosi giurisdizionali, in questo caso i due livelli dimostrerebbero una solidarietà istituzionale liberatoria, fortemente incidente sui cittadini e capace di dimostrare quel senso di unità preteso dai costituenti e mai del tutto consumato.
Napoli, dal canto suo, potrebbe mettere in soffitta una campagna elettorale urlata, ancora una volta zeppa di luoghi comuni e inchiodare i futuri amministratori locali a misurarsi con diligenza sul terreno della spesa locale, proprio come dovrebbe fare chi è a capo di una famiglia.
Ma allora esiste un debito buono? Certo che no, è un ossimoro. E’ una licenza semantica che evoca una cosa come normale, ma che tale non è.
Esisterebbe, piuttosto, una solidarietà tra istituzioni che potrebbe raccogliere questo fiore appassito dell’unità, spingendo verso soluzioni meno traumatiche e certamente più virtuose, nelle regole date, affinché vi sia una condivisione delle difficoltà. L’ipotesi avanzata si avvicina quantomeno a recuperare il terreno perduto e a farne seme per la raccolta.
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