Terza tappa dell’inchiesta de Ilmondodisuk nel mondo del food, del beverage e dell’aggregazione ai tempi delle restrizioni sociali dovute al Covid-19. Questa volta incontriamo sul nostro cammino la cooperativa Lazzarelle, progetto sperimentale che unisce l’impresa sociale con il reinserimento lavorativo di donne private della libertà, recluse nel carcere femminile di Pozzuoli.
Questo percorso nasce dalla costruzione di un laboratorio di torrefazione all’interno della casa circondariale e poi, esce all’esterno, sviluppando l’idea di un bistrot sito nella Galleria Principe di Napoli, luogo da tempo in stato di abbandono che, grazie ad esperienze come questa, sta vivendo un risveglio sociale e culturale.
Per l’occasione, abbiamo rivolto alcune domande a Imma Carpiniello, presidente della cooperativa, e a Teresa, art.21[1] del carcere di Pozzuoli, che lavora presso il locale.
Imma, qual è l’origine delle “Lazzarelle”?
«Il progetto nasce nel 2010 a Pozzuoli. Volevamo creare un percorso di formazione e reinserimento lavorativo per le detenute del carcere femminile più grande d’Italia. Ci venne l’idea di concentrarci sulla torrefazione del caffè, pianta che magicamente si trasforma in bevanda che ha un’importanza elevatissima nella nostra cultura. Ci rivolgemmo ad un mastro torrefattore con il quale animammo un laboratorio di formazione rivolto alle detenute, cui vennero trasferite conoscenze e competenze. La cooperativa divenne, così, un’opportunità lavorativa ed un’impresa a tutti gli effetti. La cosa di cui andiamo fiere, è che questo esperimento è stato integralmente ideato, sviluppato e portato avanti da un gruppo di sole donne, che hanno irrotto con la loro creatività in un settore ritenuto prima esclusivamente maschile».
Come funziona?
«Le detenute seguono un laboratorio di formazione, grazie al quale imparano l’arte della torrefazione del caffè. In un secondo momento, c’è l’inserimento nel mercato del lavoro, dove le detenute vengono contrattualizzate in base a un orario di lavoro che rispetta i crismi del contratto nazionale del settore cooperativistico. Tutte loro hanno un busta paga, diritti, ferie, malattia. L’inserimento produttivo, dunque, diviene non solo un fattore pedagogico per chi non ha mai avuto l’opportunità di lavorare, ma anche una nuova opportunità di connessione col mondo esterno al carcere, offendo una reale alternativa a chi tenta di riscattare la propria pena. Abbiamo inventato una figura lavorativa che prima non esisteva – quello della torrefattrice – e stiamo contribuendo al riscatto della figura della donna, liberata dallo stereotipo che la vuole relegata a casa a rammendare le calzette e a occuparsi esclusivamente dei figli. La nostra è una battaglia culturale, che ruota attorno all’idea del carcere non tanto come pattumiera sociale, ma come luogo in cui offrire reali opportunità di riscatto a chi vi si trova recluso».
Lo scorso 22 luglio avete ufficialmente inaugurato il vostro bistrot nella Galleria Principe di Napoli. Oltre alla torrefazione, avete creato un punto vendita del vostro caffè. In cosa è consistito questo salto di qualità?
«Dopo un percorso durato alcuni anni, cercavamo un punto dove poter far bere il nostro caffè, che rispetta degli standard qualitativi elevati. Volevamo spiegare attraverso una tazzina di caffè la storia delle detenute che lo producono e raccontare il ciclo di lavoro che dall’interno delle mura carcerarie si proietta verso l’esterno. Nel 2015 abbiamo così deciso di partecipare al primo bando di “Rigenerazione Urbana” del Comune di Napoli, che assegnava attraverso un concorso pubblico dei locali nella Galleria Principe di Napoli. Contestualmente, ci siamo indirizzate a Banca Etica per effettuare una richiesta di accesso al micro-credito, tentando di sostenere finanziariamente l’idea. Purtroppo, però, i tempi previsti per la realizzazione di questo progetto sono stati più lunghi del dovuto ed abbiamo incontrato una serie di sfighe non indifferenti, fra cui il crollo del timpano[2] e le lungaggini della macchina amministrativa, che è intervenuta per porre in sicurezza la struttura. Dopodichè, quando eravamo ormai prossimi all’apertura, c’è stato lo scoppio della pandemia. Per nostra grande fortuna, la Fondazione Charlemagne[3], cui c’eravamo rivolti per trovare risorse da destinare al progetto, ha creduto in noi e ha congelato il finanziamento, sbloccandolo non appena si sono presentate condizioni più favorevoli. Nel frattempo, il micro-credito che avevamo acceso presso la Banca Etica si è auto-mangiato, perché abbiamo avuto costi vivi e poi, è giunto il D.P.C.M. dell’11 marzo, che ha bloccato l’intero Paese. Il 22 luglio abbiamo finalmente posto in essere la visione sociale del nostro progetto».
In cosa consiste questa visione sociale?
«Il bistrot non è un punto vendita finalizzato a se stesso. E’ un punto culturale in cui vogliamo far incontrare persone, presentare libri, fare musica, serate di danza. Soprattutto, nel nostro locale non offriamo solo caffè, ma abbiamo anche una cambusa in cui lavoriamo alimenti che sono prodotti da esperienze simili a quella portata avanti da noi a Pozzuoli. Ad esempio, nel nostro menù attualmente figura un timballo fatto con pasta prodotta con grani antichi e trafilata al bronzo proveniente dal carcere dell’Ucciardone di Palermo. Abbiamo anche delle paste di mandorla che vengono dal carcere di Ragusa, dei taralli lavorati nel carcere di Trani, delle birre artigianali prodotte nel carcere di Rebibbia di Roma. Noi vogliamo dire che in carcere non ci sono numeri, ma esseri umani cui bisogna offrire un’alternativa, perché se inserite in un percorso lavorativo queste persone possono creare prodotti di alta qualità e riappropriarsi della propria vita».
Cosa ne pensi del sistema carcerario italiano?
«Credo che sia un’istituzione obsoleta, che è posata su un’idea fascista ed esclusivamente repressiva. Al riguardo, c’è una grande ignoranza nell’opinione pubblica, che di tanto in tanto viene alimentata da alcuni politici. Rammento ancora le parole di Angelino Alfano, quando ricopriva la carica di ministro[4], che parlò della carceri come “alberghi a cinque stelle” coi detenuti a carico della collettività e la tv via cavo in cella… Peccato che gente come Alfano finga di ignorare alcune questioni come il sovraffollamento delle carceri, le celle con dodici persone stipate come topi o il fatto che ogni detenuto paghi “vitto” ed “alloggio”, indebitandosi con lo Stato! Nelle spese di mantenimento, che ammontano a 120-150 euro al mese, rientrano i pasti, la corrente, il posto letto. Quando esci dal carcere, hai talmente tanti debiti che ti arriva immediatamente una cartella esattoriale che esige il pagamento degli arretrati. Come fa una persona senza lavoro a sorreggere questi debiti? Senza considerare, inoltre, che chi esce dalla galera deve affrontare uno stigma sociale, che di certo non consente di trovare occupazione o affrancarsi da determinati contesti. E’ anche per questo che attività come la nostra offrono un’opportunità concreta e misure alternative alla detenzione a persone recluse o in attesa di giudizio. Perché la gran parte dei reati non viene commessa da persone che appartengono al “sistema” o alla criminalità organizzata, ma da persone che non riescono a mettere il piatto a tavola».
In questi termini, il sistema carcerario è un fallimento.
«Bisogna capire che l’ultima riforma del sistema carcerario è avvenuta nel 1975. Le strutture sono fatiscenti e sovraffollate. Bisognerebbe introdurre misure alternative alla detenzione, soprattutto per i reati più leggeri o in attesa di giudizio. Inoltre, se la reclusione viene ritenuta esclusivamente come forma repressiva e non riabilitativa, le persone –perché parliamo di esseri umani – una volta scontata la propria pena non avranno una reale possibilità di redimersi senza un lavoro. Ecco perché assistiamo al fenomeno delle “porte girevoli”, cioè alle persone che entrano ed escono di galera. Se non hai la fortuna di incontrare delle cooperative o dei percorsi di inserimento socio-lavorativo, il lavoro devi trovartelo da solo. Anche perché non esiste un’agenzia governativa che sostiene e supporta le persone prive di libertà. Molti imprenditori, ad esempio, non sanno che assumendo dei detenuti o persone che hanno scontato la propria condanna, possono usufruire di sgravi fiscali. Di certo, non si può immaginare che l’alternativa sia il trasformare l’intera popolazione carceraria in Lavoratori socialmente utili, non retribuiti e sprovvisti di qualsiasi diritto».
Torniamo al progetto del bistrot. Credi che possa divenire un’attività di rilancio per l’intera Galleria Principe di Napoli?
«Penso di sì. A patto che vi sia la volontà politica di farlo. Tengo a dire che il primo bando di “Riqualificazione Urbana” aveva un vincolo di utilità sociale. Le lungaggini amministrative e lo scoppio della pandemia hanno indotto molti a rinunciare, perché chi voleva impiantare qui una prima attività non ha avuto i mezzi per sostenerla. Il Comune ha stilato un secondo bando, ma è venuta meno la clausola dell’utilità sociale. Il che significa che in questo luogo potranno essere impiantate attività commerciali generiche, mettendo a repentaglio la visione sposata al principio. Non so come andrà a finire. So che la Galleria potrebbe essere una porta d’ingresso al centro storico, che colleghi il Mann [5] all’Accademia di Belle Arti, creando uno hub della cultura e dell’arte».
Quanto impattano i dpcm e le ordinanze regionali sulla vostra attività?
«Troppo. Soltanto nell’ultima settimana abbiamo avuto un calo di fatturato dell’80%. Ciò non mi porta a dire che non siano giuste le restrizioni, perché il virus c’è e i casi di contagio sono in continuo aumento. Tuttavia, è inaccettabile una visione in cui si scambia il diritto alla salute col diritto al lavoro, che sono entrambi diritti inalienabili previsti dalla Costituzione. Penso che se si prevedono nuovi lockdown, si debbano individuare delle risorse per sostenere i lavoratori e le lavoratrici, introdurre forme di reddito universale, interrompere il pagamento di affitti e bollette. Per questo dico che il decreto legge “Ristoro”, al pari del pregresso “Cura Italia”, è una cagata pazzesca. In questo momento non ci occorrono sussidi di breve respiro. Occorre una visione strategica, perché abbiamo capito che il virus non è un fenomeno passeggero e impatta pesantemente sulla vita del nostro Paese. Sono convinta che in questo momento critico non si possa continuare a esigere dai lavoratori, già vessati dai mesi precedenti, ulteriori tasse. C’è bisogno di introdurre una patrimoniale e prelevare soldi da chi è ricco e spesso evade il fisco, non restituendo nulla alla collettività. Credo che avremo bisogno di un vaccino contro il virus. Ma nella nostra ricetta, non può mancare né la cultura, né la socialità».
Dopo aver parlato con Imma abbiamo raccolto qualche battuta da Teresa, un articolo 21 del Carcere femminile di Pozzuoli, che lavora per 8 ore al giorno presso il bistrot delle “Lazzarelle”. Per tutelarne la privacy, proponiamo una sintesi delle sue dichiarazioni, in cui però non si sacrifica il contenuto e la grande umanità del suo sguardo.
«Sono Teresa. Ho 37 anni e sono madre di due figli. Io non appartengo ad alcuna famiglia criminale. Ero un’onesta lavoratrice, che pagava le tasse. Non bevevo e non mi drogavo. Lavoravo anche 12 ore al giorno e mi ritiravo la sera a casa massacrata di fatica. Nonostante la fatica, non vedevo alcun miglioramento per la vita mia e dei miei figli. Un giorno, decisi che l’unico modo per svoltare poteva essere il fare una rapina in banca e mi determinai a farla. Il tentativo fallì e venni privata della mia libertà. I miei figli mi vennero strappati dalle braccia. Venni precipitata in un mondo che non mi apparteneva, fatto di leggi spietate, regole contraddittorie, restrizioni. La direttrice del carcere non era di larghe vedute. Per un periodo, volevo chiedere anche il trasferimento in altre strutture. Poi, ho incontrato Imma e ho conosciuto la sua cooperativa. Ho compreso i miei sbagli. Ho iniziato a cambiare condotta. Ho iniziato ad intravedere la luce.
La cosa di cui più soffro è il fatto di non poter avere un contatto fisico coi miei figli. Però, sto lavorando per riscattare i miei debiti e per cercare di mettere da parte qualcosa per loro! Mi ritengo fortunata ad avere uno stipendio e dei diritti, ma voglio anche dire che nessuno mi ha regalato niente! Mi sono impegnata duramente per stare dove sono e vorrei che anche il magistrato riconoscesse gli sforzi che fanno le detenute come me, anziché tenerci sempre sul filo del rasoio e rimandare la decisione sulla riduzione della pena.
Di quello che si vive dentro il carcere nessuno sa niente: viviamo stipate in delle celle anche in dodici o tredici persone. La nostra vita è perennemente in ostaggio della direzione carceraria. Rispetto a prima, la situazione a Pozzuoli è migliorata e abbiamo la possibilità di fare laboratori, abbiamo un teatro, un cinema, possiamo fare ginnastica. Ma, in generale, mancano le strutture che affianchino le carceri e le persone recluse. Perché si ignora una grande verità: c’è gente che ruba perché viene da una cultura camorristica, ma ce n’è moltissima altra che ruba per disperazione e perché non sa come mettere il piatto a tavola. Che alternativa hanno queste persone?
Qui alle “Lazzarelle” mi sento una persona normale, che sta recuperando la propria vita. Imma e tutto lo staff sono fantastici e con loro mi sento compresa, anche se penso che lo stare “dentro” ti dia una sensibilità più forte, non sempre capita. A ogni modo, mi sto formando e sto imparando moltissime cose.
Se potessi rivolgere un messaggio alle ragazze che sono in carcere, direi di fare un’analisi, capire dove si è sbagliato e provare a rimettersi in discussione. Soprattutto, suggerirei di dare più valore alla vita, perché la legge non dimentica.
Riguardo allo Stato, io credo che ci sia qualcosa di profondamente ingiusto e sbagliato. Chi ha di più dovrebbe dare a chi ha di meno. Altrimenti, il povero sarà sempre costretto a vivere di stenti o a rubare per sopravvivere. Come si fa vivere con 500-600 euro al mese? Come si fa a fare i coprifuoco se non si dà soldi a chi perde il lavoro? Queste cose alimentano le proteste. Io sono contraria alle violenze, ma non si può dire che dietro la rabbia sociale ci sia la criminalità. I cittadini sono arrabbiati perché non hanno fiducia in uno Stato che li reprime e non gli garantisce diritti. Io non vorrei che con il pretesto dell’emergenza Covid ci stessero togliendo un bene come la libertà, che non è solo quella di bere un aperitivo o di andare al ristorante.
Mi mancano 3 anni e 7 mesi per scontare la mia pena. Il mio desiderio più grande è di riabbracciare i miei figli e tornare a essere quella presenza materna di cui hanno bisogno. Però, vorrei anche essere un esempio per loro, nel senso che vorrei potergli dire: “Vedi? Mamma ha sbagliato e ha pagato i propri errori! Però, ce l’ha messa tutta e si è costruita una nuova vita perché vi ama! E non ha mai perso la dignità”.
NOTE
[1] La Legge n. 354 del 1975, che regola l’Ordinamento penitenziario, all’articolo 21 prevede che i detenuti possano lavorare all’esterno della struttura in cui sono reclusi se si presentano alcune condizioni idonee e vi sia l’avallo dell’autorità giudiziaria competente.
[2] Nell’architettura templare, il timpano è la superficie triangolare racchiusa nella cornice del frontone di un edificio.
[3] La Fondazione Italiana Charlemagne a finalità umanitarie onlus è un ente di erogazione senza scopo di lucro, autonomo e aconfessionale.
[4] Angelino Alfano è un avvocato ed ex esponente democristiano, confluito poi nel Popolo delle Libertà. Ha ricoperto la carica di Ministro della Giustizia dal 2008 al 2011 nel quarto Governo Berlusconi. Successivamente, fino al 2018, ha ricoperto la carica di Ministro con altre deleghe sotto i governi Letta, Renzi e Gentiloni.
[5] Museo Archeologico Nazionale di Napoli.