Prosegue il viaggio del portale ilmondodisuk nel pianeta del food, del beverage, dell’aggregazione ai tempi delle restrizioni sociali dovute al Covid-19.
Oggi, ci spostiamo verso le aree interne, precisamente a Grottaminarda (in provincia di Avellino), dove da un paio di anni il circolo Arci che è divenuto un punto di riferimento enogastronomico e culturale per tutto il circondario.
Un locale che ispira il proprio nome all’antica sede delle poste e telegrafonici e che ha raggiunto riconoscimenti importanti e l’acclamazione del pubblico. Incontriamo il fondatore, Roberto “Buglione” De Filippis, classe 1984, cuoco, appassionato di vini naturali, attivista sociale.
Come nasce l’idea di lanciare “La Posta”?
«Questo progetto nasce nel dicembre 2018 come un circolo Arci [Associazione ricreativa e culturale italiana – ndr] in cui si pratica la somministrazione enogastronomica. Dentro vi ho innervato la lunga esperienza maturata nella cucina del ristorante di famiglia, “La Pergola” di Gesualdo, a contatto diretto coi prodotti delle nostre terre. L’idea che porto avanti non è quella di costruire un luogo commerciale, bensì di animare uno spazio attraversabile in cui si incontrino gli amanti dei vini naturali, gli artisti, i fotografi, gli scultori, i contadini, i pastori, i giovani. In breve, l’intenzione è di costruire un “luogo liberato” dove creare una connessione differente fra persone ed oggetti, che non sia intrisa della logica algida produttore-consumatore. Il mio spazio si ispira alla filosofia della lotta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, guardando alla biografia umana di chi produce ed alla storia delle persone, che non sono numeri, ma esseri umani».
Cosa sono i vini naturali?
«L’agricoltura è governata dalle logiche di mercato, ossia dalla grossa distribuzione. Ti potrei dire che i vini naturali sono quelli prodotti dal contadino. La pianta viene seguita col lavoro diretto del vignaiolo e con metodi non convenzionali, che posano le proprie conoscenze sul rispetto del ciclo biologico e biodinamico. La restante parte del lavoro viene poi, svolta in cantina. I vini naturali subiscono processi di fermentazione spontanea, non vengono filtrati con la chimica di sintesi, che è tassativamente bandita».
Quindi, questi vini che caratteristiche hanno?
«Tutto inizia dalla vigna e dalla coltivazione della pianta, dove non vengono utilizzati prodotti sistemici ed invasivi nella fase di maturazione del frutto. Il winemaker non aggiunge prodotti di sintesi, li riduce il più possibile. Con la propria esperienza, il vignaiolo accompagna le varie fasi della vinificazione nella maniera più naturale possibile, non intervenendo con solfiti o acidi malici, chiarifiche, filtraggi. Il mercato dei vini è colmo di prodotti che vengono progettati in laboratorio, determinando a monte il colore ed il sapore, ispirati a degli standard internazionali. Questa logica porta ad omologare i gusti, seguendo i trend di coloro che detengono le redini del mercato vitivinicolo. I vini convenzionali dei grossi produttori occupano circa il 90% della distribuzione settoriale. I vini naturali si ispirano ad un approccio emozionale, che varia in base all’annata, al tempo, all’altitudine, ai fattori climatici, alle zone di provenienza. Anche se sono per il momento una nicchia, seguono un’etica differente».
E quale sarebbe?
«Il vignaiolo è una persona che ha studiato e maturato una grande esperienza sul campo, applicata all’intero processo produttivo. Parliamo di persone attente, che difendono le genetiche più antiche e le tipicità del territorio dai processi di globalizzazione. La loro è una risposta diretta a quel modello stilistico che si fece largo negli anni Novanta del Secolo scorso, che divenne una sorta di “copia” e “incolla” nella produzione vitivinicola in Italia. Il nostro è un Paese che ha una grandissima varietà regionale e delle sorprendenti biodiversità. Se vogliamo, il vignaiolo che produce vini naturali è un presidio di resistenza contadina alle dinamiche della grossa distribuzione, che prova a recuperare una filosofia plurimillenaria di produzione, che posa le radici sulla difesa e la conoscenza del proprio territorio, provando a farne riscoprire l’autenticità e le peculiarità».
La provincia di Avellino soffre cronicamente di disoccupazione ed è interessata da processi di emigrazione giovanile. Quanto è difficile realizzare un progetto come il tuo in un’area interna del Sud Italia?
«Penso che se si ha un progetto solido ed un minimo di autonomia economica, sia possibile per chiunque costruire un’esperienza come quella de “La Posta”. Noi siamo riusciti a creare un punto di aggregazione dove prima non c’era nulla. Abbiamo costruito consapevolezza nel mangiare e nel bere, ma creato anche uno spazio in cui si presentano libri, musica, si fanno teatro ed eventi. Purtroppo, con lo scoppio della pandemia, il nostro circolo è rimasto dapprima chiuso, poi, si è dovuto adeguare ai decreti ed alle ordinanze sempre più stringenti. Rispettiamo tutti i crismi igienico-sanitari vigenti, ma è inevitabile dire che in un locale come il nostro, se ci si costringe alla mera somministrazione, viene mortificata l’idea stessa di aggregazione. Il punto è che nelle aree interne mancano luoghi del genere e reali alternative alla disoccupazione».
Anche per questo che molti giovani abbandonano queste terre?
«Certo. Anche se, devo dire, che negli ultimi anni abbiamo vissuto una piccola ondata di rientro di giovani, interessati a riscoprire alcuni mestieri. Ma parliamo dell’iniziativa di singoli privati, che agiscono in un quadro in cui sono del tutto assenti degli interventi sistemici. L’emigrazione dalle aree interne è principalmente indirizzata verso le grandi città. Lì i giovani studiano, si specializzano, diventano precari. Il legame con la propria terra di provenienza viene mantenuto attraverso i rapporti familiari ed affettivi. Solo raramente troviamo persone che fanno rientro per ragioni economiche, perchè qui mancano le possibilità ed i presidi con cui confrontarsi. Questo rapporto iniquo fra centro e periferia, porta anche chi rimane a non stare bene, perché se il tuo migliore amico emigra per lavoro, perdi punti di riferimento».
State ancora facendo i conti con il terremoto del 1980?
«In un certo senso, sì. Questa è un’area che, oltre al divario fra Nord e Sud, amplificata dall’autonomia differenziata fra regioni, deve fronteggiare anche il rapporto iniquo con le grandi metropoli. Ogni anno, da questa provincia partono circa 2000 giovani, che si spostano alla ricerca di migliori prospettive. Ciò significa che con lo spopolamento, in rapporto, ogni anno sparisce un paese! Per invertire questo processo, occorrerebbero degli importanti investimenti pubblici su beni, servizi ed infrastrutture – tra cui le scuole e gli ospedali – che qui sono sempre più rari ed inaccessibili per gli abitanti. Queste lande stanno diventando una zona grigia, dove spesso in inverno intere comunità rimangono isolate e private di servizi essenziali. Anch’io ho vissuto fuori, poi sono rientrato, perché ho un legame viscerale con la mia terra e penso che meriti un futuro migliore».
Che impatto hanno i decreti e le ordinanze anti-movida sul tuo lavoro?
«Dal mio punto di vista, queste disposizioni hanno ben poco a che vedere con la salute pubblica. La loro unica utilità è di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi concreti, de-responsabilizzando i nostri governanti. Credo che più o meno tutti, ad esempio, ci stiamo domandando del perchè in otto mesi in Campania non siano aumentati i posti letto nei reparti di terapia intensiva ed i tamponi siano ancora pochissimi. La logica che si persegue è soltanto quella di dare la caccia al nuovo untore. Di fatto, questa situazione ha condotto tutti noi ad entrare in una sorta di lockdown psicologico, in cui però la politica non si assume l’onere di una nuova chiusura, perchè non si vogliono destinare risorse alle misure di welfare. La verità è un’altra: la sanità e la ricerca pubblica sono state ridotte per venticinque anni ad un colabrodo e ne stiamo facendo le spese sulla nostra pelle».
Il tuo locale è tra quei luoghi individuati come possibile focolaio di contagio. Pensi che il rischio sia concreto?
«Mi viene un po’ da sorridere, perché se “La Posta” è un luogo di trasmissione del virus, cosa sono allora i mezzi di trasporto pubblico iper-affollati ogni mattino? Noi qui non viviamo la dinamica dei grandi assembramenti, che ci sono in città. Se ci si impone il rispetto delle direttive e ci si dice che si può riaprire, posso concepire il fatto che le autorità vengano a controllarmi. Ma se poi, avviene il contrordine e ci si impone la chiusura, allora mi aspetto che lo Stato dia a tutte le piccole imprese ed i lavoratori costretti a rimanere a casa un sussidio. Altrimenti, è solo una presa per i fondelli! Mi domando come verranno gestiti e dove andranno a finire i soldi del cosiddetto Recovery Fund. La storia insegna che il capitalismo ciclicamente entra in crisi. Pochi si continuano ad arricchire, mentre molti fanno la fame e vengono sfruttati. Anche durante la pandemia, alcuni ne hanno approfittato per decuplicare i propri profitti, senza redistribuire nulla a chi ha difficoltà ad arrivare a fine mese».
Parole forti. Credi che la politica non si stia assumendo realmente la responsabilità di intervenire?
«Temo proprio di no. La ricerca morbosa di un capro espiatorio, la criminalizzazione della notte e la messa alla berlina di interi settori economici, lasciati allo sbaraglio, dimostrano che i nostri governanti obbediscono alle logiche del profitto, non della salute pubblica. Trovo vergognoso che si inviti i cittadini a trasformarsi in un popolo di delatori. Piuttosto che continuare ad alimentare il panico, avrei puntato ad un’informazione trasparente ed alla responsabilizzazione delle persone. Per fortuna, c’è chi ragiona con la propria testa. In questi otto mesi, ho avuto la dimostrazione plastica che la società civile, spesso, è più avanti delle istituzioni».
Non ti sembra un paradosso che mentre attività come la tua siano costrette a rispettare divieti sempre più stringenti, rimangano in funzione i distributori automatici di alcool h24, favorendo di fatto gli assembramenti?
«Non credo ci sia da stupirsi! Se restringi gli orari, di fatto aumenti la concentrazione di persone in poche ore. Fra l’altro, le persone si organizzano anche per andare al discount a comprare alcool a poco prezzo. Ma non credo che possiamo uscire da questa situazione continuando a puntare il dito su chi ha voglia di socialità. Anche per questo penso che i DPCM [Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri – NdR] a volte siano scritti da persone che non vivono nella realtà! La questione è che non si sta intervenendo per sanare la situazione, ma si sta mettendo sul lastrico un intero settore, in cui figurano attività come la ristorazione, il banqueting, i bar, i pub. Infine, va da se che con l’idea di impedire gli assembramenti, si sta sedando il malcontento, che non può esprimersi liberamente secondo le forme democratiche previste dalla Costituzione. Non a caso si vuole dare risalto alle manifestazioni dei negazionisti, che scorrazzano indisturbati senza che nessuno gli faccia dei controlli. Controlli che, invece, vengono effettuati sulle partite IVA e su chi lavora».
Cosa prevedi in futuro per la tua attività?
«Credo che se riusciremo a connettere pezzi di umanità, riorganizzando settori economici in crisi e persone in sofferenza, qualcosa potrà cambiare. Altrimenti, chi ha il potere continuerà a esercitarlo impunemente, favorendo solo chi fa gli interessi dei più forti. C’è una canzone di Pino Masi, che in una strofa recita: “Non ci resta che ribellarci e non accettare il gioco di questa loro libertà, che per noi vale ben poco…” [si tratta del brano: Qualle notte davanti alla Bussola, 1969 ndr. Ribellarci è l’unica possibilità che ci rimane per riprenderci il nostro futuro».
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