Dal 21 al 24 giugno, nella Reggia-Museo e nel Real Bosco di Capodimonte, c’è il primo Festival della musica popolare del Sud Italia. Ha la direzione artistica del famoso musicologo, attore e cantante napoletano Peppe Barra, la collaborazione di Antonio Acocella e di Maria Varriale del Centro di cultura popolare del Mediterraneo, il coordinamento di Aurora Giglio, presidente dell’associazione Musicapodimonte, e il sostegno della Regione Campania.
Un’iniziativa del direttore Sylvain Bellenger, che potrebbe dirsi inattuale nella sua cogente attualità. Perché, mentre si impone, con tutti i più importanti media, il multiculturalismo, di necessità caotico e superficiale, ecco che questa iniziativa propone di trovare nell’oggi qualcosa di profondo, una cultura più autentica.
E se ne ricercano le radici nella musica, nei canti, nei balli, nei riti popolari e in quelle celebrazioni religiose in cui permangono, frammiste alle più recenti, lontanissime origini. La cultura popolare ha una tradizione orale e quindi sarebbe destinata a scomparire, quando le ultime persone che la conoscono non ci saranno più.
«Questa che noi viviamo- dice il direttore Bellenger nel convegno di presentazione dell’avvenimento- è l’ultima generazione. Questo festival, che sarà celebrato ogni anno, è un rifacimento di un antico mondo prezioso, che, rivissuto, sarà diverso, si evolverà. E vivrà ».
A Capodimonte Bellenger ha creato, con MusiCapodimonte, la prima associazione di cultura popolare esistente in un museo. E annuncia che aprirà, nel museo, un’intera sezione dedicata stabilmente all’arte popolare. Bellenger, quindi, sembra aderire a una concezione più napoletana, vichiana, forse, del tempo e della storia. E sembra quasi rinnegare l’utopia illuminista della tabula rasa su cui costruire un mondo tutto nuovo, quella concezione del tempo che il marquis de Condorcet (1743/1794) immaginò come una semiretta, quindi senza passato. Una concezione che oggi, forse inconsapevolmente, viene largamente accettata, generando consensi a soluzioni che vi si ispirano, imposte dalla cosiddetta modernità, avanzante con i potentissimi mezzi della sua comunicazione.
Quello che a Capodimonte nasce con questo festival non è cosa da poco. E’ una sorta di controrivoluzione o di rivoluzione tradizionalista. Sua alleata in questa ribellione napoletana è Aurora Giglio che, nel convegno, racconta il suo incontro con Bellenger. Per anni, era andata in giro, come una madonna pellegrina, a chiedere un luogo dove impiantare un laboratorio in cui studiare e presentare la canzone tradizionale napoletana della posteggia, della quale è un’artista straordinaria. Aveva ricevuto rifiuti e indifferenza. Aveva chiesto anche a Bellenger un posticino dove impiantare un laboratorio di musica popolare. E questi non le ha dato soltanto un posticino ma uno spazio ampio e un’ampia possibilità di azione, in cui esprimere le sue capacità organizzative. Così Aurora ha tradotto, con la sua pronta intelligenza, le idee del direttore.
Chi ha osservato attentamente le attività del direttore Bellenger si accorge che lui segue una strategia culturale molto coerente e chiara. Dalla mostra su Picasso, rivisitato in chiave napoletana, alla creazione del progetto di studi sulle città-porto, alle manifestazioni dedicate alla ceramica di Capodimonte, alla Festa del Mandarino, coltivato nel Real Bosco e nel Napoletano, nella straordinaria trasformazione del Real Bosco borbonico, che esalta la natura sempre presente nella cultura napoletana sin dall’epoca magnogreca, alla sua convinta partecipazione alla mostra Pompei-Madre Materia Archeologica, espressione della continuità, seppur a balzelloni, quantistica, se così si può dire, della storia, dall’antichità “pompeiana” fino alla più sensibile contemporaneità .. e ancora e ancora. Avvalendosi, nella sua azione, della sua straordinaria conoscenza internazionale.
Appare, invece, più pessimista Peppe Barra, che, al convegno, con sincero calore, esprime le sue osservazioni: «La cultura popolare non c’è più, perché il mondo popolare non c’è più. E’ stato vivo fino agli anni 60/ 70. Poi c’è stata la contaminazione di gente estranea intervenuta nella coesa civile realtà popolare napoletana».
Un tempo, a Napoli, la cultura popolare non era staccata dalla cultura “alta”. A Napoli si viveva tutti insieme. Era anche un fatto urbanistico. Poi il popolo povero fu nascosto dietro i palazzi del Risanamento savoiardo, come al Rettifilo, e poi fu emarginato lontano dal centro abitato, a Scampia e a Secondigliano.
Peppe Barra ricorda le ricerche fatte con Roberto De Simone sulle antiche tradizioni popolari, anche nei paesi della Campania più periferici, dove la cosiddetta modernità non era riuscita ancora a soffocare le antiche tradizioni. Ricorda lo studio dei testi antichi e della famosa Gatta Cenerentola, una novella di Giambattista Basile (1566/1532), che, tradotta per il teatro, fu poi portata in giro per il mondo. Ricorda, con evidente commozione, sua madre Concetta, che gli ha insegnato l’amore per Napoli e la sua cultura antica. “Chi non ha passato non ha futuro” diceva, in lingua napoletana, Concetta.
E poi Peppe ammonisce Marcello Colasurdo, incline a esaltare la gioia nel suono della tammorra: «C’è anche della tragedia in questa musica. Con forti suoni della tammorra si procuravano gli aborti» (un genocidio ancora esistente negli ospedali, magari quelli con il nome di qualche santo, che l’ipocrita modernità accetta perché legali, mentre lamenta le morti di bambini africani).
Poi Colasurdo, Barra e tutti i convegnisti suonano insieme il putipù, la tammorra, lo scetavaiasse, il triccaballacche…e le nacchere napoletane, che, spiega Colasurdo, sono diverse l’una dall’altra, «l’una è masculo, l’altra femmina».
«Peppe Barra- ricorda il direttore- il 14 luglio, a Capodimonte, farà uno spettacolo tutto suo. E la data non ha niente a che fare con la presa della Bastiglia».
Non è del tutto vero che la cultura popolare sia completamente morta, come dice Barra. E che si trovi solo nei paesini più sperduti o nelle feste della Madonna dell’Arco e di Montevergine, ricordate da Colasurdo. Perché a volte qui a Napoli ascoltiamo delle frasi di popolani che riconosciamo eco di pensieri lontani. Perché riconosciamo il suono della musica popolare così efficace da entrare nel nostro corpo, risvegliandovi delle vibrazioni e delle sensazioni. E, mentre i suoni forti quasi suggeriscono istinti strani e movimenti di balli che già conoscevamo, le dolci melodie antiche sussurrano incantamenti. Forse perché, come diceva il poeta Tagore (1881/1941), noi comprendiamo quello che già sappiamo. E che il modernismo tende a farci dimenticare. Ma non Peppe Barra, che ci ricorda che la cultura più autentica è l’amore, un amore vivo, forte, carnale.
Uno dei convegnisti, Maria Varriale, interviene per dire della necessità di promuovere la lingua napoletana, espressione e fattrice della cultura cittadina. Da parte sua, Bellenger interviene di nuovo, affermando il diritto degli artisti di strada di potersi liberamente esprimere. E immagina di vedere, nel prossimo futuro, il Real Bosco con tanti artisti: musici, teatranti, scultori, pittori, magari, aggiungiamo, dei madonnari. I geni sono visionari. Ma a volte le loro idee si realizzano.
Per il programma
http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/festival-della-musica-popolare-del-sud-italia-tradizioni-suoni-danze/