Il Capuozzi l’ho mollato la sera in cui mi ha detto: “Ho deciso, lascio mia moglie e vengo a vivere con te!” e io mi sono immaginata tutta una vita con lui, a presidiare i suoi calzini sporchi e a trovarmelo davanti a colazione con il pigiama a righe che aveva sfoggiato nell’unico week end trascorso insieme, quando, prima di mettersi a letto, aveva svuotato le tasche dei pantaloni e aveva impilato ordinatamente le monete sul comodino, suddivise per taglio e per grandezza. Ma non si era lavato i denti.
“No grazie – gli avevo risposto educatamente non voglio che ti sacrifichi per me.”
E’ cos che è finito un grande amore, nato tra le pareti dell’ufficio, sbocciato davanti alla macchinetta del caffè, esploso nello stanzone polveroso dell’archivio e durato quasi dieci anni.
Io e Giuseppe Capuozzi, detto Pino, fiscalista e vice capoufficio, ci siamo baciati per la prima volta quindici anni fa contro lo scaffale delle piantine catastali, in un torrido pomeriggio di fine luglio. Erano mesi che Pino mi corteggiava, con quei suoi modi goffi, fatti di un passo avanti e tre indietro, come di chi vorrebbe ma teme di compromettersi. Mi lanciava languide occhiate davanti alla fotocopiatrice, mi metteva i cioccolatini sotto le lettere in arrivo, mi offriva estenuanti passaggi fino a casa, durante i quali mi sfiorava casualmente le ginocchia quando cambiava le marce, ma non si decideva mai. Ho saputo poi che aspettava che fossi io a fare il primo passo, al fine di salvaguardare la sua virtù di ragioniere felicemente sposato.
Gi , perch il Pino Capuozzi aveva il vizietto della scopata mordi e fuggi e prima di me si era gi fatta buona parte della componente femminile societaria, solo che con me gli è andata male, perch si è preso una di scuffia non prevista e gli si sono capovolte le scale dei valori. Roba che se io non scappavo in tempo, lasciava moglie, figli e pure il cane per appiccicarmisi addosso, corredato dai relativi sensi di colpa.
Tornando a quell’afoso pomeriggio di luglio, stavamo facendo gli straordinari ed io ero arrampicata su di uno sgabello e protesa verso l’alto per trovare una pratica. Il Capuozzi era entrato all’improvviso ed era stato fulminato dallo scorcio delle mie mutande. Era zompato sullo sgabello e mi aveva schiacciata contro lo scaffale biascicando: “Mi fai impazzire!” e si era dato da fare con le mani e con la bocca. Io, che fino a quel momento ero stata refrattaria, sa dio se stonata dal caldo o dalle sue braccia che mi avvolgevano in modo tutt’altro che sgradevole, ci ero subito stata e in pochi secondi eravamo aggrovigliati l’uno all’altra mugolando in un bagno di sudore. A guastare la festa era sopraggiunto l’usciere Esposito che, entrato per schiacciare un pisolino, ci aveva beccati sul fatto, ma aveva fatto signorilmente finta di niente. Ricordo come se fosse ieri la faccia paonazza del Capuozzi mentre si aggiustava con discrezione il cavallo dei pantaloni, ed io che mi riallacciavo la camicetta, come se fosse la cosa più normale del mondo avere una tetta di fuori sulla scaletta dell’archivio delle mappe catastali.
Cos è scoppiato il nostro grande amore, consumatosi tra sguardi furtivi scambiati all’orologio marcatempo e toccatine veloci dietro la scrivania, mentre fingevamo di esaminare le pratiche, col Capuozzi che mi accarezzava le cosce salendo con dita furtive sempre più in alto, mentre con sguardo e voce professionale diceva, a beneficio degli astanti: “Signora, sarei dell’idea di inserire la svalutazione patrimoniale nella voce perdite di bilancio”.
A dire la verit , per amare il rag. Pino Capuozzi mi è occorsa un bel po’ di fantasia, insieme a tanta buona volont , perch lui, di suo, è uno di mezza et , di mezza statura e di mezza tacca, con la testa a uovo e l’andatura dondolante di un pinguino, che spara banalit agghiaccianti con una voce da trombone stonato. Ma io, per anni, sono riuscita a rivestirlo col mantello del principe azzurro e a montare la sua Panda grigio topo come se fosse un destriero bianco.
A mia difesa devo dire che scopava da dio, anche se mi portava a consumare il tutto in alberghi a ore dell’estrema periferia, in cui mi faceva imboscare di corsa per il timore di essere riconosciuto. Ricordo, con la nostalgia che si può avere dell’orrido, i letti sfondati che scricchiolavano ad ogni movimento (e di movimenti ne facevamo tanti!) e le lampadine nude appese al soffitto, piene di moscerini bruciati che ne offuscavano la luce gi fioca. I bagni dei nostri nidi d’amore avevano lavandini e bidet microscopici, che alternavano getti gelidi a getti bollenti, a seconda dell’umore e della stagione. Le pareti, poi, erano di carta velina e i vicini di stanza ansimavano direttamente nelle nostre orecchie sulla variante: “Dai che sto venendo…. dai! dai….. aaaah! aaaaah!” e a me passava la voglia e mi veniva da ridere, ma il Capuozzi non ci badava e continuava imperterrito a ficcarmi la lingua nell’orecchio.
A parte le scopate, di carino mi scriveva poesie che poi mi infilava di soppiatto nella borsa. Erano poesie tristissime e orrende 6 « o è è á « s pt L libri n e d d d d pG 7 e : E è H l è NO » OJ e
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: , in cui bacio faceva rima con cacio, e nelle quali riversava tutta la sua sofferenza di ragioniere padre di famiglia marito esemplare, disperatamente innamorato e altrettanto disperatamente costretto ai sui doveri di ragioniere padre di famiglia marito esemplare.
“Non posso vivere n con te, n senza di te”, soleva dirmi con quel suo vocione triste, e mi arrivava in ufficio la mattina con le occhiaie di una notte insonne passata a macerarsi su quel nostro amore cos impossibile.
Una volta era arrivato perfino a confidarmi che, per colpa mia, non riusciva più a fare l’amore con la moglie:
“Capisci che tragedia! mi aveva detto un pomeriggio, mentre si fumava la sigaretta del “dopo” finir che lei si insospettisce” e in perfetta buona fede aveva cercato la mia comprensione, rivolgendomi quel suo sguardo liquido da bracco addolorato. Si era molto dispiaciuto che io mi fossi messa a ridere, immaginando l’aria colpevole con cui doveva aver guardato il suo coso che rifiutava di rizzarsi.
La mia storia col Capuozzi si è consumata tutta tra le pareti dell’ufficio e quelle di una stanza d’albergo, perch lui riteneva superfluo qualsiasi diversivo alle nostre scopate da maratoneti. Per cui niente passeggiatine romantiche al chiaro di luna, niente cenette intime a lume di candela, niente domeniche al mare e, soprattutto, niente locali pubblici. Tutte queste cose le faceva con la sua legittima ed io mi maceravo di rabbia nelle eterne domeniche monacali trascorse tra le pareti di casa ad aspettare che il telefono suonasse, per sentire la sua voce che mi sussurrava: “Mi manchi tanto, ti amo!” e poi riattaccava per non farsi scoprire da lei. Ed io, come una cretina, ero pure felice.
Gi , perch io il Capuozzi l’ho amato davvero, con tutto lo squallore di quell’amore aziendale, con le toccatine sotto le scrivanie e quel “Lei” sfoggiato davanti ai colleghi che non dovevano sospettare, l’ho amato fino al giorno in cui mi ha detto quella fatidica frase: “Lascio mia moglie e vengo a vivere con te” ed io sono rinsavita di botto, fulminata dalla prospettiva di un Capuozzi a tempo pieno.
Lui, di suo, non si è ancora rassegnato e continua ad aspettare e sperare e, ogni mattina, viene a salutarmi sulla porta dell’ufficio e mi guarda con quel suo faccione triste e innamorato. Io gli sorrido dolcemente e mi chiedo, senza trovare risposta, cosa diavolo ci ho trovato in lui per tanti anni.
L’AUTRICE
Silvana Perotti
Nata a Torino, dove ha fatto studi classici, da quasi trent’anni vive e lavora a Napoli.
Scrive da sempre, per insana passione, e ha collaborato con alcune tra le principali riviste femminili pubblicando racconti o strisce di commento ai fatti di cronaca. Ha altres pubblicato, con la Elle-Esse/Simone Editore diversi libri di formazione per istituti superiori su argomenti di attualit , problematiche sociali e politica.
I suoi racconti sono stati pubblicati dal quotidiano Cronache di Napoli, editorialmente legato a La Stampa, per cui scrive articoli nelle pagine della cultura.
Negli ultimi anni ha vinto il primo premio nazionale di numerosi concorsi letterari di rilevanza nazionale, nel 2002 è stata tra i cinque finalisti del prestigioso premio Loria.