Come si fabbrica un romanzo. Ce lo racconta Philippe Vilain in una chiacchierata a due metri di distanza, seduti al tavolino del celebre Caffè Gambrinus, di fronte al Palazzo Reale. Sorseggiando in tazzina l’inconfondibile miscela dello storico locale. Un appuntamento che dona colore a una giornata napoletana già soleggiata, con il soffio gioioso della ritrovata libertà di rivedersi e parlare, anche se separati dallo spazio antivirus.
Philippe, nato in Normandia (nel 1969, a Rouen), dopo aver vissuto per un ventennio circa a Parigi, da un paio di anni ha deciso d’installarsi nella metropoli che gli ha rapito i sentimenti dalla prima volta che l’ha vista, nel 1994. Ma una cosa è tornarci con frequenza, altra è viverci e farne parte. E da qui assapora l’attesa di un doppio evento letterario: l’uscita dei due suoi nuovi libri. In italiano, il 6 agosto, arriverà in libreria, attraverso l’editore romano Gremese, “Un mattino d’inverno”, lanciato lo scorso anno in francese (per Grasset) e il saggio Mille couleurs de Naples che le edizioni Stilus proporranno, dal 25 dello stesso mese, nella collana Belle Plume.
Il 22 settembre, all’Istituto francese di Napoli, lo scrittore incontrerà il pubblico per parlare di entrambi. Nel frattempo ce ne anticipa i contenuti.
Inizia da “Un mattino d’inverno” ispirato da una storia vera. «È cominciato tutto per caso durante un convegno in Francia».
Una signora, che ha accompagnato il marito professore, s’intrattiene con Philippe sul romanzo che lo scrittore ha appena pubblicato “La ragazza dalla macchina rossa”: è basato su una storia d’amore veramente vissuta dall’autore con una giovane donna che gli fa credere per mesi di essere malata a causa di un incidente.
Incredibile esperienza di una bugia che fa scattare la fiducia della sua interlocutrice. E così anche lei gli confida quanto ha vissuto. Un matrimonio felice con un sociologo americano, impegnato all’università come lei. Una figlia, un appartamento, una vita appagante, finché lei non lo accompagna un mattino d’inverno all’aeroporto parigino per una delle sue consuete trasferte ad Atlanta, indirizzate alle proprie ricerche sociologiche. E da allora non riceve più notizia.
«Ci ho ripensato per settimane. Ne sono rimasto ossessionato finché non l’ho ricontatta per approfondire e scriverne».
Uno scambio di mail, indagini, approfondimenti. E la scintilla del romanziere accende la narrazione, popolandola di realtà e fantasia. Cambiano i dettagli, resta tuttavia intatto il dolore di una persona ferita da una perdita mai superata.
Narra in prima persona, lei, diventando Julie, Philippe le affida la parola, i ricordi sono avvincenti. Sembra di vederlo: in questo 160 pagine ci sorride e sparisce, Dan Peeters.
Padre di Atlanta, madre californiana, Dan cresce da intellettuale, in una famiglia di operai e commercianti, forgiato, però, dalla passione materna per la lettura.
S’incammina tra studi sul razzismo e si addentra nel labirinto della complicità tra i fornitori di droga e i servizi segreti, focalizzando l’attività della Cia all’interno
del traffico di stupefacenti gestito dalla criminalità.
Dopo la sua scomparsa, Julie vola negli stati Uniti, spalleggiata dal suocero in una disperata esplorazione, in cerca di tracce. E spunta un indizio che la conduce a Houston…
Le ipotesi su questa esistenza cancellata all’improvviso, Philippe le lascia a lettrici e lettori che possono tramutarsi loro stessi in investigatori, scegliendo la supposizione più intrigante. Dan è un infiltrato della Cia all’Università che ha deciso di cambiare identità o ha voluto sottrarsi agli affetti precedenti, come quegli evaporati giapponesi che sfuggono al loro disagio decidendo di svanire? Chi leggerà, inseguirà le sue risposte.
Intanto, la letteratura pone l’ultima domanda a un giallo esistenziale in cui la donna, che ne è stata la suggeritrice, svelando la propria sofferenza, dapprima non si riconosce. Philippe le invia il libro, ma lei replica (dopo oltre un mese) manifestando, infine, (quasi) rigetto. Dopo ci ripensa e apprezza il lavoro romanzesco compiuto partendo da un sofferto enigma.
E poi c’è la bella Napoli. Quella città gaia, allegra, che ha abbracciato Philippe, appena l’ha visto : «La prima sensazione che ho provato è stata quella di uno “spaesamento familiare”. Mi ci sono sentito a casa, qui ho ritrovato le mie radici popolari di una vita trascorsa fuori, all’aperto».
Nel suo volume, offre la personalità, l’anima e l’ingegnosità dell’essere napoletano, del suo cercare una soluzione a tutto attraverso l’intelligenza. Dal suo punto di vista straniero, pur perfettamente integrato. Affascinato dalla cultura dell’arrangiarsi.
Cita due episodi per riassumere la capacità partenopea di adattamento: «A Spaccanapoli ho visto vendere una scatola con l’aria della città: tu non hai niente e lo vendi… J’adore… questa creatività. Che è anche quella che spinge un pensionato a leggere ogni giorno il giornale, prendendolo in prestito dall’amico giornalaio e restituendolo dopo averlo letto, senza una piega… Ecco l’inventività di Napoli».
Ha voluto renderle omaggio, Philippe. Contro quell’automatismo negativo che spinge certi italiani a disprezzarla, senza conoscerla. Una stigmatizzazione ingiusta da cancellare, mettendone in luce umanità e tolleranza. Con sguardo “oggettivo”. Schizzando una riflessione dai mille colori.
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