Da ieri il Petit Palais di Parigi propone, fino al 26 gennaio del nuovo anno, 120 opere dello scultore napoletano Vincenzo Gemito che i francesi hanno cominciato a conoscere nel 2007, grazie alla pubblicazione del “Dictionnaire amoureux de Naples” di Jean-Noël Schifano, edito da Plon. Lo scrittore e editore francosiciliano, cittadino onorario di Napoli, dedica all’artista una voce nelle sue (seicento) pagine appassionate. Ecco di seguito la versione italiana del brano tratto dalla traduzione pubblicata nel 2018 con il marchio editorale ilmondodisuk.
Gemito (Vincenzo)
1852-1929
Il 5 gennaio 1977 avevo appuntamento a Roma, al Caffè Greco, con Giorgio De Chirico. Abitava a due passi da lì, le sue finestre davano sulla scala monumentale di Trinità dei Monti. Di fronte agli ultimi scalini, allo sbocco di Piazza di Spagna, la famosa Barca del Bernini, che fa acqua da tutte le parti – uno dei capolavori, forse il più contemporaneo di Gian Lorenzo Bernini, un Napole-tano che ha dato alla città dei papi il suo volto più bello – e che non manco mai di ammirare quando mi capita di passare per Roma. Questa fontana, a forma di barca scolpita in travertino, che i Romani chiamano la Barcaccia, è stata forse l’opera d’arte più vista da Giorgio De Chirico fino alla sua morte, seppur distrattamente, con la coda dell’occhio, come si dice in Italia, se si escludono le sue opere… Il mio piacere, quella mattina, era triplo. E tre volte napoletano.
1) Appuntamento con un gigante dell’arte, fratello di un altro gigante dell’arte e della scrittura, tutti e due di padre siciliano, di nascita greca e di istruzione europea, Alberto De Chirico, anche detto Alberto Savinio («Mio fratello, mi dice De Chirico e niente più, Alberto Savinio, adottò questo pseudonimo soltanto perché non ci confondessero» – e viceversa…), lo stesso che, insoddisfatto delle enciclopedie, ne scrisse una a suo modo, come per gioco, dalla A alla Z, per piacere suo e nostro, Nuova Enciclopedia… in mezzo a una ventina di libri, tutti più belli e più intelligenti e più appaganti gli uni degli altri.
2) Doppio giro incantato della Barca del Bernini e delle sue giovani nocchiere illanguidite, piedi nudi alla prua sfiorando le tre api che ronzano sullo stemma della famiglia Borromini.
3) De Chirico, habitué del Caffè Greco dove prendeva il suo bel bicchiere di Punt e Mes a fine mattinata, aperitivo agrodolce un po’ sciropposo per i miei gusti, non poteva non vedere, un passo prima di varcare la soglia di quel vagone di prima classe dai sedili di velluto rosso, carico da due secoli di celebri viaggiatori venuti dal mondo intero, i cui visi e le cui opere sono rimaste contro le pareti, e vedeva per forza, esposta perennemente nella vetrina di destra al di sopra dei sacchetti e delle scatole di caffè, come sospesa su una nuvola di aroma spumoso nero d’ Arabia ed eccitante per le papille, un’altra opera d’arte di una grazia tutta ellenica, di un riso tutto napoletano: L’Acquaiolo (1881) di Vincenzo Gemito. Questo giovane ragazzo di Napoli dalla zazzera arruffata, nudo in equilibrio su una fontana, tiene sull’anca destra una grossa brocca rotonda piena di acqua sulfurea del Chiatamone, o Monte Echia, o Pizzofalcone, situato in piena Città delle origini, appollaiato dietro ai grandi alberghi che stanno di fronte al Castel dell’Ovo.
Il guaglione lascia riposare la brocca sulla sua anca che porta indietro e la trattiene circondandola col suo braccio e serrando un manico con la mano destra. Il resto del suo corpo si porta in avanti, gamba sinistra leggermente allargata sulla quale l’acquaiolo si appoggia, braccio sinistro teso in avanti, con la sua mano dalle lunghe dita ripiegate su una brocchetta offerta al passante… Il corpo intero ride con i suoi occhi e le sue labbra, e si offre con l’acqua del Chiatamone (o Chiatamore: Soffio dell’Amore): questo bronzo di cinquantacinque centimetri di altezza è talmente armonioso, il viso dello strillone d’acqua così bello che i clienti, uomini e donne, si fermano come davanti a un’immagine santa e sembrano mormorare, immobilizzati per un istante sulla stretta lingua del marciapiede, sospendendo la loro fame e la loro sete, e il loro desiderio di riposarsi sul velluto rosso dei sedili, con la bocca aperta, qualche segreto ringraziamento…
Un dettaglio, forse apotropaico: per evitare furti e raptus da adorazione, ogni notte L’Acquaiolo viene tolto dalla vetrina del Caffè Greco. La persona incaricata di questa missione s’impossessa del ragazzo, per sollevarlo e sottrarlo ai desideri notturni, afferrandolo sempre nello stesso punto: la coscia sinistra, che brilla di queste carezze biquotidiane che lo dorano in quel punto, mentre il corpo mantiene la sua patina color medaglia ambra scuro… Brilla anche il pene: in una carezza la mattina (per mettere la scultura) e una la sera (per toglierla) con la speranza segreta, oltre alla protezione contro il malocchio, che a notte calata o all’alba i furtivi colpi del pollice smuovano il piccolo sesso addormentato… Mentre si drizza il dito del piede destro come il segno di un precario e ludico equilibrio del corpo intero… E come così bene esprime Georges Bataille nell’edizione dei Documents di Bernard Noël: «L’alluce è la parte più umana del corpo umano…». Seguirà o precederà, di circa qualche mese, senza che vi sia necessariamente un legame, la scena della fellatio pedidia e statuaria de L’Age d’or dell’amico Luis Buñuel…
4) E qui, annunciando tre piaceri, faccio un conto alla Dumas… È Alberto Savinio che, non avendo tutti i documenti e tutte le opere di cui posso disporre oggi, ha scritto uno dei testi più giusti e più commoventi su Vincenzo Gemito. In Narrate, uomini, la vostra storia, «Seconda vita di Gemito». Dapprima mostra il suo genio, parlando di alcune sue opere rispetto all’arte e agli artisti del suo tempo, lui che «visse in un mondo di mummie e di pappagalli imbalsamati». Più che sulle sculture, Savinio, per piacere personale, si sofferma sui disegni: «I disegni di Gemito ci trasportano in un mondo superiore: l’unico accettabile». E, in «superiore», non c’è niente di aristocratico, ovviamente, ma il semplice dato di un genio che, in tutta la sua opera, al 99 per cento, ha rappresentato solo le persone della più semplice e bassa umanità: plebe e argilla si sposano a meraviglia nelle sue mani… E poi Savinio racconta la vita di Gemito dalla sua nascita di bambino abbandonato nella ruota dell’ospizio della Vergine dell’Annunziata, nel quartiere Pendino, nei pressi di Forcella, non lontano da piazza Mercato, proprio là dove Masaniello aveva vissuto, si era ribellato per dieci giorni perché aveva fame, come tutto il popolo di Napoli, ed era stato trucidato dai suoi stessi compagni di sommossa…
Gemito nasce un 16 luglio, giorno e notte in cui tutto il Mercato festeggia la Madonna del Carmine, dove si infiamma l’alto campanile che trafigge la notte del golfo come un dito di fuoco, dove pacchetti di polvere fanno tremare i timpani di migliaia di Napoletani e la pelle di lava della Città… Come una sfida al Vesuvio, laggiù, fumante sullo sfondo… Ben prima che leggessi Savinio e i suoi sprazzi d’intelligenza universale, il quale, del resto, non aveva alcun affetto per il sud Italia in generale e per Napoli in particolare – sola tara italiana in questo spirito ateniese: evitare Napoli come postaccio, tale è stato il comportamento degli Italiani postunitari fino a questo inizio di terzo millennio, e Savinio, in questo, era sfortunatamente molto italiano – ben prima, il 16 luglio era per me l’apoteosi mortale di Masaniello, la nascita di Gemito nell’emozione e l’abbandono della più grande festa della Madonna a Napoli, e al grido gemente dell’essere che nasce alla vita si sovrapponeva il primo grido di piacere della così giovane e bella T. (la Lucia della mia Education anatomique) che si apre al sesso, nel silenzio profondo della notte che segue il pandemonio del Mercato, nel cuore di questo quartiere dove la Storia ha sparso così tanto sangue… A questo grido che fece tremare le stelle, con le finestre aperte, sento ancora, come aizzata da questo piacere fulminante di carni esaltate, e gelosa, la lupa Ecate che risponde ululando a gola spalancata, giù, nella strada di lava… Andando all’Averno, sul cratere bianco e bollente della Solfatara, il suo grido di gioia scatenerà gli ululati sconvolti delle gole di Cerbero… Niente di più animalmente divino, a Napoli, dell’amore…
A Napoli, qualche volta, raramente, si usava dare il nome di Genito, cioè «generato», sottinteso «dallo Spirito Santo», come Gesù, ai figli della Madonna – che si chiamano piuttosto col nome più napoletano che esista: Esposito (Esposto: un atto segnato, non dalla vergogna, ma dalla fierezza: si espone ciò che è bello, si nasconde ciò che è brutto, fino a gettarlo nell’immondizia…). Molto napoletano, questo ritorno, questa metamorfosi della sfortuna di nascere e di essere subito abbandonato, in un miracolo che si espone e si applaude… Come la lava omicida che diventa il più fertile dei terreni e la pietra di costruzione più solida, Napoli ha sempre saputo rovesciare le sue sfortune storiche e sbarazzarsi delle sue croci con umorismo e riso, come per dire: inchiodati lassù, c’è una vista veramente bella… Perché a Napoli, la felicità, che è friabile come il tufo, non è essere o non essere?, domanda sempliciotta in fondo, e, in ogni caso, molto primitiva per i Partenopei; ma apparire o non apparire?: e questa do-manda non è così semplice come sembra, badate bene, per rispondere nella vita, in una vita intera, c’è bisogno di grande coraggio, grande savoir-faire e potente civiltà creatrice… Un Napoletano che non appare è un Napoletano morto…
E il neonato Genito, molto vivo, divenne, per un errore di trascrizione – nato il 16 luglio, fu abbandonato il 17, registrato alla parrocchia di riferimento il 18 –, Gemito (per un artista che avrebbe creato maneggiando l’argilla, la fusione del bronzo, e il fuoco fino alla follia, il lapsus calami di cui si sarebbe appropriato volentieri Roland Barthes, N/M, era un altro segno dello Spirito Santo…).
Curioso segno di elezione – e di attenzione amorevole e di strazio per colei che ha dovuto metterlo nella ruota, voltargli le spalle e andarsene sola nella notte –, il bimbo ha l’orecchio destro macchiato di una goccia di sangue e bucato da un anello d’oro… Cosa che gli varrà più tardi la famosa zuffa con altri ragazzi che gli affibbiavano nomi da femmina… E rientrava tutto ammaccato dai suoi genitori adottivi: una Napoletana che aveva perso suo figlio divenne la sua nutrice e una dei suoi modelli preferiti, Giuseppina Baratta, moglie dell’imbianchino, il Francese ex-monaco Joseph Bes, che presto morì per lasciare il suo posto al nuovo sposo di Giuseppina, fedele agli imbrattatori di muri, il barbuto Francesco Jadicicco, imbianchino anche lui, e altro modello trovato per il bambino prodigio che cominciò a modellare il suo orecchio bucato, prima di realizzare, in piena adolescenza, un autoritratto a grandezza quasi naturale, una terracotta dalla patina di bronzo ossidato verderame, che lo ritrae come giocatore di carte.
È già un capolavoro, dove s’inscriverà tutta la sua opera. È possibile ammirarla al museo di Capodimonte – mentre altre sculture di Gemito, tra le più belle, sono esposte al museo di San Martino, grotta di Alì Babà barocca dove l’occhio s’impossessa di molteplici secoli di creazione napoletana… Il giocatore di carte, è un guaglione, un ragazzo, seduto su pavimenti di lava, torso nudo e pantaloni piegati a metà polpaccio, gambe piegate, la sinistra coricata sul suolo, tallone alle natiche, la destra col ginocchio indirizzato alla guancia, testa piegata, occhi bassi, espressione tesa verso una scelta non facile, la mano destra che si gratta la zazzera, la mano sinistra ripiegata sulle carte il cui pollice e indice, modellando il destino come la cera rossa degli scultori, fanno appena scivolare i colori nascondendoli, a noi, gli altri giocatori o spettatori del gioco… È più bello, più fragile, più forte, più filosofico e più umano, pensa di più, insomma, più vicino e più lontano, tra Diogene e Pascal, de Il Pensatore troneggiante di Rodin… Gemito l’ha realizzato l’anno in cui avrebbe compiuto sedici anni…
Da sedici a trentacinque anni, esegue quasi tutte le sue opere, esaurisce, in ogni caso, il suo genio. Savinio: «Nella linea di Gemito c’è tanta spontaneità quanta nel tocco di Manet, inoltre la spontaneità di Gemito raggiunge l’origine delle cose e ci si ferma, mentre quella, così emozionante, di Manet non è che uno sguardo fuggitivo». Tutti i bambini che scolpisce o disegna sono bambini esposti, come lui, i suoi fratelli nella Madonna… Tutte le donne del popolo sono sua madre adottiva… Stesso occhio aperto sia all’esterno che sulla profondità delle viscere, stessa bocca semiaperta per dare e darsi fino allo sfinimento, stesse labbra carnose, stesso rigoglio delle carni, che si ritrova in Caravaggio nella nutrice, così napoletana anche lei, che dà il seno al padre Cimone, il vecchio prigioniero barbuto delle Opere di Misericordia Corporali… Tutte le ragazze hanno i tratti dello strillone dell’acqua… Quando scolpisce un filosofo dell’Antichità, è Francesco, il secondo marito di Giuseppina, che posa…
I suoi autoritratti permettono di seguirlo durante la sua vita, e quando è alla vigilia della sua morte, si fa fotografare tutto nudo, barba bianca che fluisce sul suo vecchio petto bianco, come un fiume prosciugato… Si mostra, si espone, come, da neonato, è stato esposto, come in un ultimo atto che gli avrebbe permesso di raggiungere colei che l’ha generato, colei che l’ha «genito», la sua vera genitrice di carne, di latte, di sangue e di respiro… E come non pensare a Masaniello che, sul pulpito, nella chiesa del Carmine, davanti al popolo e alla corte vicereale e al cardinale Filomarino, si espone, anche lui, nudo come un verme e chiede, qualche minuto prima di morire assassinato, di concedergli la possibilità di andare a vendere di nuovo il pesce?… Il corpo parla a Napoli, senza intralci, e la verità non è sempre nuda?… 1929: la foto per l’uno. 1647: la folla per l’altro…
Savinio: «Ricevette nel 1866 l’ordine di una statua di Carlo V. Si trattava di completare, sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli, la serie di quelle otto grandi statue che, allineate in atteggiamenti folli, sembrano voler discendere dalle loro nicchie per seminare confusione nella città, incendiare le navi del porto e riaprire le porte dell’Averno.
«Gemito eseguì il modello a Parigi, in occasione del suo secondo soggiorno in quella città, e lo portò in Italia avvolto di stracci come una mummia di bambino, con la tenerezza materna che usava nel trasporto delle sue opere, pressandole contro il petto e coprendole con un mantello perché non prendessero freddo».
Come «una mummia»? O piuttosto come un neonato deposto in una ruota?... Un anno più tardi, la realizzazione, in marmo, del suo plastico, va a vederla, da solo, dopo l’inaugurazione ufficiale che ha evitato. Il braccio col dito teso in un gesto imperioso non gli sembra fedele alla sua opera. Urla e si mette a lanciare pietre a Carlo V. Lo arrestano. Lo portano in un ospedale psichiatrico. Evade facendo una corda con le sue lenzuola… Aveva orrore del marmo, della sua immobilità e del suo pallore tombale… Il movimento! Il movimento!… E non sopportava di vedere il fragile piccolo gesso uscito dalle sue mani trasformato in quel mostro di marmo così pesante. Da allora, il dito puntato di Carlo V fa fatica a inserirsi nel resto della mano… La cicatrice non si chiude…
Tra il 1887 e il 1909, Gemito sparisce dalla circolazione, dallo stesso sole di Napoli, è dunque diventato pazzo e si rinchiude per più di vent’anni in un sottosuolo di via Tasso che la Calata San Francesco, dove ho abitato per dieci anni, taglia ad angolo retto. E ogni giorno passando vedevo l’ombra di Gemito dietro le sbarre, al livello del marciapiede, ricordato da una placca di marmo affumicata che parla di «sofferenza», non di «follia»… E nessuno si accorgeva che qui due follie si incrociavano: quella dello «scultore folle» (così è ancora chiamato ai giorni nostri a Napoli) e quella dello scrittore folle, Torquato Tasso (nato a Sorrento, rinchiuso a Roma)… Tutti e due che hanno reso la loro opera immortale, trasformando grazie a essa il nostro sguardo sul mondo, affinando, grazie a essa, la percezione di tutti i nostri sensi, facendo, grazie a essa, proliferare in noi istanti di suprema bellezza… Tutti e due trasformandosi allora all’interno di loro stessi, poiché non avevano più nulla, o quasi, da liberare (Gerusalemme…), da esporre all’esterno… Così dicono a Napoli di un pazzo: «È uscito pazzo» o «È partito con l’immaginazione»… Gemito, fuori di lui, fuori dai suoi sanguigni, dalla sua argilla, dal suo bronzo, demoltiplicato nella follia come ha demoltiplicato il suo animo e la sua vita nella sua opera…
«Le mie opere, scrive Gemito nel suo testamento, sono prese nel vivo così come sono esistite». Fu ricompensato a Parigi dove espose, con Meissonier come mentore. Niente a che vedere l’uno con l’altro, l’opera dei due artisti. Niente a che vedere Gemito il Greco con Meissonier il Pompiere (che nel frattempo Dalì metteva al centro della sua riflessione… e ne aveva diritto, se lo faceva alla Buñuel!…). Questo rapporto «filiale» di Gemito con Meissonier può spiegarsi in mille modi ma all’inizio gira attorno al timore reverenziale dei poveri che, per essere accettati, si inchinano davanti alle istituzioni. E Meissonier era un’istituzione… Non pazzo: Meissonier si faceva offrire le sculture da Gemito appena uscite dalla fonderia: ha posseduto così, per primo, L’Acquaiolo, il suo ritratto in piedi, Il pescatoriello, ecc. Gemito, felice, offriva volentieri al Maestro… Infine, partì con l’immaginazione e non tornò più a Parigi… Savinio: «L’amicizia che legò Messonier e Gemito fu grande, ma “compromettente” per quest’ultimo».
Gabriele D’Annunzio amava Napoli e vi soggiornò. È stato, per un breve periodo di tempo, redattore al giornale Il Mattino. Scrisse anche una canzone in napoletano e tra le più belle, ’A vucchella, nel 1892, su un tavolo del bar Gambrinus… Bisogna finirla, dai due lati delle Alpi, con le condanne morali e facili, arroganti e ignoranti, politiche più che estetiche, di D’Annunzio, questo precursore di una sorta di Malraux egotista… Una sola domanda: senza D’Annunzio, James Joyce che riconosce lui stesso i suoi debiti, sarebbe stato James Joyce?… Gli occhi bendati, dopo il suo incidente in aereo e la sua avventura sopra Fiume, 1916, Notturno: D’Annunzio ci ha donato questo ultimo ritratto di Gemito nel sottosuolo di via Tasso… «All’improvviso, nel campo ardente dell’occhio mi appariva la figura di Vincenzo Gemito… Lo vedo in una camera esigua come una cellula, agitarsi tra porta e finestra nel movimento continuo della belva in gabbia.
«Una grande testa capelluta e barbuta di profeta diventato pazzo al vento del deserto, mal contenuto da un corpo così esile e curvo sulle due gambe spezzate dalla fatica e sempre in piedi grazie a una resistenza indomita, così come doveva essere Michelangelo sulle impalcature della Cappella Sistina.
«Ha la mano destra nella tasca, mentre mulina con l’altra, e non la ritira mai dalla tasca, come se ne fosse impedito.
«Mi colpiscono ora la stessa compassione e la stessa angoscia che mi assalirono quando ho saputo come, da anni, dall’inizio della sua demenza, conservava nella sua mano nascosta un pezzo di cera rossa da modellare e che ripeteva senza tregua, con il pollice e l’indice, il movimento che fa lo scultore per ammollire e affinare…
«È diventato vecchio. La sua criniera e la sua barba sono bianche, trascurate, sconvolte dalla tempesta e dal destino come quelle, reali, del padre di Cordelia.
«La sua mano non è più nascosta: ha il frammento di cera rossa tra il pollice e l’indice. Scarnato, tutto nervi e ossa, assomiglia a una radice mal vista dell’anima, ripete il movimento senza fine. Ora la testa sparisce, il suo corpo sparisce, divorati dal fuoco che brucia sotto la mia pupilla come sotto il coperchio di un forno per la fusione.
«Resta la mano, la mano sola, come di un naufragio dell’incendio. E la cera non si fonde: è là, dal colore di un grumo di sangue, tra il pollice e l’indice che non si fermano mai».
La cera di Gemito come il sangue di San Gennaro. Il miracolo è grande, in arte come in religione…
Nel dizionario Robert 2, inutile cercare Gemito, Vincenzo. Ma Gemito, per un gioco di nascondino, vi è presente lo stesso: cercate Verdi, Giuseppe. Il busto del musicista celebre è firmato dall’artista sconosciuto di vent’anni, magro come un chiodo, al quale occorreva un po’ di denaro per evitare la coscrizione e consacrarsi alla sua arte fino alla follia.
Jean-Noël Schifano
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Da Dizionario appassionato di Napoli di Jean-Noël Schifano (pagg.175-188)
traduzione di Alvio Patierno e Francesca Fichera
in collaborazione con Adriana Cordua, Simona Colombo e Maria Oliva
edizioni ilmondodisuk