Ha riscosso grande attenzione nelle cronache nazionali il caso di Giuseppina Giuliano, originaria di Napoli, lavoratrice del personale ATA (il personale amministrativo tecnico e ausiliario della scuola). La sua vicenda è stata sottoposta a un morboso esame da parte dei media, che prima l’hanno glorificata, poi l’hanno contrassegnata come una fake news. Per capirne di più, ne parliamo con Anna D’Ascenzio, docente dell’Università Suor Orsola Benincasa e ricercatrice dell’URIT, Unità di Ricerche sulle Topografie Sociali.
Chi sei?
Sono una docente universitaria che si occupa di sociologia politica e metodologia della ricerca sociale. Da più di tre anni, studio le traiettorie professionali nel campo del lavoro, in particolare le traiettorie discendenti.
Poche settimane fa, i media si sono occupati del caso di Giuseppina Giuliano, una lavoratrice costretta al pendolarismo fra Nord e Sud. Che cosa significa questa storia?
In realtà riguarda più fenomeni. C’è sicuramente la questione del lavoro e le traiettorie discendenti. Nel caso di Giuseppina, parliamo di persone che, rispetto alla generazione precedente, avrebbero tutte le carte in regola per occupare un ruolo sociale e un habitus pubblico superiore. Giuseppina ha un diploma di scuola media superiore e fa un lavoro di cleaning. Il suo è un mestiere che ha a che fare con la purezza e il disgusto. Prima, nella nostra società, un posto del genere sarebbe stato riservato agli ultimi fra gli ultimi. In base ai dati di cui dispongo, spesso soggetti che hanno una caduta sociale, individuale o pubblica, occupano sempre di più ruoli che quarant’anni fa erano occupati dai paria, dai fuori casta, ossia da quelle persona che non avevano conseguito qualche risultato pubblico.
Ma perché c’è stato tanto accanimento su questa vicenda?
C’è una narrazione sulla fake news e sulla costruzione dell’opinione pubblica. Mi spiego meglio. Dal mio punto di vista, non c’è nessun racconto pubblico che abbia una verità assoluta. Tutte le verità sono parziali. Viene assolutizzata la categoria della fake news, che è antica quanto il mondo. Ai miei studenti dico sempre di leggersi: “L’opinione pubblica” di Walter Lippmann, perché in quel libro si spiega bene che -dai tempi delle aggresioni militari- si produce disinformazione o per volontà o per necessità. Tutti i racconti su Giuseppina mancano di elementi. Nelle scienze sociali non parliamo mai di menzogna, ma di discorso, perché lo studio sociologico ci porta a dire che una verità pubblica si compone sull’aggiustamento di elementi di narrazione.
Ma, quindi, è reale o no l’esperienza di Giuseppina?
Che Giuseppina abbia raccontato la sua verità, e che questa sia una storia subalterna, è una cosa abbastanza normale. Mi domando: è andata qualche volta a Milano? C’è andata col treno? Ha difficoltà a pagare gli affitti? Sta provando a prendere un posto a tempo indeterminato? La risposta è sì. Tutti questi elementi poi, si compongono in relazione al soggetto che li emette. La cosa inquietante, semmai, è ciò che è accaduto dopo, vale a dire il cercare millimetricamente la verità di Giuseppina. Qualcuno ha dichiarato di aver avuto addirittura i documenti privati e il suo mansionario scolastico. Chi glieli ha dati? Abbiamo consentito di fare – e mi riferisco anche a persone che dovrebbero tutelare il mondo del lavoro- degli sforamenti rispetto alla dimensione privata del lavoro, che sono molto gravi, più gravi rispetto al fatto che Giuseppina abbia detto di aver speso 400 euro per fare su e giù da Milano.
Allora, più che la questione individuale, perché non si cerca di spiegare la condizione sociale che c’è dietro una storia di subalternità? Avallando il controllo millimetrico della biografia professionale di Giuseppina, in virtù della ricerca della verità, si è consentito all’attore giornalistico e alla sua narrazione di parlare di fake news. Tuttavia, se si volesse realmente fare un’analisi e comprendere cosa sono le notizie tossiche, i giornalisti dovrebbero studiare i consorzi di ricerca sulle fake news. Nel gioco dello specchio delle verità, alcuni attori che adesso fanno gli acchiappalike, sono membri attivi di questi consorzi. Ma questo non è un argomento di discussione pubblica, né aiuta ad approfondire l’allarmante questione sociale che c’è dietro questa faccenda.
Il paparazzismo sulla vita dei lavoratori, dice di un mondo della comunicazione malato. Cosa sta accandendo nel mondo della comunicazione?
Vorrei prima chiarire un concetto fondamentale. Insieme a Fabrizio Greco e Stefania Ferrara abbiamo curato due numeri sullo stato di salute del lavoro formale in Italia, che è quel lavoro che dovrebbe essere correlato a delle garanzie di tipo istituzionale e, quindi, giuridico. L’elemento che emerge, è che il lavoro formale è sempre più aggredito e performato da elementi di informalità. Io stessa lavoro in un settore dominato dall’informale, che è l’ambito accademico. C’è tutto un pezzo di formazione che vive attraverso il lavoro volontario. Parliamo di un luogo di lavoro che contemporanemante dà occupazione e produce retorica sul lavoro, assumendo sfumature di scientificità. La stessa cosa avviene anche in altri luoghi di lavoro.
Cosa vuol dire?
Ci troviamo in dimensioni di lavoro pubbliche, che campano spesso di volontariato, che poi raccontano in termini performativi il lavoro. Questo produce una dimensione di conflitto che non viene narrata, perchè chi lavora da subalterno non ha qualcuno che ne rappresenti le criticità o i conflitti.
Perché?
Per una serie di ragioni tra cui il fatto che, in Italia, non c’è un partito di sinistra degno di questo nome. I sindacati, a loro volta, sono sempre più fragili e indeboliti da dispositivi giuridici, dalla composizione di classe, dalla perdita di terreno della rappresentazione attaverso le rimesse dei lavoratori. Ovviamente, tutto questo incide sulla formazione del discorso pubblico. Ma non è vero che non esiste la dimensione del lavoro. Ad esempio, proprio il personale ATA, nel pieno dell’approvazione della legge finanziaria, ha portato avanti un’importante battaglia per l’allargamento dell’organico scolastico. Sui giornali di settore non se n’è parlato, né se n’è parlato nel dibattito pubblico. Figurarsi poi il silenzio dei politici di sinistra. Nessuno ha sostenuto questa battaglia. Eppure, il personale ATA è uno dei luoghi in cui si accede a un lavoro formale con un minimo di garanzia ed è uno dei settori più sindacalizzati del mondo della scuola.
Da trent’anni, il nostro Paese è sottoposto alle ricette di austerità e neoliberismo. Accennavi a una sinistra evanescente ed incapace di rappresentare le conflittualità fra capitale e lavoro. Ce ne puoi parlare meglio?
La contrapposizione fra capitale e lavoro è tutt’altro che superata ed è molto più visibile di ciò che si ritiene. I media non ne vogliono parlare, scegliendo di abbandonarsi a una narrazione contraddittoria e bipolare. Generalmente, si parla di scontro fra due soggetti, ma in realtà bisognerebbe riportare all’attenzione della riflessione pubblica la complessità. Le posizioni sono plurime, i flussi di potere sono articolati. La sinistra, al di là della funzione politica, va anche intesa come agenzia di formazione alternativa che dovrebbe recuperare un ruolo.
Che significa?
Faccio un esempio. L’ambito accademico, rispetto al passato, è divenuto molto più appiattito sull’idea del potere e del dominio per gli studenti. La rappresentazione del sapere universitario è diventato predominante e incontestabile. Già rispetto alla mia generazione, c’è una notevole differenza. Da giovani abbiamo spesso contraddetto i professori o criticato delle forme di sapere proponendo un altro punto di vista. Oggi, mi rendo conto che – in qualità di docente- la mia verità è diventata assoluta. Al contrario di quanto ritengono diversi colleghi, paradossalmente, il sollecito da parte degli studenti mi porta a lavorare meglio. Il dibattito con loro mi porta ad approfondire, a imparare, a sviluppare ricerca, ad ascoltare la novità del dibattito o la questione sociale. La critica non è una perdita di prestigio per il professore, ma uno stimolo. Quando gli studenti non fanno più politica, perché si viene sollecitati in tal senso, è un impoverimento pubblico complessivo. Banalmente, negli ultimi decenni, c’è stato raccontato che i partiti politici, che sono agenzie sociali, siano il male. Chi fa sollecitazioni in tal senso, non sta arricchendo il dibattito, lo sta impoverendo. Mi riferisco soprattutto a quelle forze che si stanno accreditando, per una serie di ragioni sociali, come forze di sinistra, ma che in sé non lo sono in origine.
Le fake news sono legate al mondo del lavoro?
Certo. Mi viene in mente la narrazione della più grande sconfitta dell’immaginario del mondo del lavoro, attribuita a ciò che accadde davanti ai cancelli della FIAT di Torino negli anni’80. Mi riferisco alla famosa marcia dei quarantamila. A proposito della costruzione di fake news, trasposte senza alcun esame critico sui libri di storia, è passata al secolo una narrazione di quarantamila persone quando, tutt’al più, ce ne saranno state quindicimila. La cui gran parte era prezzolata e rappresentativa della parte padronale dell’azienda. Nonostante ciò, quell’episodio è stato emblematico e ancora oggi grava sulle nostre teste.
Cosa si può fare?
Bisognerebbe promuovere agenzie alternative al discorso dominante, ristimolare la partecipazione pubblica dei lavoratori, tornare a parlare dei conflitti sul lavoro. Come accennavo, insieme a dei colleghi, abbiamo scritto due numeri di una rivista di sociologia, Cartografie sociali, per contrastare una narrazione tossica sul lavoro nel Covid. Durante il Covid si è parlato esclusivamente dello smartworking. Eppure, moltissime categorie hanno continuato a lavorare in presenza senza protezione o tutela alcuna. Il personale ATA, che svolge anche una funzione di custodia, è andato normalmente al lavoro. Così anche i rider, i lavoratori del trasporto pubblico, gli operai nelle fabbriche. Abbiamo registrato dati di rivolte in queste categorie, che non sono state rappresentate nel dibattito pubblico, ma sono letteralmente svanite. Qualcuno ha dovuto produrre, ma non lo si vuole dire. Ecco perché dico che bisogna fare esercizio di complessità.
In questi mesi, Inghilterra e Francia sono state attraversate da ondate di scioperi. I lavoratori e le lavoratrici hanno resistito nelle loro rivendicazioni nonostante un linciaggio mediatico. Si può costruire una nuova forma di anticapitalismo e protagonismo dal basso?
La dobbiamo immaginare. Se non facciamo quello che Charles Wright Mills ha definito “immaginazione sociologica” in senso attivo, andremo incontro a disastri successivi. Tranne pochi, nessuno avrebbe immaginato che ci sarebbe stata una guerra nel cuore d’Europa, che rischia di divenire un conflitto mondiale. Nessuno avrebbe immaginato che il costo delle energie, delle fonti energetiche, sarebbe aumentato a tal punto da gettare nella miseria interi settori della popolazione. La situazione è molto grave. Insieme a delle associazioni, stiamo avviando una ricerca sulle mense dei poveri, di formazione laica o cattolica. Stanno emergendo dati mostruosi. La gente non sa se accendere il gas sotto la pentola o metterci qualcosa dentro. Queste erano condizioni inammaginabili vent’anni fa, quando si sosteneva che il capitalismo avesse vinto e avrebbe portato a nuove sorti e progressive.
E poi, cos’è accaduto?
Le rivendicazioni anticapitalistiche di movimenti come quello dei no global partivano dall’assunto che si desiderasse qualcosa in più della generazione dei nostri genitori. Si volevano più garanzie, stili di consumo più etici, giustizia sociale. Se si tira un bilancio rispetto alle richieste dell’epoca, in realtà, quella e le generazioni successive hanno avuto molto meno. La flessibilità, o meglio la precarietà, non ha riguardato solo il contratto di lavoro, ma ogni aspetto della vita, pubblica o privata che fosse. Nella sua semplicità, ricostruisce perfettamente il quadro di questa solitudine. Ai subalterni viene concesso di raccontarsi, forse. Se c’è un discorso pubblico sulla tua condizione, si prenderanno però la briga di andare sul tuo luogo di lavoro, di vedere il tuo mansionario, di certificare ogni dichiarazione. Ma non faranno altrettanto con persone come l’ex presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane – Ndr), che è il massimo governo dell’ambito accademico, che ha costruito la sua carriera politica a partire dalla formazione di laureati e che ora fa le foto con alcuni di loro, che fanno lavori di cleaning per sopravvivere. Nessuno ha chiesto ragione di questo processo di dismissing tra il capitale culturale, economico e la professione. Non c’è stata questa accortezza nella costruzione della verità. Chissà perché. Tornando al caso di Giuseppina, loro credono che lei sia una sprovveduta, solo perché fa un mestiere più umile, ma se riuscirà a smontare questo messaggio, forse si riscriverà una pagina di sapere operaio da cui trarre nuovi spunti.
LINK:
https://www.unisob.na.it/ateneo/c006.htm
IL FATTO
Giuseppina Giuliano è una operatrice scolastica di 29 anni. Ha raccontato al quotidiano Il Giorno di prendere il treno ogni giorno da Napoli per lavorare a Milano e rientrare nella propria città a causa degli alti costi della vita nel capoluogo lombardo