Hippie è il titolo della mostra in questi giorni (20/27 novembre) al Frame ars artes, la napoletana galleria d’arte di Paola Pozzi, al corso Vittorio Emanuele, che di recente si è spostata in un più ampio spazio, al numero civico 525, e si avvia a diventare centro culturale polivalente, pronto ad accogliere i vari bollori di una città in confuso movimento.
Nuove tendenze più o meno interessanti, giovani più o meno meritevoli da sostenere, e reclamanti esigenze da considerare. Ed ecco appunto che ora Frame porta alla ribalta questa mostra (foto) atta a esaudire una pressante esigenza contemporanea, affermando l’attualità dell’hippy, il “vecchio” movimento che, nato negli USA negli anni Sessanta del secolo scorso, si diffuse rapidamente in tutto il mondo giovanile. Si ricordano ancora i suoi slogans: Fate l’amore, non fate la guerra, Mettete fiori nei vostri cannoni.
Una sorta di controcultura contestataria, che amava soprattutto la musica, fatta di ritmi nuovi e nuove sonorità e di raduni musicali, a cui accorrevano giovani da tutto il mondo, famoso quello, nel ’69, a Woodstock, che raccolse 500.000 hippy “figli dei fiori”. Anche Marco Cecioni, l’artista autore della mostra Hippie, a quei tempi aveva una band musicale con la quale, applaudito, girava in tutto il mondo.
Poi aveva abbandonato la musica, non del tutto però, è stato il suo mondo per anni e registra ancora qualche disco, e si era trasferito a Stoccolma. Qui si è dato alla pittura e alla ceramica, ottenendo successo soprattutto nei paesi nordici. Giorni fa lo incontro mentre vado da Anna, una gentile signora che ha una boutique di vestiti vintage e non solo: un insieme di robe colorate accostate con strabiliante buongusto.
Entra anche lui nel negozio, a cercare un foulard tipo bandana, disegni floreali con una fantasia di colori vivi, ma – ci tiene a sottolineare- di tono maschile. « Sai, vengo da Ibiza, – mi dice- da un paio d’anni mi ci sono trasferito, e lì ci si veste liberamente, con accostamenti improbabili, vivaci e divertenti. Lì la vita è molto cara e ci sono molti ricchi ma anche loro si vestono così e amano la natura e la semplicità. Mi ci trovo bene».
E Stoccolma?- domando. «La città è bene organizzata- risponde- ma la gente di quelle parti è triste, lì il cielo è sempre grigio, e sogna la luce e il calore del Mediterraneo». Quando ci lasciamo confessa: «Devo andare a cucinare le lenticchie a casa della mia ospite, oggi tocca a me».
Semplicità di costumi e dieta mediterranea. Ecco il suo modo di essere hippy: niente esaltazioni, né accentuazione di morbidezze decadenti, né confusione di ruoli: la natura vuole il rispetto delle sue diversità. Penso che Cecioni sia, come hippy, una sorta di vero bohémien, di artista che fa coincidere l’arte con la vita.
Poi a me tocca stare a casa per un’infreddatura, influenza o bronchite che sia, mentre peggiora il brutto tempo e avanza una generale depressione. Cielo pesante di grigio, di tuoni, di pioggia. Manco al vernissage della mostra. E mi dispiace. Ma poi rivedo Cecioni quando, fissando con lui un appuntamento, vado ad ammirare la sua bella mostra sgargiante di colori mediterranei.
Vi sono una serie di grandi piatti concavi di ceramica azzurra che sembra ti portino sott’acqua a vedere strani pesci e creature ancestrali, e sto lì a contemplarli. Ammiro grandi stampe colorate di magnifici fiori che affermano la chiara bellezza della natura, e grandi ceramiche a forma di figure femminili, donne o sirene, e di slanciate figure maschili. E tra uomo e donna i dolci atti di amore e i baci, per cui i profili s’incastrano l’un l’altro.
Mentre vi si creano atmosfere dai colori ammalianti e si avvertono suggestioni indù e meditazioni yogi, che si intrecciano ai miti greci. I greci vivevano in modo naturale ed esaltavano, anzi divinizzavano, la natura. Così il mito greco si innesta con forza nella cultura naturalista che si esprime nelle opere di Cecioni.
Lui, che è vissuto nella perfezione nordica dell’industrial design non se ne è lasciato sedurre, ma, come gli antichi greci ornavano di figure umane, amorini e divinità, i loro oggetti di uso quotidiano, così le sue umanissime figure possono ornare e rendere preziosi i moderni oggetti industriali.
Cecioni è laureato all’Accademia di Belle Arti ma, coerente all’assunto di una energica controcultura, si esprime in forme volutamente ingenue, in cui però ritroviamo l’armonia dei ritmi classici, pure nelle larghe campiture di colore accordate tra loro e nella semplificazione del disegno.
Con lui parlo a lungo. Anche del movimento hippy, che, criticando l’ipocrisia dellla società borghese, inneggiò alla libertà totale. E Marco mi dice del suo amore per l’avventura e i viaggi, quelli giovanili in autostop ispirati a Jack Kerouack. Ma allora vi si diffondeva, nel frattempo, anche l’uso della droga e degli allucinogeni, che venivano usati – dicevano- per allargare lo stato di coscienza.
«Si partiva da Ibiza e si andava a Marrakesh, per poi finire a Katmandù, luogo di monasteri buddisti e anche di grande spaccio a buon mercato. Ma io.- ricorda Marco- agli adescamenti della droga non ho mai ceduto».
Ed è vero, lo testimoniano anche i suoi amici. «Che cosa ti ha salvato?» gli domando. «L’amore. Il grande affetto con cui sono stato allevato. Ho perduto mio padre a quattro anni ma ho avuto tre mamme: mia madre, mia zia e mia nonna, una donna straordinaria, che univa alla capacità di sognare un maturo senso della realtà».
Anche Marco, che da artista trasporta il mondo reale in una fiaba, dimostra nei discorsi la sua acuta attenzione al mondo reale. Ed è pienamente consapevole del terribile momento storico che stiamo vivendo. In cui non solo la natura è in crisi ma anche lo stesso uomo sembra perdere se stesso, la sua essenza e il suo discernimento. Sembra subire un processo di schiavizzazione ai diktat ideologici e consumistici che lo rendono attore e complice inconsapevole della distruzione della stessa natura.
Cosicché Marco Cecioni mi fa pensare a Diogene, quello che andava in giro con una lanterna accesa anche in pieno giorno e ai perché rispondeva: «Sto cercando l’uomo». Ma soprattutto mi sembra gli somigli, perché Diogene è anche quello che non amava gli onori ma amava godersi la vita nella sua semplicità e rispondeva ad Alessandro Magno che gli chiedeva che cosa desiderasse: «Che tu ti sposti, mi fai ombra e mi togli il sole».
Che cosa, quindi, ci insegna questa mostra? L’esigenza di risvegliare in noi l’hippy più sano e sincero: il naturalismo, la semplicità, il senso religioso, cristiano oppure orientale che sia, la tolleranza, l’amicizia e il sorriso. E un’arte sorridente è quella di Marco Cecioni. Che ci trasmette la semplicità della bellezza e l’amore di quell’arte armoniosa che fa bene all’anima.
©Riproduzione riservata
Per saperne di più
http://framearsartes.it/