Venerdì 16 dicembre, alle 17, a Palazzo Serra di Cassano, sede dell’istituto italiano per gli studi filosofici, in via Monte di Dio 14, Napoli, si presenta il catalogo edito dall’istituto culturale del Mezzogiorno, collana Liberi in poesia, “La vita di mille colori” di Tina Vaira, curato da Antonio Filippetti. Con l’artista intervengono, Carlo Di Lieto, Antonio Filippetti, Donatella Gallone, Maria Rosaria Riccio. Per gentile concessione dell’editore, ne pubblichiamo uno stralcio.
L’esperienza di un artista si configura sempre in termini esemplari, in una dimensione in qualche misura unica e irripetibile. E di conseguenza qualsiasi analisi critica deve farsi non solo prudente ma più che altro attenta a cogliere i tratti di una peculiarità spesso nascosta in ambiti appartati, laddove solo uno scandaglio certosino può riuscire a portare alla luce.
In determinati casi può servire una rigorosa analisi di eventi personali che aiutano a capire l’evolversi di una storia artistica e il suo faticoso divenire. La biografia di un’artista come Tina Vaira può disporsi su questo registro, ma più ancora permette di capire il dipanarsi di un percorso che ha cavalcato circa mezzo secolo di storia individuale e collettiva attraverso la quale è possibile farsi ora la ragione di un’avventura creativa complessa ed affascinante. Ma non si tratta evidentemente solo di questo. Tina Vaira rappresenta a buon titolo l’esempio di quella universalizzazione del linguaggio artistico che è anche una delle chiavi per capire l’avventura stessa dell’arte contemporanea. Gli interessi dell’artista hanno coinvolto per così dire le diverse stagioni dell’evoluzione intellettuale dell’ultimo secolo ritrovando riscontri e cittadinanza nelle diverse espressioni che caratterizzano la “modernità”, laddove il linguaggio creativo è sempre circolare, spaziando dall’arte figurativa alla poesia e dalla letteratura e alla musica.
Per Tina Vaira la passione artistica arriva ben presto, risale cioè agli anni dell’adolescenza vissuti in una città d’arte per eccellenza come Firenze. Ed è lei stessa ad ammetterlo: “Forse sono stata fortunata a esser cresciuta a Firenze, in una città rinascimentale dove non si possono chiudere gli occhi davanti a tanta bellezza”.
Ed è lì che avviene la prima formazione nello splendore degli Uffizi: “là dentro io mi incantavo , avevo forse dodici/tredici anni , m’incantavo soprattutto davanti alle Madonne di Raffaello, Murillo, ecc.ecc. Gli Uffizi mi avevano stregata , tanto che a volte, a casa sistemavo per terra dei grandi fogli bianchi e dopo aver convinto mia sorella più grande a posare per me, la ritraevo con un velo in testa da sembrare una Madonna”. Vennero poi gli anni del liceo artistico e la passione per il nudo e poi all’Accademia di pittura con le nature morte. Ma ben presto arrivò la nomina d’insegnante in provincia di Bari e qui comincia anche una nuova vita, non solo con la pittura.
L’incarico per l’insegnamento è a Gravina di Puglia, dove Tina all’inizio dell’avventura e per circa un anno condivide anche un appartamento con due colleghe. Ma poi il bisogno di libertà prende il sopravvento e soprattutto si materializza anche il sogno del trasferimento in una grande città come Napoli dove vivere e consolidare un’esperienza civile e professionale.
Intanto l’apprendistato artistico-culturale fornisce già i suoi frutti, l’avventura creativa è già iniziata e sarà destinata a non fermarsi più. Si mettono a frutto in questo periodo le suggestioni fiorentine, ma non solo, giacché l’artista rivive e rielabora le esperienze che hanno segnato gli anni delle avanguardie del primo Novecento, a conferma della capacità di Tina di introiettare con discrezione nella propria sensibilità il meglio di esperienze destinate a fare la storia. Lo ribadisce Mariano Apa in questi termini precisi: “Tina Vaira vive il ricordo dei fermenti delle postavanguardie italiane, dal Futurismo alla Metafisica, al Novecento, allo Strapaese, alla italianità particolarmente declinata su una fiorentinità che catapultava il genius loci in ambito comunque e necessariamente europeo. Questi presupposti della cultura ambientale hanno forgiato in Vaira una attitudine al colore cine plastica riformulazione della immagine che evocava il lascito ottocentesco tra Firenze e Napoli in una sorta di unità risorgimentale postmoderno che rende forte l’iniziazione artistica della giovane artista di Pozzuoli”.
E’ da segnalare come l’artista riesca a rivivere nell’opera le suggestioni offerte dai paesaggi e dagli ambienti che in qualche modo segnano la sua esperienza umana ed intellettuale. Ma ogni volta l’accostamento è lirico e del tutto soggettivo. Dice bene Ugo Piscopo allorquando scrive che “il paesaggio di Tina Vaira è uno stato d’animo, privo di corrispondenze memoriali e di riscontri esperienziali: è un luogo non-luogo, verso cui essa si sente chiamata e portata come per mano da una guida misteriosa, che non può essere guardata in faccia, osservata, scoperta. Si tratta di un personaggio che deve essere accolto e seguito senza riserve e senza aggressive pretese di scrutini anagrafici, secondo gli archetipi comportamentali descritti nella favola di Amore e Psiche”.
Sono evidentemente momenti in cui l’osservazione della natura e la conseguente resa pittorica assorbono la ricerca e l’anima dell’artista capace sempre di restituire nella composizione un qualcosa di unico ed originale, mai banale , che conferma l’acuta osservazione di Lea Vergine allorquando sentenzia: “la natura morta della Vaira, pacata e silente come un linguaggio in sordina, sorta dal pudore di non levare alta la voce, attesta una ricerca che va nel profondo della materia e la restituisce riscaldata di una umanità umile e toccante”.
Tutto questo rappresenta il preludio di una maturazione che avverrà in tutta la sua complessa articolazione a partire dagli anni settanta. In realtà sono proprio gli anni settanta a costituire un crocevia ricco di esiti destinati per così dire a reiterarsi anche in anni successivi. E’ in questo periodo, infatti, che accadono eventi fondamentali per l’esperienza umana e artistica di Tina. Non ultimo ovviamente l’incontro con Carlo Felice Colucci, il medico scrittore che diverrà suo marito e col quale costituirà un sodalizio umano e civile di grande momento e sostanza. Sono anche gli anni in cui rivivono, con le esperienze del passato, i nuovi stimoli che ritroveremo nella “celebrazione” di luoghi cari mai sopiti nella memoria, come la costiera sorrentina e amalfitana.
Ma non è soltanto questo, giacché l’esperienza dell’artista si arricchisce grazie a nuovi incontri, come quello con Emilio Notte, il maestro approdato a Napoli, come docente all’Accademia di Belle Arti. Ed è proprio frequentando lo studio di Emilio Notte che Tina metabolizza da par suo le esperienze acquisite e vissute dal vecchio maestro aprendosi sulle grandi emozioni di momenti unici come quelli del futurismo e della grande tradizione avanguardistica europea.
E con felice intuizione è Gino Grassi a confermare: “Tina Vaira ha fatto tesoro della lezione di Notte. Una volta rafforzato il proprio bagaglio tecnico ed evoluto il proprio gusto, la pittrice s’è sentita matura per dispiegare tutto il ventaglio delle sue non comuni intuizioni lirico-tonali. Come se dipingesse a occhi chiusi. Tina Vaira ha rielaborato sulla tela microcosmi e macrocosmi del suo mondo memoriale, riuscendo ad armonizzare le immagini più diverse, quasi un cocktail, dando loro un volto unico”.
E poi lo stesso critico fornisce una radiografia più profonda del mondo intenzionale dell’artista: “ il mirabile mosaico di immagini che ogni quadro della Vaira riesce ad esprimere, è un qualcosa che mette a nudo il nostro contraddittorio mondo interiore di uomini moderni, fatto di stati d’animo più diversi, di inquietudini e di speranze vane, di piccoli momenti di gioia e ripensamenti. Il quadro preciso di una maniera di sentire, la radiografia delle turbe e dei movimenti del subconscio che dominano ogni nostro comportamento”.