Con il lancio de Il Commissario Ricciardi, Napoli torna a fare da sfondo alle megaproduzioni Rai, in linea con la tendenza in corso che vede la letteratura locale prestarsi bene al discorso prolungato del piccolo schermo.
Questo grazie anche a un universo di valori capace di esprimere pennellate, tutte diversissime, della ricchezza culturale del luogo.
Così, dopo le ricostruzioni spettacolari per rendere una serie tv come l’Amica Geniale all’altezza della fama dei libri, si prosegue sul filone del lavoro di Maurizio De Giovanni, che vede cominciare il 2021 con due fiction di ampio respiro ispirate ai suoi scritti.
Se Mina Settembre mette in scena un continuo e vivido contrasto tra tonalità sbiadite e decadenza dei luoghi, per rendere giustizia al tira e molla interiore di una Napoli Bene rivolta alle situazioni problematiche della città, con il Commissario Ricciardi si ritorna alle già sperimentate cromature noir che hanno condotto De Giovanni nell’olimpo della letteratura poliziesca, in un gioco narrativo obbligato a confrontarsi con l’eredità di Andrea Camilleri.
Le prime sei puntate ispirate ad altrettanti romanzi di De Giovanni, vanno in onda in prima serata su Rai 1, a partire da stasera, lunedì 25 gennaio. Sotto la regia di Alessandro D’Alatri, che aveva già lavorato ai Bastardi di Pizzofalcone, un velo di pesantezza cala sull’espressione del versatile Lino Guanciale, catapultato nella Napoli fascista con indosso i panni del commissario Luigi Alfredo Ricciardi.
Napoli obbligatoriamente grigia: città differente da quella attuale, soggiogata al paranoico controllo della dittatura ma con nelle sue corde una fluidità culturale inevitabile; legata al potere centrale ma sgusciante sotto molti aspetti.
La figura di poliziotto flessibile è tutta disegnata su questo perenne equilibrio tra ottusa rigidità di regime e molleggiata realtà quotidiana. Un personaggio tutto talento e condanna.
Oltre ad avere intuito eccezionale per dare la caccia ai cattivi, il protagonista vive anche l’unicità di un dono metafisico: quello di sentire gli ultimi pensieri delle vittime di crimini violenti.
Ricciardi è un po’ bad boy (la somiglianza espressiva con un certo Scamarcio è impressionante) un po’ perseguitato, e giocoforza va incrociare le traiettorie di due diversi tipi investigativi, paralleli per epoca e realtà: il commissario assorbito dal lavoro in stile Montalbano e l’investigatore maledetto con larghe passeggiate nel paranormale, in stile Dylan Dog.
Lo sforzo di Rai Fiction-Clemart è notevole, in un gioco al rialzo dovuto al rapido stravolgimento di scenario che vede nei colossi Amazon e Netflix i nuovi competitor.
E se la fiction in questione poco esplora argomenti narrativi che vadano a decostruire certi stereotipi radicati nella cultura e nella letteratura nostrana (l’immagine del commissario casa e lavoro ma che si apre volentieri ai due tipi di amore, quello passionale per la femme fatale e quello per la ragazza della porta accanto, in un gioco facilone dei valori che forse ancora è necessario per il pubblico italiano), le ricostruzioni e i costumi denotano lo sforzo anche economico della produzione per avvicinarsi al mercato internazionale.
Un restyling obbligato, che segna una nota di merito per il mondo delle professionalità napoletane, con il lavoro ai costumi di Alessandra Torella, ad oggi una delle figure di spicco del settore.
Sua è un’esperienza che di riflesso fa propria la lezione di Danilo Donati, artista a tutto tondo due volte vincitore del premio Oscar, da cui Torella ha appreso la grande libertà di interpretazione e la velocità di esecuzione di un lavoro che non conosce sosta. Perché, come ci dice lei stessa raggiunta al telefono, l’abito fa il monaco. Anche tra le fiction.
Il commissario Ricciardi ha richiesto la composizione di un affresco con oltre 200 ruoli, per dare voce ai primi e agli ultimi della peculiare società napoletana. Un lavoro centellinato che trova preziosi alleati nei custodi delle testimonianze dirette, come l’archivio Carbone.
Così se i documenti fotografici ci dicono che la moda femminile dell’epoca ricalcava la linea tracciata da Parigi, con le riproduzioni fedeli dei cartamodelli venduti dalle case di moda, gli abiti maschili ci riportano alle origini della rinomata manifattura napoletana, forte di quelle unicità espresse dalle eccellenze di stile, come quella di Rubinacci.
Ma non solo. La penna di de Giovanni ci dona una ricca schiera di personaggi, con la necessità di ricostruire aspetti sociali tra i più disparati. Un universo di persone comunissime, uno spaccato vivido della popolazione di vichi, quartieri, bassi.
Esempio su tutti è un personaggio verso cui l’intera cultura napoletana ha un forte debito: il femminiello di quartiere che nella fiction è reso in Bambinella, interpretato da Adriano Falivene. Qui, il tentativo è stato quello di trasmettere l’estrema tenerezza e fragilità di un mondo femminile ricostruito d’occasione, dal fondo della povertà più dura. Questo, lontano dalla macchietta sfavillante a cui un secolo di interpretazioni ci ha abituati.
Nel complesso vestire l’intera fiction ha significato uno sforzo di équipe fatto dell’acquisto di pezzi unici e il confezionamento ad hoc di ogni abito, manutenzione e cura straordinarie, per un reparto messo a dura prova dalla crisi pandemica.
Tanto evidente da passare inosservato, il lavoro di guardaroba è una realtà fatta di orari improbabili e grande densità umana. Questo, nel 2020, si è tradotto in difficoltà tecniche ed emotive, dall’evitare gli assembramenti propri del mestiere ai trattamenti extra per rendere sicuro il materiale scenico.
Anche per questo, il lancio della serie rappresenta una bella vittoria, per questo 2021. L’anno della grande fiction Rai, quindi, si apre nel segno della letteratura napoletana, con la narrazione rinfrescata di un periodo tra i più peculiari della storia nazionale. Il tutto sublimato da una veste unica e innovativa.
©Riproduzione riservata
In pagina, foto dalla fiction che ben mettono in rilievo la paziente ricerca storica nella realizzazione dei costumi