Questa volta il monito della UE è quanto mai pertinente, urgente e necessario. La commissione di Bruxelles chiede all’Italia di imporre il pagamento dell’Ici alla Chiesa, per gli anni dal 2006 al 2011, per le attività commerciali svolte “dentro” le mura ecclesiali. Un vero e proprio tesoretto da riversare “veramente” ai poveri e agli indigenti.
Il sotterfugio risiede nel fatto che gli edifici predisposti al culto usati per il dichiarato fine della commercializzazione dell’armamentario simbolico di fede cattolica, svolto da enti non commerciali, fossero esentati dal pagamento dell’imposta comunale sugli immobili. Un aiuto di Stato bello e buono, a tutto vantaggio delle casse ecclesiastiche di ogni ordine e grado, dallo Stato del Vaticano (foto) e fino all’ultima parrocchia del paesino di campagna.
Questo modo di intendere la fede sacrifica la veridicità di quegli indirizzi evangelici fatti di sobrietà, lontani dalla cupidigia e dall’attaccamento alla ricchezza, indicata dalla stessa chiesa antica “radice di tutti i mali”.
Se si tratta di uno scambio corrispettivo, tra un oggetto e il denaro, ci troviamo nella classica definizione del commercio contemporaneo, sottoposto a precise regole, autorizzazioni e pagamento dei relativi tributi comunali. Perché fare la differenza tra i commercianti e gli ordini religiosi che hanno parimenti un fine dichiaratamente commerciale?
Il Governo si faccia immediatamente interprete di questa richiesta proveniente dall’Europa, recuperi questa vera e propria ingiustizia e faccia cessare questo favoritismo. E si potrebbe fare ancora di più: vincolare questa entrata statale (ingente e poderosa in termini economici) a favore di chi è più indietro, verso chi vive di stenti, nei confronti di coloro a cui è negata una vita dignitosa.
Uno Stato all’altezza del nostro tempo dovrebbe adoperarsi per una equa distribuzione della ricchezza. Una Chiesa credibile non può pensare di fare cassa.
La proibizione del commercio ai religiosi ha radici antiche, sin dai primi tempi della chiesa fu avanzato il conflitto tra l’esercizio del commercio e quello del ministero sacerdotale. Insomma, il lucro, nella concezione medievale, aveva bisogno di un motivo che lo giustificasse. Oggi quale motivo valido giustifica la commercializzazione operata dai preti, al pari di tutti gli altri esercizi in tal senso, praticata dentro le mura della chiesa? Ad avviso di chi scrive, nessuno!
Laddove esistono un venditore e un compratore, in qualsiasi parte del territorio avvenga la transazione, la stessa va tassata. Questo è un principio universale riconosciuto dall’ordinamento italiano, a cui nessuno può sottrarsi. Nemmeno e tantomeno la Chiesa.
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