Dal fotogiornalista Giovanni Ruggiero riceviamo e pubblichiamo il racconto “Falliero & Giselda. Il Melodramma del Baccalà”
Tutte le volte che si alza il sipario del San Carlo, a inaugurare la nuova stagione lirica, il pensiero corre ai coniugi Monterone che non se ne persero una prima.
Falliero era di Altofonte: un omone che raggiungeva quasi i due metri, però era basso dalla voce profonda. Lei, Giselda, la sua consorte, era un mezzosoprano minuto di Campobasso. Falliero e Giselda si conobbero al Conservatorio, e fu subito amore a prima vista. Lei si invaghì del suo potente do di petto; lui soltanto del petto.
«Qual guardo il cavaliere!», confidò lei quella stessa sera alle amiche, e spiegò, per quell’amore che fa tutti delirar, in un modo secco che non ammette repliche: «È il mio Nume, io l’adoro!»
Falliero parlò di lei negli stessi termini agli amici che incontrò più tardi in pizzeria. E quando questi gli chiesero, con una punta d’invidia e gran curiosità, come fosse la donzella, Falliero si limitò a dire commosso: «Bella, siccome un angelo!» Ripose poi sul tavolo la forchetta e il coltello e non toccò neppure la Margherita che subito si raffreddò.
Il giorno che si trovarono da soli, faccia a faccia, lui ebbe il coraggio di confessarle quell’amore che non poteva più restar segreto. Prima balbettò, poi si fece audace: «Ehm, ehm! Bimba dagli occhi pieni di malìa, ora sei tutta mia!» Prendendole la mano, le cantò tutto il programma del terzo corso, dall’inizio: «Che gelida manina, se la lasci riscaldar, cercar che giova…?»
Lei l’interruppe con un sospiro. Aveva il cuore in gola. Avrebbe voluto fermarlo, ma gli occhi dardeggianti di lui la trafissero. Giselda si schermì, debole e sommessa: «Arresta… Quali sguardi!»
Anche Falliero si sciolse perdendosi nella placidità degli occhi azzurri di lei e le chiese quasi implorante: «Per pietà quelle ciglia abbassate, galoppando sen va la ragione!» Falliero ben sapeva di essere un bel giovine e che «a lui cedèa la femminil virtù», quindi non si fermò:
«Bella figlia dell’amore, schiavo son dei vezzi tuoi – le confessò –, con un detto, un detto solo, puoi le mie pene, le mie pene consolar.»
Ma a lei non venne in mente alcun detto. Superò l’imbarazzo dando sfogo alla sua felicità:
«Alfredo, Alfredo, di questo core!», disse con slancio.
Falliero sulle prime restò interdetto: «Forse – pensò – mi confonde con qualcun altro». Lei, ora che la breccia s’era spalancata, si sciolse completamente:
«Arrigo! Ah! Parli a un core!»
«E dagli! – pensò tra sé Falliero – Prima Alfredo… Poi Arrigo… Ma quanti ne conosce!? Non vorrei che pur costei folleggiasse di gioia in gioia…»
Da quella mattina, quando i loro gorgheggi allegri e gioiosi dalle finestre spalancate del Conservatorio si diffondevano per l’aria, nella strada e sui tetti, arrivando fino a Port’Alba, la loro vita prese a scorrere come sulle righe di un pentagramma.
Terminati gli studi, si giurarono eterno amore e promisero di non lasciarsi mai, neppure sulle scene. Ma gli impresari – sapete quant’è strana questa gente! – ora volevano scritturare soltanto lui, ora soltanto lei, sicché Falliero e Giselda si videro rifiutare da tutti i teatri lirici.
Grande, sulle prime, fu lo sconforto: «Andrò, ramingo e solo. Cercherò lontana terra, dove gemere sconosciuto», si lamentava Falliero.
Giselda, che gli aveva prestato il solenne giuramento, in quei momenti di sconforto invece lo soccorreva: «Semmai, andrem raminghi e soli», puntualizzava decisa a non lasciarlo andare per il mondo, solo e ramingo, per l’appunto.
Andarono invece a vivere all’Infrascata dove Napoli, inerpicandosi, sale verso la collina del Vomero: «Là ci darem la mano, là mi dirai di sì.», disse lui in tono così rassicurante che presto la convinse. Trovarono casa in un palazzo in cui abitavano cantanti lirici in pensione che s’erano ormai ritirati dalle scene e professori d’orchestra, e qui tra le quattro mura domestiche, come fosse stato il loro teatro, andaron a ristorar le pene del loro innocente amore.
Gli impresari, presto si dimenticarono di Falliero e di Giselda, ma il loro amore restò uguale e immutato, e così anche la passione. Vissero come in un melodramma, mai paghi l’un dell’altra. E non si peritavano di celare i loro slanci, tanto che spesso qualcuno di quei condomini più arcigni bussava alla porta richiamandoli: «Signora abbassi le sue effusioni almeno di un semitono!»
Le proteste erano continue. «Mi par d’essere con la testa in un’orrida fucina dove cresce e mai non resta delle incudini sonore l’importuno strepitar…», scrisse un violoncellista che abitava al terzo piano in una vibrata lettera all’amministratore, precisando che il baccano s’udiva assordante perfino nella controra.
«Qui ci sono bambini!», protestava un’arpista famosa ai tempi suoi. Dal cortile delineato da alte palme e arbusti ordinati giungeva infatti il coro gioioso di furfantelli indemoniati: «Parpignol! Parpignol! Voglio la tromba, il cavallin, il tamburo, tamburel. Voglio il cannon, voglio il frustin … dei soldati il drappel!»
Poi ci fu la crisi per il baccalà che Giselda amava e Falliero detestava con tutto l’animo. Glielo aveva detto tante volte: «No, soffrirlo non poss’io!»
Lei ne decantava invece il profumo: «Che soave zeffiretto!», diceva mentre con un cucchiaio di legno rigirava i pezzi di baccalà nel loro mare di pomodoro con i capperi e le olive.
Falliero sarcastico ribatteva in un battibecco ormai puntuale tutti i venerdì: «Ben lo conosco, l’odor molesto.» L’amore si incrinò. E Faliero andò a dormire nel salotto.
Fiero, aggiustando il plaid sul divano, le annunciò una sera: «Dormirò sol nel manto mio regal.»
Un giorno, giorno d’orrore e per tanto tempo temuto, una spina del baccalà si conficcò in gola:
«Incauta! Che festi?»: Fallierocominciò a cantargliele, ma in un senso tutt’altro che lusinghiero.
«Alma infìda, ingrato core!», aggiunse e, con un fil di voce, rincarò la dose: «Anima mia, ti maledico!»
«Giusto ciel! In tal periglio!»: solo allora Giselda s’avvide dell’error fatal compiuto.
Falliero dal pallore era passato col suo volto al viola: «La fatal pietra sovra di me è chiusa!», ebbe il tempo di dire prima di accasciarsi al suolo. E in rantolo aggiunse: «E muoio disperato!»
Giselda chiamò il dottor Dulcamara che abitava sullo stesso pianerottolo. Il medico entrò poco dopo in casa mostrando un’ampollina. Raggiante annunciò: «È questo l’adantalgico!» Giselda lo guardò perplessa e dubbiosa, ma il dottore che si dilettava con l’oboe, la rassicurò: «Ei move i paralitici, spedisce gli apopletici, gli asmatici, gli asfitici, gl’isterici, i diabetici. Guarisce timpanitidi e scrofole e rachitidi, e fino il mal di fegato, che in moda diventò!»
Giselda sospirò fiduciosa e mosse gli occhi al cielo, mentre il dottore somministrava il benefico rimedio.
Zitti zitti, piano piano, accorsero i vicini. «Freddo e immobile, come una statua, fiato non restagli da respirar…», cominciò a dire un anziano tenore quasi sotto voce quando s’accorse di Falliero riverso sul tappeto. Poi un soprano isterico d’agilità gridò dalla finestra: «Hanno ammazzato compare Turiddu!» lacerando così il silenzio e informando tutto il vicinato.
La cura, invece, sortì effetto. Cessaron gli spasmi e Falliero si riprese.
«Egli è salvo! Oh gioia immensa!», gridò Giselda e l’abbracciò teneramente.
Lo baciò sulla fronte ancora imperlata di sudore: «Oh! dolci baci, oh languide carezze.»
I presenti applaudirono, e fu il loro primo vero applauso a scena aperta in tutta la loro vita. Ne nacque un gran trambusto: Brindiamo! …Sì, brindiamo! …Prendi i bicchieri! …Quali bicchieri? …Ma come quali bicchieri? …I lieti calici, perbacco!
«Godiamo, ché fugaci del riso son l’ore; dai calici ai baci ne guidi il piacer!», invitò Falliero ancora sul tappeto, alzando il calice.
Quell’anno fu l’ultima volta che li videro nel loggione del San Carlo. Davano Bohéme. Lui le aveva tenuto la mano fin dal primo atto. Sul finir dell’opera gliela strinse più forte quando Mimi, nella gelida soffitta, dice a Rodolfo abbracciandolo: «Ho tante cose che ti voglio dire o una sola, ma grande come il mare, come il mare profonda e infinita. Sei il mio amore e tutta la mia vita!»
Giselda cantò sulle note di Mimì con un fil di voce muovendo appena le labbra, e Falliero fece lo stesso, unendosi al canto di Rodolfo: «Ah! Mimì, mia bella Mimì!»
«Son bella ancora?» chiese Giselda.
«Bella come l’aurora.», la rassicurò Falliero.Lei gli sorrise appena: «Hai sbagliato il raffronto. Volevi dir: bella come un tramonto!»
Uscirono tenendosi per mano e si avviarono verso casa risalendo via Toledo, più su a Piazza Dante avrebbero preso una carrozzina. Falliero per scacciare tristi pensieri cantò a gran voce facendo girare i pochi passanti infreddoliti che rientravano nelle loro case: «Un dì felice, eterea, mi balenaste innante e da quel dì, tremante, vissi di ignoto amor…»
Pure Giselda ricordava vivido quel giorno. Poggiò la testa sulla sua spalla e, furtiva, le spuntò una lacrima che nascose a Falliero. S’udivano adesso soltanto le loro voci sussurrate. Lucevano le stelle e su Napoli tacea le notte placida.
©Riproduzione riservata
L’AUTORE
Giovanni Ruggiero, giornalista professionista, appassionato di fotografia da adolescemte, si è servito sempre delle immagini anche per corredare reportage giornalistici da inviato speciale di “Avvenire”. In precedenza, ha lavorato per altri quotidiani, tra cui “Roma” e “Il Tempo”.
Laureato in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, e in Lettere all’università La Sapienza di Roma, dopo aver viaggiato come fotoreporter per 25 anni, si è dedicato alla sua passione giovanile mai interrotta, protagonista di mostre personali e collettive.
In foto, il palco del San Carlo
.