Non ho mai avuto la forza di urlare. Per dire che io ero come loro. Una bimba che divorava sogni, tutti i giorni, in ogni ora. Come tutti gli altri scolari. I miei compagni mi tenevano in disparte. Nessuno voleva sedersi nel banco accanto a me. Quando arrivavo la mattina, mormoravano qualcosa tra loro che faceva il giro dell’aula. Passaparola. E cominciavano a darsi gomitate nemmeno tanto nascoste per me erano pugnalate. Tornavo a casa piangendo. “Mamma, perché mi guardano e ridono… Mamma, mi incollano gli occhi addosso come se fossi diversa… Cosa ho che non va?”.
Mia madre abbassava lo sguardo, voltava le spalle e si asciugava con il polsino della camicia qualche lacrima troppo dispettosa per essere ringoiata, convinta che non me ne accorgessi.
Ricordo il mio primo compleanno a scuola. Compivo sette anni, un po’ più degli altri. Avevo distribuito i bigliettini una settimana prima per invitarli alla mia festa. Mamma e papà mi avevano promesso che avrebbero festeggiato come e dove desideravo. E io volevo tanti amici, ma non a casa mia… Non perché la mia casa non fosse bella… Ma per quelli del quartiere… Un quartiere pieno di gente, di vicoli e di dialetto. E io volevo parlare bene, come quelli della televisione. Il posto dove vivevo era così differente da quello elegante, bello, panoramico dove si trovava l’istituto privato che cominciai a frequentare dalla prima elementare.
Indossavo un vestito bellissimo. Bianco, di seta. Con un fiocco uguale tra i capelli trattenuti in una coda. Mi batteva il cuore forte, ero emozionata…. In quel locale di Posillipo, affittato per l’occasione. Le cinque… I bambini della mia classe non si presentarono… C’erano solo i cuginetti… Avevo comprato tanti bei regalini per gli invitati… Non mi restò che contemplarli nella solitudine della mia cameretta… E spensi le candeline con i miei genitori, gli zii e gli altri bambini della famiglia… Così non invitai più nessuno della classe… Preferii evitare di essere umiliata ancora. Mi sfuggiva, però, il vero motivo di quelle offese. Mi fu chiaro solamente il giorno della prima comunione.
Stavamo entrando nella piccola chiesa della scuola, tutti in fila, con le stesse candide tuniche. “Quella è la figlia di un camorrista… I miei hanno detto alla maestra che mai si sarebbero seduti durante la cerimonia accanto a un capoclan e ai suoi parenti…”. Non rammento nemmeno più chi bisbigliasse queste parole…. Ricordo solo che mi sentii bruciare il cuore. E pensai con sollievo che finalmente era finita. Ancora un mese, poi l’esame di quinta. E sarei sfuggita a quella raffica d’insulti quotidiani.
Tentai di buttare all’aria lo studio. Ma mamma m’implorò di continuare “Solo studiando sarai libera”. Lo feci per lei che aveva imparato l’italiano prendendo lezioni private, per aiutarmi a non esprimermi solo in napoletano. Mi rifiutai, però, d’iscrivermi in un’altra scuola privata.
Andai alle medie, a pochi passi dal palazzo dove abitavo. Lì ero rispettata e mi sentivo in pace con me stessa… Con le mie amiche, la sera, ci riempivamo la faccia di trucco, infilavamo le scarpe con i tacchi a spillo, pantaloni firmati, sotto camicette sgargianti e andavamo in moto in quelli che noi chiamavamo i quartieri alti. In discoteca ci osservavano dall’altezza del loro profilo verso il basso della nostra appartenenza. Ma ce ne infischiavamo…
Finché una sera non accade quello ch’era da prevedere. “Tu vedi queste cafoncelle che si permettono di mettere piede anche qui”. Lui era bellissimo, beveva un whisky seduto su un divano con la fidanzata e usava le parole come proiettili… Lo aveva sentito anche Mery, una delle mie amiche, che afferrò una bottiglia dal bancone del bar e gliela scaraventò contro… Scappammo tutte e quattro; due tizi enormi ci bloccarono e ci portarono in questura.
Quella notte sono finita in cella e ci sono rimasta per due anni. L’accusa, spaccio di droga. Non ho mai saputo come fossero riusciti a mettermi dentro con quella calunnia. Quando sono uscita, ho trovato mia madre davanti al portone del carcere. “Dobbiamo andarcene. Tuo padre sta collaborando con la giustizia…. Vedrai che ricominceremo una nuova vita…”.
Povera mamma. Credeva davvero che saremmo state protette. Eccoci qui, adesso . Nella sala di questo obitorio… Che freddo… Ma chi dovrebbe venire a riconoscerci… Chi? Eravamo rimaste sole, io e lei…. Non potevamo uscire dal nostro minuscolo appartamento… Nemmeno ci rendevamo conto dove ci avessero portate… Stavamo dormendo… Ho sentito una pressione sulla bocca e una fitta nel braccio…
Ora ho voglia di un lungo sonno. Sento qualcuno entrare in questa sala gelida… Sono in tre e indossano camici bianchi. Uno di loro finge pietà: “Le hanno trovate con la siringa nelle vene… Poverine… Overdose… Madre e figlia… “. Se anche potessi, non spiegherei quanto è accaduto. Sarebbe inutile. Perché sono nata figlia di camorra.
9 ottobre 2008
In alto, uno scatto di Vincenzo Amato