Da Giovanni Ruggiero riceviamo e volentieri pubblichiamo. Un raggio di fantasia per augurare buone feste ai nostri lettori nell’uragano causato dal Covid.
I pastori non parlano. Ma una volta Luigino parlò, e le altre statuine del Presepe si voltarono stupite verso di lui. Lo rimproverarono con sguardi severi perché esiste un patto tra i pastori, quello di non farsi sentire dagli altri, dagli uomini che non vivono nel Presepe. Luigino mi chiamò per nome.
In realtà, se potessimo udire le loro voci, saremmo sorpresi. Niente di quella pace e di quell’apparente silenzio che il Presepe lascia immaginare. Con i pastori così fermi, immobili, fissi in un incanto senza tempo e senza suoni, del Presepe udiamo soltanto il mormorio del ruscelletto creato ad arte, che scorre povero d’acqua in mezzo a un prato, o il cigolio della pala di un mulino a vento azionato dal motorino elettrico che ronza. Altroché! Sentiremmo, se i pastori volessero farsi sentire, la voce di tutti quei venditori che affollano lo spiazzo davanti alla grotta dove ogni anno si rinnovano il mistero e la magia del Natale.
Il grido del pescivendolo, ad esempio, che portandosi le mani alla bocca a farne un imbuto decanta la freschezza del pescato: «Fattille co’ limone ‘o pesce!» E poi, per essere più convincente: «Teng’’argiente int’’a spasella!» O del venditore di angurie – ed il cielo soltanto sa come possa stare sul Presepe – che assicura: «So’ cchine ‘e fuoco sti mellune!» A loro s’aggiunge una donna che offre le uova e ne decanta la freschezza: «Tengo ll’ova ‘e sott’’a gallina!».
E il bailamme s’accresce con le voci che vengono dalla cantina dove alcuni avvinazzati giocano a carte e s’adirano quando il compagno non segue la giocata. Senti con le nocche battere sul tavolo ed un continuo annunciare: «Bussa! Liscio e bussa!» Qualche Mannaggia accà! E poi qualche Mannaggia allà! C’è perfino, sul Presepe, in una casa accanto alla grotta, chi gioca a tombola. Senti le risate e gli sberleffi interrotti dal solenne annunciare: «Sittantadoje, ‘a Maraviglia!» E una donna che risponde: «Fatte a mme!»
Allontanandosi dalla grotta dove la salvezza prenderà le sembianze di un bambino e poi di un uomo, le voci scemano, si fanno sommesse e senti soltanto il belare di poche pecorelle che brucano fili d’erba mentre, placido, dorme Benino a scialacore. Cullato dal belato, vede nel sogno il Bene trionfare sul Male e far di tutti i diavoli, di Belfagor, Asmodeo, Pluto, Balzebù e Asterotte ‘na sola mappata.
Ma ci vorrebbe un miracolo per sentire le voci del Presepe, e i miracoli – è risaputo – non sono a portata di mano e non accadono quando li desideriamo noi. Però quella volta Luigino parlò facendosi sentire. E mi chiamò per nome, prima sottovoce poi con voce più chiara e forte perché non capivo da dove provenisse quel richiamo. Ruppe l’incantesimo e questo, probabilmente, non succederà mai più.
Luigino è nato – adesso non ricordo più con precisione – quindici o sedici anni prima di Gesù, a Cesarèa nella Samarìa, in una casa di pescatori del piccolo villaggio che si specchia nell’azzurro del Mediterraneo. Lo comprai, insieme ad altri pastori, in una di quelle botteghe di statuine che si allineano, a destra e a sinistra, quasi l’una sull’altra, lungo il vicoletto stretto e corto di San Gregorio Armeno.
Come i suoi fratelli, avrebbe fatto il pescatore, se non avesse deciso, seguendo uno strano impulso, di recarsi in Galilea. «Vai a Gerusalemme, oppure va’ a Nazareth! Lì farai la tua fortuna, sveglio come sei!» lo incitavano i vecchi pescatori che l’avevano visto nascere. Luigino, invece, si lasciò convincere da Iubal, un suonatore di kinnor, che accanto alle barche tratte a riva quella sera intonava con la cetra della Genesi un canto che pareva una profezia. E lo seguì fiducioso fino a Betlemme, con la sola tristezza nell’animo perché non avrebbe più visto il mare.
Luigino abita poco lontano dalla grotta in cui è nato il Bambino, in uno di quei bassi angusti e senza luce che di notte si riscaldano con il respiro delle persone che vi dormono e si gonfiano di tutti i loro sogni che non si realizzeranno mai.
A Betlemme, Luigino si è sistemato presso un fornaio. Gran bella fortuna, la sua! Perché d’inverno, quando le notti sono gelide, può dormire sui sacchi di farina davanti alla bocca del forno ancora caldo. «Ho fatto bene a seguire il vecchio Iubal!» si dice spesso, ricordando la sera in cui, lungo il cammino, si fermarono a Gerusalemme per riposare. A pensarci gli vengono ancora i brividi.
Gli si avvicinò un uomo con fare misterioso. Gli disse che avrebbe potuto guadagnare molto denaro. Oro e gemme, addirittura, se avesse accettato di mettersi al suo servizio. E per convincerlo parlò di altri ragazzi della sua età che già lavoravano per lui. Luigino non capì nulla. Cosa avrebbe dovuto fare? Quali servizi? Di quale organizzazione parlava quell’uomo? Sua madre gli aveva insegnato a guardare gli uomini negli occhi e di fidarsi solo se leggeva del buono nel loro sguardo. E Luigino ebbe paura dei suoi occhi stretti e dell’ammiccante sorriso. Partì col vecchio suonatore di kinnor che non s’era ancora fatto juorno.
Luigino porta le pagnotte di pane in una cesta che regge sul capo con un braccio. L’altro braccio è aperto su un improvviso stupore, e lo tiene in equilibrio sul Presepe.
«Ehi! – mi sentii chiamare quella sera – Per piacere, cambiami di posto. Da quando mi si è rotta la gamba sono qui fermo: non so più quanto tempo è trascorso.»
Proprio così. A Luigino manca una gamba. Gli si ruppe tanto tempo fa. Càpita, allestendo il presepe, quando i pastori sono tratti dalla scatola di cartone in cui hanno riposato tutto l’anno, che qualcuno avvolto male nella carta di giornale, ne esca rotto. Senza un braccio o una gamba, perfino con la testa staccata. Altre volte, se non si è accorti, finiscono sul pavimento e, ahimè, si sbriciolano ed è impossibile ripararli. A Napoli questi pastori non si buttano mai.
Col tempo ci si affeziona, ci ricordano qualcosa o qualcuno. Dispiace, insomma, perché hanno tutti una storia, come ognuno di noi, e sono più grandi dei nostri figli. Entrano ugualmente nel Presepe, ma sistemati in posti più nascosti, poggiati a un muretto o confusi nel muschio, dietro un alberello o la fontana, perché non si noti la mutilazione.
Luigino finì sul pavimento. La gamba si fece in mille pezzi e non fu possibile rimediare. Per anni era stato proprio davanti alla grotta per adorare, insieme agli altri, il Bambino Gesù.
Luigino ha i capelli ricci e neri e, con lo stesso colore, l’artigiano che lo ha creato gli ha dipinto gli occhi che sono profondi e scuri comm’’a pecia. Indossa una camicia bianca larga e con lo stesso colore rosso dei pantaloni che finiscono sotto il ginocchio sono state arrossate le labbra. Fu deciso, superato il dispiacere, di tenere il pastorello mutilato nel Presepe, in alto, poggiato a un ponticello perché non cadesse.
«Voglio vedere il mondo», mi chiese ancora Luigino.
«Ma è questo il mondo», dissi riprendendomi dallo stupore.
«No. – fece lui – Voglio vedere il tuo mondo. Il mondo degli uomini, non quello dei pastori».
Lo presi delicatamente nel palmo della mano tenendolo con le dita, e lo portai davanti alla finestra. Il cielo non smetteva di piangere, e l’acqua rigava i vetri.
«Ecco, – dissi – questo è il mondo!»
«È grande!» esclamò guardando i palazzi dalle finestre illuminate che scendono verso il mare scuro ed arrabbiato.
«Sì, è grande, e non hai visto tutto!»
«Sono nato in una di quelle case» disse poi indicandomele con gli occhi. «È quella la strada dove nascono i pastori, vero?»
Annuii. Via San Gregorio Armeno era in fondo, e si scorgeva oltre una muraglia di palazzi antichi. Quasi un budello, come la viuzza di Betlemme, fatta di piccole botteghe, dove vive adesso Luigino.
«Credevo fossi nato a Cesarea!» mi stupii, ma Luigino non rispose.
Davanti ai vetri appannati guardava estasiato le luci di Napoli. Ne dedusse che fosse più grande di Cesarea. Arrivò con lo sguardo fino alla collina di Posillipo, poi, volgendo gli occhi, percorse tutto l’arco del Golfo e si fermò a guardare il Vesuvio che si scorgeva a malapena.
«Gli uomini cosa stanno facendo adesso nelle case?» mi chiese dopo un lungo silenzio.
«Non so. I bambini saranno già a letto… Qualcuno mangia. Altri leggono… Altri invece…».
«Non intendevo dire questo», m’interruppe Luigino. «Volevo sapere se gli uomini si amano.»
«Certo che si amano. Però, sai, si odiano pure, e non chiedermi perché. Magari per interessi, per rancori… per odio o per invidia.»
«E tutto questo a te piace?»
«Luigino, non è questione di piacere. Questo è il mio Presepe. È fatto così! Ci adoperiamo per cambiarlo ma, credimi, non è semplice. In fondo non è mai come lo vorremmo noi!»
«A me non piace!». Mi guardò deluso e amareggiato: «Riportami nel mio!»
Lo rimisi davanti alla grotta dove era stato per anni. Fu felice.
«Credi che il Bambino accetterà il pane da uno che non ha più una gamba?»
«Figurati, secondo me non ci farà neppure caso!». La mia risposta divertita lo tranquillizzò: «Lo gradirà più dell’incenso, dell’oro e della mirra. Anzi, fai una cosa, attendi i Magi che vengano dall’Oriente. Ti presenterai come il quarto Magio, insieme a loro.»
Si fece triste: «Io un Magio con questa camicia mezza strappata e i pantaloni da pescatore? Loro sono re e indossano vesti fatte di sete preziose e velluti tempestati di perle e smeraldi!»
«Fidati!» lo rassicurai.
Abbassò il capo. Osservò il moncone fino a metà coscia, e mi chiese sottovoce:
«Lui è capace di ridare le gambe ai pastori?»
«Luigino, ha fatto molto di più. Ha dato la vista ai ciechi e ha restituito la vita ai morti.»
La luce delle lampadine che veniva dalla grotta rischiarò il suo volto e una goccia di vernice brillò come una lacrima.
«Grazie!» mi disse, e non parlò più. Ammutolì tutto il Presepe.
Mi svegliai presto la mattina dopo. La casa era nel buio. Poggiai la tazzina del caffè sul muschio accanto alle pecorelle e con un interruttore illuminai tutto il Presepe. Il ruscelletto prese a scorrere e le pale del mulino a girare lentamente. Volevo vedere se nella notte qualcuno avesse ridato la gamba a Luigino. Vidi soltanto che l’alba si rischiarava per il sole che nasceva da dietro il Vesuvio. Il cielo era limpido e sereno, e non piangeva più.
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L’AUTORE
Giovanni Ruggiero, giornalista professionista, appassionato di fotografia da adolescemte, si è servito sempre delle immagini anche per corredare reportage giornalistici da inviato speciale di “Avvenire”. In precedenza, ha lavorato per altri quotidiani, tra cui “Roma” e “Il Tempo”.
Laureato in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, e in Lettere all’università La Sapienza di Roma, dopo aver viaggiato come fotoreporter per 25 anni, si è dedicato alla sua passione giovanile mai interrotta, protagonista di mostre personali e collettive.