Ecco la quarta e ultima puntata del nuovo racconto di Francesco Divenuto. Ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Divenuto è autore, tra l’altro, di numerosi saggi su riviste specializzate e di un romanzo “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” (edizioni scientifiche italiane). Tra i racconti, pubblicati sul nostro portale, Variazioni Goldberg, Il bar di zio Peppe, Carmen e il professore, Il flacone verde (o Pietà per George). Questo racconto è ambientato su un’isola dove si trova un lido ristorante… E l’autore si sofferma sui sapori della tradizione…
QUARTA PUNTATA
Fra questi antichi sapori, la mitica minestra maritata, comunque non economica e molto elaborata, ha ritrovato, almeno a Natale, il suo posto in alcune cucine solo perché rivisitata da qualche illustre chéf; mentre il sugo di cipolle con la carne “fuiuta”, (fuggita) ossia la finta genovese, la marmellata di pomodoro o le patate con la zucca, piuttosto che antiche ricette sembrano pagine di storia quando i rigori della guerra suggerivano l’utilizzo in impossibili combinazioni degli unici poveri ingredienti trovati sul mercato. Le castagne secche, messe a mollo per una notte e cucinate in annerite pignatte di terracotta, appartengono, ormai, soltanto al racconto di qualcuno la cui età è guardata con diffidenza dai più giovani. Così come la minestra di scarola e fagioli, semmai da gustare cospargendola sul classico tarallo di grano duro, la cosiddetta “fresella”, è solo il rimpianto di un tempo ormai lontano perché oggi nessuno richiede più queste pietanze.
E se, un giorno, la nonna dovesse avanzare questo desiderio sarebbe, certo, accontentata ma rischierebbe di essere l’unica a gustare questo antico piatto nel quale la sapienza contadina sapeva trarre sapore da pochi e poveri cibi.
Se poi, cosa purtroppo non frequente, da qualche campagna nell’entroterra dell’isola, un conoscente porterà un sacchetto di fagioli, chiamati “zampognari”, quelli dal bel colore bruno, quasi mogano, allora la festa è assicurata. Una zuppa con questi antichi legumi, i quali richiedono circa quattro ore di cottura, vedrà, intorno al tavolo, pochi invitati; e il pranzo diventerà un rito durante il quale tutti avranno parole di amicizia se non sguardi d’amore. Ma questi, ormai rari, diventano momenti di vita privata durante i quali il ristorante ritrova la dimensione familiare e il piacere di stare a tavola tutti insieme. Allora quella è anche l’occasione in cui saporite polpette fritte, con prezzemolo, pinoli e uva sultanina, farcite con una scaglia di formaggio piccante e condite con un buon sugo, un piatto ritenuto troppo popolare per essere proposto nel menù ufficiale, ritrovano un loro giusto ruolo sulla tavola accolte con evidente piacere dai commensali.
D’estate la richiesta di una fetta d’anguria conclude, molto spesso, il pranzo. Tirata su dal mare, dove è stata messa al fresco la mattina, la sfera, con i suoi brillanti colori, è portata in tavola ancora gocciolante ed intera. Al taglio netto e sapiente denuncia il suo interno rosso, con una polpa succulenta che riempirà di sapore e di profumo il cliente; ma prima la stessa Anna, ne assaggia una fetta; se il responso è positivo il coltello affetta porzioni abbondanti che vengono distribuite ai clienti dei tavoli vicini. La bocca non riesce a contenere il sugo che scorre sulle dita e sul mento senza un’eccessiva preoccupazione per l’incolumità dell’abbigliamento. Il dolce sapore, accompagnato da una divertita gragnola di semi neri sputati sul tavolato, mentre la vecchia signora, sorridendo, finge di non vedere, val bene qualche macchia che poi, a casa, si tenterà di eliminate.
A volte un cliente, volendo offrire un pranzo ad amici particolarmente cari, stabilisce, insieme alle proprietarie, il pranzo più adatto. Se sono amici, per così dire forestieri, i piatti saranno scelti, quasi certamente, riprendendo ricette del luogo semmai da tempo non preparate non tanto perché troppo elaborate quanto per mancanza di richieste.
Oggi, sempre più spesso, purtroppo, il pranzo è consumato con un occhio all’orologio; e la fretta è un pessimo accompagnamento, mentre un invito deve prevedere tempi giusti di attesa e di consumazione; allora il risultato sarà il vero trionfo della cucina ed, in quel caso, anche la nonna vorrà sedersi con il cliente ed i suoi amici, semmai a fine pranzo, portando in tavola una bottiglia di limoncello, fredda di frigorifero, o meglio ancora un nocino preparato molti anni prima. Conservato in un vetro scuro questo popolare amaro, la cui ricetta appartiene ai segreti della famiglia, infatti, sarà servito solo in rare occasioni e con parsimonia.
La sera, tutto riprende un ritmo più tranquillo. Al lento moto ondoso dell’acqua, si sovrappongono le risate e l’accordo di una chitarra; una barca passa, piena di giovani, diretta su qualche spiaggia lontana. La nonna, seduta sulla sua poltrona, si lascia prendere da un sonno che anticipa il giusto riposo della notte ormai prossima.
In cucina si preparano i sughi per il giorno dopo e si sistemano le tavole che, in verità, non conosceranno mai una radicale pulizia, già pronte l’indomani quando, in mattinata, uno straccio avrà assorbita la rugiada dell’umido notturno.
Con il buio, sulla terrazza, sorretti da pali, si accendono ingenui e datati festoni di lampadine colorate; una facile decorazione, un patetico pavese d’altri tempi, ricordo di un’epoca ormai trascorsa quando queste luminarie e qualche bandiera costituivano l’unica pubblicità di ogni locale. Ora, lungo la riva, stretta tra le insegne dei grandi alberghi, che, ad intermittenza, si spengono e si accendono formando diversi disegni con colori che cambiano in continuazione, l’ingenua illuminazione del ristorante forma la tenera testimonianza di una tradizione popolare che non vuole scomparire.
Nelle prime ore della sera, nei locali vicini, semmai con l’aiuto di un’orchestrina, s’improvvisano balere che un nome esotico non è sufficiente a trasformare in eleganti night club. Attività che, per le donne del piccolo lido, non ha mai riscosso favore.
Sull’isola, in molti, anche con l’appoggio delle autorità locali, hanno già tentato di comprare quella terrazza sul mare e non certo per le sue dimensioni, quanto, hanno detto, perché quella struttura, così datata, disturba l’ammodernamento dell’intero litorale. L’esistenza del ristorante è solo legata alla volontà della famiglia sempre più stanca di sopravvivere alle insistenze di imprenditori senza scrupoli che vorrebbero rilevare l’attività per trasformarla.
Ogni decisione è rimandata ma non per molto ancora. La morte della vecchia nonna segnerà, quasi certamente, anche la fine di quella attività che nessuno dei parenti ha la forza di rilanciare secondo programmi imprenditoriali ed economici ben più impegnativi
Ormai molti giovani sentono il richiamo della città vicina dove cercano un lavoro che sembra più sicuro ed anche più remunerativo. E non sono nemmeno pochi, quelli che sono emigrati in terre lontane e che ritornano sull’isola sempre più di rado.
Prima o poi il lido “d’Amore” chiuderà e così scomparirà una delle ultime testimonianze di un modo così familiare e cosi genuino di fare ristorazione, quando si poteva godere del piacere di un pasto fuori casa senza che questo diventasse un rito, un rincorrere l’ultimo locale alla moda dove andare, semmai la sera tardi, e consumare una serata che a pochisembrerà allegra ma che tutti approveranno come il solo possibile modo di vivere la villeggiatura.
(4.fine)
PRIMA PUNTATA
Su un’intricata e disordinata selva di travi di ferro, arrugginite dalla salsedine e dal tempo, palafitte di una dimenticata civiltà industriale, stende le sue tavole il lido-ristorante “d’Amore”. Dalla strada litoranea una scala, con sconnessi e diseguali scalini formati da tavole e blocchi di pietra vulcanica, tipica dell’isola, porta sull’assolato terrazzo.
Pochi i tavoli ricoperti da una tela cerata dagli incerti, sbiaditi colori che mascherano malamente antiche macchie e resti di sughi; vecchie croste di unto impossibili, ormai, da eliminare del tutto. Qualche ombrellone, con la pubblicità di una nota bevanda, la stessa ripetuta su alcuni portacenere di plastica, e qualche vaso di gerani, fiori resistenti all’aria salmastra, costituiscono l’essenziale arredamento di questo piccolo ristorante.
Parte del terrazzo è occupata da una baracca tirata su con tavole sconnesse, alcune imposte vetrate ed una copertura di lamiere sulle quali vecchie stuoie e secche frasche attutiscono il caldo estivo.
Nell’ambiente coperto, illuminato da una luce a neon sospesa al soffitto, sono sistemati altri tavoli -pochi in verità- ed un banco che non nasconde nulla della retrostante, piccola cucina odorosa di sughi: un fornello, alimentato da una bombola a gas, un vecchio frigorifero, qualche mobile con le provviste e le stoviglie, ed un tavolo dove preparare le pietanze, occupano quasi tutto quest’ultimo spazio.
A una parete un vecchio calendario, ormai inutile, ed il ritratto di un anziano uomo; un parente morto o forse il primo titolare di cui, però, non esiste alcun ricordo negli attuali gestori. Anche la nonna, interrogata, dice di non sapere nulla del vecchio proprietario ma lo dice con un sorriso, appena accennato, che lascia supporre altre storie delle quali potrebbe essere stata lei stessa protagonista. Non ricorda -lei dice- nemmeno se il nome del lido, “d’Amore”, d minuscola e A maiuscola, fosse il cognome del proprietario o se, piuttosto, non fosse stato scelto soltanto come buon augurio.
Non ha nemmeno senso insistere per avere notizie più precise sulla storia del luogo. Gli anni, le rughe, ma soprattutto la malizia della donna, nascosta dietro quello sguardo, ancora così vivace, sono sufficienti ad allontanare ogni idea su una stagione ormai trascorsa e per la quale, in realtà, si è anche spenta ogni curiosità.
Ormai è chiaro che il ritratto dell’ignoto uomo resterà come un nume tutelare finché esisterà il ristorante. Negli anni sono cambiate tante cose ed anche la scritta Lido, sulla vecchia targa arrugginita e scolorita, ancora esistente sulla strada costiera, non risponde più ad una funzione di balneazione se mai quel luogo l’abbia avuta. Oggi, dalla strada, molti scendono la scala, per poi passare direttamente sugli scogli, già in costume da bagno e la cabina, che forse un tempo sarà stata utilizzata come spogliatoio, ora è un deposito per tavoli, sedie ed ombrelloni, durante la stagione invernale.
In alcune giornate le onde del mare, pochi metri sotto il terrazzo, si sfrangiano sugli scogli con spruzzi che, a volte, raggiungono i clienti, seduti ai tavoli, anche se mai in maniera violenta. Nessuno, vestito quasi sempre con leggeri abiti estivi, sembra preoccuparsi più di tanto di questa probabilità; in un certo senso viene messa in conto in questo ristorante estremamente semplice. L’imprevedibile condizione del mare, così vicino, è accettata come l’elemento naturale del luogo la cui sobrietà caratterizza, sopratutto, le persone che lo gestiscono.
Un personale ridotto all’essenziale, formato dal cuoco, un vecchio contadino dell’isola che non è mai stato pescatore, pur essendo ormai da anni approdato sulla costa, dalla vecchia nonna, come tutti la chiamano, e dalla figlia Anna, una donna, nera di sole ed ancora bella nella sua femminilità tutta mediterranea; solo d’estate, il periodo di maggiore affluenza, una giovane figlia di questa aiuta a servire ai tavoli.
Tutto rientra nel naturale ambiente di questa cucina casalinga nella quale si prepara quello che al mattino presto è stato comprato al mercato o sulla vicina banchina dove, all’alba, approdano le barche. In un certo senso, la genuinità del cibo è assicurata proprio dalle scarse provviste. Per cui ogni giorno, al menù che non consente grandi proposte finiscono per adeguarsi le richieste dei fedeli clienti.
Mai molto ricco, lo scarso elenco viene recitato, direi quasi suggerito, da Anna con una tacita intesa da parte dei clienti. Ogni piatto può essere una variazione rispetto ad una ricetta classica secondo una proposta in cui, quasi sempre, il pesce recita il ruolo principale. Infatti, mentre la pasta o il riso trovano nei sapori del pescato del giorno la loro esaltazione più appropriata, la carne, insieme alle salsicce, solo quelle preparate in famiglia, a febbraio ed appese ad asciugare ai fumi della cucina, diventa un’eccezione che qualche volta è possibile richiedere; preferibilmente cucinata sulla brace per conservare il suo sapore che nessun condimento deve nascondere.
(1.continua)
SECONDA PUNTATA
Affezionati avventori frequentano il locale dove, con modica spesa, è possibile mangiare senza rinunciare ad un’antica e collaudata ricetta esaltata da una preparazione mai elaborata, dei pasti; una provata semplicità e genuinità che esclude raffinatezze da grande chef.
Così un sugo di pesce non raggiunge mai il colore e il sapore di una salsa lasciata troppo tempo sui fornelli in modo tale da non coprire, ma semmai da esaltare, il profumo e il sapore del pesce o dei mitili; questi ultimi, ancora nelle loro lucide valve, decorano la sommità di una montagna di spaghetti o di linguine, cotti rigorosamente al dente.
Il fumo che, denso, sale dal piatto, fornisce un’anticipazione del sapore che non sarà mai tradito. Seduta in un angolo, appoggiata alla balaustra aperta sul mare, la vecchia signora segue, con lo sguardo attento, i movimenti della figlia Anna e della nipote che servono ai tavoli; con un sorriso, asseconda lo sguardo trasognato dei clienti che, dopo il primo assaggio, alzano il viso in un muto e reciproco compiacimento.
In realtà al lido “d’Amore” -si fa fatica a definire questo luogo ristorante- tutto ti accoglie con una familiarità ed una semplicità che non appartengono ad una attività commerciale in cui il cliente è solo qualcuno che pagherà quello che ha consumato; in questa cucina, così ricca di tradizioni e di sapori antichi, il pasto assume, innanzitutto, il significato di un incontro amichevole. Ogni avventore, anche quello entrato, per la prima volta e che forse, almeno per quel giorno, avrà disertato le raffinate tavole dei vicini alberghi, sarà accolto con simpatia. E proprio quando c’è un nuovo cliente, l’ordinazione diventa una sottile indagine psicologica che Anna conduce con sapienza e competenza senza mai esagerare; ed alla fine la scelta di ogni piatto, sarà quasi suggerita tenendo conto dei desideri del cliente.
Così, se la pesca della notte precedente lo permette, una frittura di paranza, con un contorno di insalate di stagione, fresche e poco condite, o di sottoaceti, preparati nei mesi invernali, sarà presentato, giustamente, come il piatto da preferire.
In questo caso potrà trattarsi anche di un pasto unico che sarà concluso, quasi sempre, con una frutta, semmai non bella da vedere ma sugosa e di stagione.
Un vino bianco, freddo, accompagna questi semplici piatti e chi chiede birra è guardato con diffidenza almeno che non abbia mangiato una frittura con “panzarotti e palle di riso” o una porzione di parmigiana -ancora calda e profumata di basilico- poiché, in questo caso, una fredda caraffa dello schiumoso liquido ambrato può essere accettata come un perfetto connubio.
L’attesa del conto è impiegata sorseggiando un caffè, naturalmente caldo poiché quello freddo è ritenuto quasi una bestemmia. Nel frigo qualche gelato confezionato è accettato ma mai suggerito al cliente; può tornare utile, infatti, per qualche bambino capriccioso che accompagna un turista capitato quasi per caso; ma questi mal sopporterà i tovaglioli di carta, le posate scompagnate, i bicchieri, puliti ma di incerta e diversa provenienza, il conto preparato su una blocco note e difficilmente tornerà a mangiare a quelle tavole. E senza troppi rimpianti da parte della proprietaria.
Anna non fa mistero, infatti, di preferire clienti amici con i quali intrattenersi aspettando che dalla cucina chiamino per dire che il piatto è pronto. Qui ognuno deve sentirsi, innanzitutto, un amico al quale poter parlare chiedendogli anche notizie della famiglia e del lavoro quasi che da queste risposte dovesse dipendere il suggerimento sul piatto del giorno; in un certo senso un pasto al quale, in alcuni casi, affidare anche un compito consolatorio.
Un amico con il quale si può mangiare per il piacere della compagnia ma anche per convincersi della bontà della scelta fatta quella mattina al mercato. In questi casi, e senza alcun timore, si potrà anche esprimere qualche riserva sulla riuscita di una nuova ricetta, semmai suggerita dal cliente stesso qualche giorno prima. E sempre insieme, allora, si cercherà anche la correzione da apportare.
Non è raro, infatti, che qualcuno dei frequentatori più affezionati abbia richiesto una pietanza particolare, semmai ricordo della sua infanzia. E se sarà stato convincente, dopo qualche giorno, a quella tavola si svolgerà un rito di assaggi e di giudizi con un verdetto finale; se positivo quel piatto, almeno una volta la settimana, entrerà di diritto nel menù arricchendolo.
Nel tardo pomeriggio le due donne, spesso insieme al cuoco, siedono ad un tavolo in ombra aspettando la sera e qualche cliente per la verità rari in quelle ore.
Un amico, od anche qualcuno rimasto dopo il pranzo di mezzogiorno, si unisce a loro in un leggero dormiveglia, cullato dal continuo moto delle onde.
Quando, dopo il tramonto, una leggera brezza, proveniente dal mare, attutisce il caldo del giorno, mentre qualcuno si sposta ad un altro tavolo iniziando un’innocente partita a carte, le due donne cominciano ad immaginare il menù per il giorno dopo insieme al cuoco il quale suggerisce piatti semmai da troppo tempo assenti dal menù.
(2.continua)
III PUNTATA
In questo clima familiare, è possibile che anche qualche altro partecipi alla nuova composizione della lista; occasione in cui non è nemmeno esclusa una affettuosa disputa sulle modalità della preparazione dei pasti.Inizia, allora, una piacevole discussione alla quale tutti hanno diritto di parola.
Se si è sicuri del pezzo di carne, acquistato dal macellaio di fiducia, ad esempio, si concorda sul suo più corretto utilizzo in modo da esaltarne le qualità. E se si decide per il sugo alla genovese, si discuterà, anche, del tipo di pasta da cucinare; se cioè, il sugo sarà meglio utilizzato con i “ziti” spezzati o non, piuttosto, con i “paccheri” che qualcuno preferisce.
Alcuni piatti, certo, saranno cucinati l’indomani in base agli acquisti sul mercato ma altre pietanze, in particolare alcune minestre, lunghe da preparare, possono essere predisposte, già la sera, con le provviste esistenti in cucina.
E se si pensa a una minestra di legumi secchi, come ceci o lenticchie ad esempio, cosa che, di solito, avviene con le prime avvisaglie autunnali, ognuno può esprimere la preferenza sulla pasta con la quale completare il piatto. Capita, allora, che si confrontino, per così dire, due scuole di pensiero: quelli che, con i ceci, preferiscono la pasta mischiata e quelli che, invece, scelgono le fettuccine. Mentre, per le lenticchie, la scelta degli “stortini” resta, purtroppo, inascoltata per la difficoltà di trovare sul mercato quel tipo di pasta della quale ognuno ricorda il sapore come una memoria dell’infanzia.
Di fave secche –perché quelle fresche vengono mangiate in primavera accompagnate da una ricotta, prodotta ancora artigianalmente in qualche caseificio dell’isola- non si parla quasi mai poiché questo legume rimanda alla stagione invernale quando il ristorante si ridimensiona nella cucina per la sola famiglia e pochi intimi. Senza considerare che, d’inverno, in alcuni giorni, il mare agitato non consente nemmeno l’accesso al tavolato così esposto al maestrale che, furioso, agita mareggiate che esauriscono la propria forza sui corrosi pilastri prima di rompersi poi sui retrostanti scogli.
Con alcuni ingredienti, però, non c’è discussione o possibilità di scelta poiché tutti sono d’accordo: con le patate, ad esempio, ci vuole la pasta mischiata; semmai il dilemma è fra chi preferisce l’impiego dell’olio e chi è rimasto fedele all’utilizzo, tutto meridionale, della sugna –nell’isola qualche vecchia famiglia a questi due condimenti unisce anche il lardo per questo piatto cucinato al forno- e se dalla cucina una leggera brezza porta l’odore di una salsa tirata con le olive nere, quelle, per intenderci, dette di Gaeta, ed i capperi, il responso sarà unanime: con la salsa detta alla “puttanesca”, ci vogliono le linguine pasta rigorosamente richiesta anche con il sugo dei polipetti “affogati”.
Se poi è il tempo dei piselli, che la nonna avrà sbucciato per tutto il pomeriggio, la scelta sarà fra i vermicelli spezzati o i tubetti una pasta adatta a tutte le stagioni che non manca mai in cucina proprio per il suo molteplice uso.
Quando, ad esempio, i primi freddi autunnali allontanano i clienti stagionali o quelli meno coraggiosi, si può cucinare con formaggio ed uova oppure con una salsa leggera, all’aglio, ma senza risparmiare il profumato basilico che ancora resiste nei vasi protetti dai primi venti.
Insomma non è esagerato affermare che alle tavole del ristorante “d’Amore”, sì, questa volta chiamiamolo ristorante, in certi giorni, si consuma una vera e propria accademia di cucina che, in alcuni casi eccezionali, può anche prevedere una pietanza cucinata in due modi diversi per poi stabilire quale incontrerà il maggior gradimento. Qualcuno, per fare solo un esempio, insiste per la parmigiana cucinata alla salernitana, ricetta secondo la quale le fette di melanzane, prima di essere sistemate nel tegame da infornare, devono essere indorate con uovo e poi fritte. Ma quella, per così dire, classica, ossia napoletana, resta la preferita proprio perché meglio conserva il genuino sapore della melanzana e degli ingredienti aggiunti.
In verità non tutto quello di cui si parla verrà, poi, elaborato in cucina; a volte quel piacevole parlare di cibo acquista solo il sapore di un ricordo, la nostalgia di un tempo ormai trascorso e del quale ognuno sente ancora i sapori: piatti semplici preparati nelle proprie cucine dell’infanzia. Allora le nostalgie si rincorrono.
Nessuno, amano ripetere i più anziani, oggi prepara la salsa di pomodoro secondo i lunghi tempi utilizzati dalle mamme e dalle nonne, -quelli, per intenderci, necessari per il famoso ragù- così come alcune pietanze sono scomparse perché portano con sé la memoria di una povertà che oggi nessuno vuole più ricordare.
Come certe minestre, preparate con le sole verdure raccolte nell’orto di casa; per non parlare delle molte rielaborazioni alle quali venivano sottoposti alcuni pezzi di carne che, attraversando continui sughi, perdevano via via tutto il loro sapore fino ad approdare ad una padella dove, tagliati a strisce sottili, si consumavano insieme con le cipolle. Piatti che ricordati oggi, nell’epoca dell’abbondanza, per molti acquistano l’antico sapore della miseria appena attutito dalla malinconia per il tempo ormai lontano.
(3.continua