Se ne stava quasi immobile, sdraiata sul pavimento di cotto del terrazzino odoroso di gelsomini, il naso all’insù a rincorrere tra le nuvole forme di animali i più strani ,un gioco bello che fin da bambina faceva tutte le volte che si isolava,tutte le volte che sfuggiva alle cantilene inventate da quelle viperette delle sue amicheuovo ripieno l’avevano chiamata per via di quel vestito giallo dal colletto di vaporosa organza bianco che aveva scelto fra tanti e che le era parso assolutamente perfetto per la festa del suo compleanno. Le aveva sentite chiaramente. E dal momento che non possedeva bacchette magiche che le permettessero di sparire in una nuvola rosa si sorb fino alla torta la compagnia di tutta quella gente che aveva ormai deciso di non rivedere mai più.,ripromettendosi che avrebbe indossato solo tute maschili e informi,per sempre. A volte le sembrava di somigliare a uno di quei cani di razza pregiata tutto ciccia e pieghe che se ne sarebbero potuti fare due con tutto quello spreco di carne. e poi,diamine,ce l’aveva anche con sua madre che aveva lasciato scegliere a un marito senza criterio n fantasia,vero è che era l’ottava delle figlie tutte femmine ,ma quel nome era gi una condannaOttavia cominciava con una O larga e tonda, presagio sinistro,seguivano ben due T che con la loro sbarra in cima mettevano un limite alla crescita,un tetto,cos era cresciuta,tonda e corta E poi il resto del nome “via” altro presagio negativo ci,è meglio che te ne vai.Certo se avessero guardato un calendario qualsiasi avrebbero trovato di meglio,che so per esempio se si fosse chiamata Gabriella avrebbe avuto collo lungo,alta sarebbe stata,per via di quelle eleganti Elle e sinuosa. Gaia poteva essere, allegra e facilitate le presentazioni, o Valentina, un’idea leggera di donna che passa a testa alta tra la folla. Alessandra anche, decisa forte e coraggiosa. O Luisa che ti rammenta un dolce soffice e pannoso o Germana imperatrice di cuori.Invece il suo nome riempiva la bocca e gli spazi,proprio come il suo ingombrante corpo.
Tutto quel seno che se girava un angolo di strada sbucava per primo “due tette che camminano da sole”. E quei riccioli ribelli neri che parevano serpentelli in movimento costante. Le sue sorelle erano tutte chiare,da dove era saltata fuori lei cos diversa. Vero è che sua madre era nata in Argentina, che andava alle scuole a cavallo, che aveva villa e servitori e che soprattutto scappava la sera dalla finestra per andare a ballare il tango con la sua migliore amica,ma che c’entrava tutto ciò? Poteva solo giustificare la sua grande passione per un certo tipo di musica. Gi , è vero, gli occhi. Erano neri come quelli di sua madre Isabella, grandi e orlati da lunghe ciglia e lo sguardo, era uguale proprio come nella foto sulla madia antica, il bel vestito rosso scuro e lo scialle con le rose su cui scendevano inanellate ciocche di capelli nero ebano. Insomma era stufa di controllare com’era e a chi somigliava,pur superata la fase adolescenziale,che tutte si trasformano in evanescenti farfalle lei era ancora racchiusa in un bozzolo.Studiava con poco entusiasmo non sapendo bene cosa desiderare per s e cosa chiedere al futuro.Aveva provato a suonare il piano come sua sorella Mafalda che solo per il nome che portava avrebbe dovuto suonare l’arpa, ma le mancava la costanza e l’idea di doversi esibire in pubblico la faceva inorridire. Cos aveva provato con l’atletica,ma lei la mettevano sempre al lancio del peso e archiviò anche questa possibilit .Ricamava come Rosalinda ma il confronto non reggeva,sua sorella era perfetta lei pasticciona.Viola se la trascinò a danza classica,lei aveva il nome giusto per farla,bionda eterea,in tutù sembrava una libellula,lei sicuramente sarebbe sembrata un elicottero. Per lei il tutù doveva essere confezionato su misura e quando la sarta poggiò il metro intorno ai suoi fianchi, le venne una tale crisi isterica che la sorella dovette trascinarla via di corsa. Per qualche tempo s’era interessata al lavoro del padre, un antiquario con un elegante negozio al centro della citt , ma distratta com’era aveva combinato non pochi guai cos ci lasciò sua sorella Concetta molto più adatta sicuramente grazie al suo nome che fa rima con perfetta. Aveva un bel coccolarla sua sorella Maria che l’aveva cresciuta abbracciandola teneramente e chiamandola pulcino, ma dico, la vedeva mentre la guardava? Pulcino, grassa chioccia le doveva dire, altro che pulcino.
Il terrazzino era il suo rifugio, il suo pensatoio. Con le sue nuvole e la sua musica dolce e sensuale e trascinante, i vecchi dischi e il grammofono della nonna. L fantasticava e si chiamava Anastasia e si vedeva snella e flessuosa tra le braccia di un ballerino senza nome e senza volto che la portava leggera dentro le nuvole dei suoi giochi.
Ottavia fu interrotta nelle sue fantasticherie, un pomeriggio di domenica da un insolito trambusto proveniente dal terrazzino della casa accanto alla sua, disabitata da un pezzo, per l’andirivieni di gente, di mobili e tappeti e libri. Poi il silenzio consueto. Il mattino dopo spalancò l 6 « o è è á « s pt L libri n e d d d d pG 7 e E è H l è NO » OJ e
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î î è è î î î è î è e imposte e una bella signora non più giovane le regalò un dolcissimo sorriso quasi sporgendosi dall’inferriata del terrazzo. Ricambiò il saluto un po’seccata da quella nuova presenza,non sarebbe più stata sola e in pace. Però quel viso,gli occhi verdemare e quella crocchia di capelli neri raccolti in una leggera retina,l’affascinarono,in fondo le parve abbastanza simpatica per salutarla.
Si accorse Ottavia che la parete della stanza della Signora era ricoperta di specchi e nel pomeriggio allungandosi e sbirciando di nuovo incuriosita la vide riflessa ballava e pareva sospesa, sulla Sua musica ,proprio cos la musica che ascoltava da sempre e sempre. La donna si sent osservata e usc sorridendo e allungando la mano al di l dei ghirigori di ferro dove l’edera s’intrecciava al gelsomino si presentò. Sono Terè, le disse e quel nome che le parve un magnifico svolazzo,rimase nell’aria e nel cuore di Ottavia.
Ormai tutti i suoi pomeriggi erano l, dietro l’inferriata dei gelsomini. Gli occhi sugli specchi che riflettevano Terè impegnata ad insegnare i passi di danza su quella musica tanto amata. Ricami sul pavimento erano,impennate di puledri in corsa,pause di passione,pennellate di colori, cascatelle d’acqua,torrenti in piena.
Finchè un pomeriggio d’estate si sorprese a muoversi come se ci fosse quel cavaliere senza volto e senza nome che la guidava. Chiuse gli occhi e si lasciò andare.
E mise braccia e gambe il suo cuore,e tacchi a spillo. E incominciò a salire sempre più in alto,e si sent un airone leggero e poi più giù,lungo uno scivolo di seta azzurrina,e ancora su per monti di velluto e nuvole di panna. Si cullava il suo cuore,sull’onda del mare e tra gli scogli si scioglieva in spuma per ritornare farfalla librandosi nell’aria disfando i bei colori finchè la musica del Tango si acquietava.
Una domenica d’inverno, di quelle che non finiscono più, Ottavia gironzolava annoiata per casa. Dov’era Terè quando non teneva le sue belle lezioni di Tango, non si sentiva alcun suono dal terrazzino e gli specchi non riflettevano luci,n ballerini.
Il suono discreto del campanello la scosse,la fece trasalire. Non aspettava e non voleva nessuno. Di nuovo suonòdo mi sol, do mi sol. Apr. Era Terè. Mi sento sola,le disse sorridendole, vieni a prendere un caffè da me? Davanti a tanta dolcezza e a quello sguardo smeraldino Ottavia non potè e non volle opporre un rifiuto. Per la prima volta entrò curiosa in quella casa che aveva immaginato proprio cos,elegante e sobria. Divani color malva e soffici tappeti grigio perla,come le pareti,spoglie. Soltanto sopra un’antica madia che le ricordava quella di casa sua,una foto,come incastonata in una cornice larga,argentata,antica.
L’aroma del caffè invadeva la stanza e Terè portò il bricco e le tazzine di peltro su un vassoio ricoperto da un leggero centrino ricamato.
Ottavia sedeva compunta sul divano più piccolo tra i cuscini ricamati con grappoli di glicine. Sorbiva quel caffè squisito e, rapita ascoltava la musica del Tango,flauti e fisarmoniche e chitarre in uno struggente crescendo,quando decise di alzarsi all’improvviso e andare a guardare quella foto. Si avvicinò e ci mancò poco non le cadesse tazza e caffè sul delicato tappeto.
Sua madre,non c’erano dubbi,era sua madre quella insieme a Terè
Era Isabella,giovanissima,l’abito rosso scuro e lo scialle con le rose con cui circondava le sue e le spalle dell’amica in un abbraccio gioioso.
Restò cos,sospese in aria tazza e parole e guardò l’insegnante di Tango.
Era lei quella con cui scappava di notte sua madre,con lei alle milonghe disegnava
Ocho e Boleo e le figure eleganti che la musica passionale e avvolgente imponeva loro di volta in volta. Amiche e complici.
Ecco da chi le veniva quella passione struggente, da dove partivano le radici di quella musica che riempiva le sue cellule,che esplodeva impetuosa come una cascata
E,prepotente le riempiva dolcemente la vita.
Ora lo sapeva bene per che cosa era nata,chi era il suo cavaliere senza volto e senza nome,sapeva cosa avrebbe fatto per sempreil Tango!
Si voltò di nuovo verso Terè e indicandole Isabella,le disse.
“Questa era mia madre”.
Nella grande sala era tutto uno scintillio di specchi e luci,di gioielli e lustriniOttavia si sistemava meglio nella comoda poltroncina di velluto blu lisciando pensierosa l’abito di seta frusciante color crema,regalo di Terè.
Si sentiva quasi bella.I riccioli neri raccolti in una morbida crocchia la facevano somigliare a sua madre ed era grata a Terè che l’aveva convinta da un pezzo a smettere quelle buffe tute informi e le aveva insegnato a ballare anche i passi più complicati che lei eseguiva con naturalezza e passione,con impegno e determinazione.I suoi pomeriggi erano abitati dalla musica e dal ballo,ogni giorno nuovi passi di Tango,inventati,vissuti,tormentati.Tango,solo Tango,che ballava sempre con Terè.
Quella era una serata speciale.Erano volati a Buenos Aires con un gruppo di stagisti e la sua amica era stata molto convincente,lei,Ott 6 « o è è á « s pt L libri n e d d d d pG 7 e E è H l è NO » OJ e
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E T pM S avia era il suo portafortuna e non poteva mancare. Tutta la scuola al gran completo si recò,alla sera,per salutare gli amici alla milonga nel locale più esclusivo della citt .
Ottavia spostò una ciocca ribelle dagli occhi,accavallò le belle gambe guardando i suoi sandali dal tacco altissimo che un tempo non avrebbe mai indossato,e osservò la sala gremita da ballerini armoniosi e perfetti.
Era felice,ascoltava la sua musica con un misto di eccitazione e nel contempo di rilassatezza,un po’ pensierosa,un po’ sognante,come quando interrogava le sue nuvole,un po’ in attesa.
All’improvviso le si parò davanti un uomo,bello come nessuno mai. Un suo cenno del capo e fu magia.
Ottavia si affidò alle sue braccia e ballò,ballò tutta la notte. Un interminabile sensuale,fantastico,dolcissimo Tango,e volarono insieme,sulle sue nuvole,e ancora più su,in un tramonto di fuoco,in un cielo di velluto,oltre le stelle e ancora più su,in una danza infinita.
Pubblichiamo “Ottavia” di Carla Infranca Granada, racconto vincitore del Primo premio Narrativa organizzato dall’associazione napoletana “Mujeres del tango”. La premiazione è avvenuta il 30 ottobre al Cafè Maxi ho di Napoli, in via C Poerio 47. La giuria era composta da Stefano Manferlotti (ordinario di letteratura inglese e docente di letteratura comparata all’Universit di Napoli Federico II, autore di saggi e volumi dedicati alla letteratura) Donatella Gallone (giornalista e direttore del sito www.ilmondodisuk.com) e Antonio Lalli (maestro e ballerino di tango)