Pubblichiamo di seguito  la terza puntata del nuovo racconto di Francesco Divenuto, “Si vendono poesie”. Scenario è il museo archeologico di Napoli. Dove un bambino disegna ai piedi di una statua… L’io narrante lo supera e continua a passeggiare… E si siede al tavolino di un caffè, accanto ad alcuni turisti…
Ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Divenuto è autore, tra l’altro, di  numerosi saggi su riviste specializzate e di  due romanzi “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” e “Vento di desideri “(edizioni scientifiche italiane).
Tra i racconti, pubblicati sul nostro portale, Variazioni Goldberg, Il bar di zio Peppe, Carmen e il professore, Il flacone verde (o Pietà per George), Lido d’Amore, Frinire, Primo novembre, Due di noi, Il trio, Quattro camere e servizi, Mai di domenica, Cirù e Ritù, Una notte in corsia, Gennaro cerca lavoro (il peccato originale), Fine stagione, Assemblea straordinaria al College, Quando le chiacchiere diventano troppe, La deriva della ragione.

QUARTA PUNTATA
Uno degli adulti mi chiede informazioni con un simpatico parlare
nel quale, insieme a qualche espressione, che vorrebbe essere italiana, si mescolano parole spagnole nelle quali ritrovo suoni del mio dialetto, almeno a me così sembra; e del resto non è così difficile considerando la storia della città. Vuole sapere come raggiungere alcuni luoghi che vogliono visitare. Vengono da Barcellona, mi dice; sono a Napoli soltanto dal giorno prima ma non hanno molto tempo perché intendono proseguire per Ischia.
Improvviso, dalla vicina Accademia, chiassoso, esce un gruppo di ragazzi che grida circondando una giovane donna quasi nascosta da un enorme fascio di fiori; certo avrà conseguito la sua laurea.
I tre spagnoli seguono, anche loro divertiti, quella esplosione di allegria che accompagna i giovani fino ad un vicino locale dove, certo, la festa continuerà. In fondo tutto questo vociare, chiassoso ed allegro, appartiene anche alla loro cultura.
Poco dopo, ancora ridendo, i turisti spagnoli vanno via. Li seguo con lo sguardo fino a quando, prima di svoltare nella vicina strada, si girano e gesticolando mi gridano ancora i loro allegri saluti. L’allegria, si sa, può essere contagiosa.
Resto seduto, da solo, nella ritrovata tranquillità dell’ora. Dovrei andar via, potrei prendere un altro caffè o, anche, mangiare qualcosa; non è certo il tempo che mi manca. Ma poi non faccio niente e resto seduto; ecco, leggerò il giornale.
Un uomo di colore, poco più di un ragazzo, si avvicina. Nonostante il caldo indossa un lungo soprabito. Forse è tutto il suo guardaroba, penso.
– Vuoi comprare vecchia foto Napoli? dice mostrandomi le riproduzioni delle immagini Alinari. Deve avermi preso per uno straniero ed io lo lascio parlare. Non gli correggo quello che dice, non avrebbe senso, ma lui ha capito che non comprerò nulla.
– Compri poesia?
– Come?
dico non credendo a quello che ha appena detto, poesie? ma sono tue?
– Sì, aggiunge, tu vuoi napoletano?
Ho degli attimi di smarrimento. Ci deve essere qualcosa che non funziona, qualcosa che mi deve essere sfuggito nel suo incerto parlare; l’unica cosa da fare è scoprire il suo gioco.
– Ma quanto costano, ecco questa per esempio, dico estraendo un foglio dal fascio che mi mostra.
– Scelto bene amico, mi dice, vediamo, questa a te 5 euro.
Leggo i primi versi: “Che sole, che sole, che sole cucente!
Non riesco a trattenere una risata alla quale il pover’uomo non sa come replicare. L’imbroglio è così scopertamente ingenuo da sembrare impossibile; ma tutto questo è troppo diverso dalla sua mentalità. Gli hanno detto di vendere e lui va in giro offrendo la sua merce; non sa che cosa offre; qualche amico napoletano gli avrà fotocopiato poesie che lui non conosce, così come uno “straniero” non dovrebbe riconoscere la famosa poesia di Libero Bovio.
Rido ancora mentre completo la lettura.
Continua a guardarmi stupito, non capisce la mia reazione. Si starà chiedendo il perché del mio comportamento. Sarà abituato a moti di fastidio di gente che lo allontana in malo modo per cui il mio divertimento lo spiazza. Mi guarda preoccupato, ma io lo tranquillizzo e gli do 10 euro. Resta ancora qualche momento guardando la moneta che ha in mano.
– Puoi tenere, gli dico. Mi guarda pensando di non aver capito, poi si allontana ringraziandomi.
Il cameriere, che ha seguito la scena, si avvicina divertito anche lui.
-Scusi, le ha dato fastidio? Lo conosco. Viene qui tutti i giorni; le prime volte lo abbiamo mandato via, ma è gentile, educato; gli allievi dell’Accademia, non so perché, lo chiamano “il poeta”; ora ci siamo abituati, non da fastidio a nessuno, ma lei ha esagerato dandogli tutti quei soldi.
-No, dico, non si preoccupi, grazie, va tutto bene.
– Le porto ancora qualcosa?
– Vedo che avete dei panini, me ne porta uno, col pomodoro per favore, ed una birra, ma leggera.
– Subito.
Sono di nuovo solo;
sorrido; mi sembra tutto giusto. Ripenso “al poeta”; l’episodio è incredibile e sono sicuro che solo a Napoli poteva accadere: una iniziativa così innocente, in fondo, è una dimostrazione di empatia umana in una società diventata così insicura ed egoistica. E poi, ammetto: mi ha messo di buon umore; non sento più nemmeno caldo; mi sembra una giornata perfetta e non riesco a capire se ci sia un senso in tutto questo; forse sì.
(4.fine)

 

 

TERZA PUNTATA
Scendo lentamente lo scalone fermandomi sotto la statua di Ferdinando IV
disposta sul pianerottolo dopo il primo rampante. Nella statua del Canova, il sovrano acquista un portamento ed una fierezza che non riflettono il vero carattere di Ferdinando, il re “lazzarone”. Ma la retorica del monumento esprime la dignità del ruolo piuttosto che la personalità del personaggio. E certo l’importanza di quel luogo, alla cui costituzione contribuì, in qualche modo, ne riscatta la modesta personalità.
Mi fermo di lato lasciando passare una marea di turisti che avanza sulla rampa centrale: gentili volti orientali, in silenzio, formano l’accaldato corteo, vestito con abiti colorati, che segue la guida. Al pianterreno l’aria più fresca m’induce a prolungare la permanenza nel Museo.
In verità desidererei una sosta in una caffetteria, servizio, purtroppo, inesistente nonostante da anni si parli di organizzare questa Istituzione secondo criteri di maggiore efficienza. Rimando la necessità di una bibita fresca a dopo, quando uscirò, accontentandomi di una sosta al bagno dove posso almeno bagnarmi.
Riprendo il mio giro ma senza fare molta attenzione alle opere. Potrei risalire nelle sale dei grandi bronzi, una delle mie mete preferite. Ma lo scalone è ancora affollato; preferisco restare nelle sale del piano terra dove il caldo si avverte meno.
Quando ritorno sulla strada, nella caldera della piazza, il beneficio del fresco svanisce presto; e dopo poco mi ritrovo sudato e spossato senza capacità di decidere.
Ormai, almeno per questa mattina, di andare in facoltà non mi sembra il caso per cui attraverso in gran fretta per rifugiarmi sotto i portici della Galleria dove anche i rumori dell’intenso traffico, arrivano attutiti. Mi fermo indeciso; ma credo che un taxi, nella vicina piazza Dante, sia l’unica meta possibile.
Nella galleria molte saracinesche sono abbassate; in quest’ora della tarda mattinata, è percorsa da poche persone che camminano rasentando i lati in cerca della scarsa ombra; la vetrata di copertura, infatti, ha creato un clima da serra tropicale. Questo spazio pubblico non ha mai goduto di grande popolarità; ogni attività commerciale non è durata molto ed alcuni uffici pubblici hanno contribuito a rendere l’ambiente ancora più triste.
Sento che le mie capacità di resistere cominciano a venir meno.  Davanti alle scale dell’Accademia i due leoni, posti all’ingresso, forse avvertono anch’essi il caldo; inchiodati sui loro piedistalli, la loro bronzea pelle luccica sotto il sole che li ha trasformati in uno specchio ustorio.
La strada, resa pedonale, è occupata dai tavolini di un bar; ampi ombrelloni quadrati e le foglie di alcune palme, contenute in grandi vasi, illudono di un refrigerio che, in realtà, non esiste. Ma la stanchezza, quella sì, esiste ed ora una sosta si è resa necessaria.
Il tufo della facciata del monumentale edificio, le mattonelle del pavimento stradale, il marmo dei tavolini del bar, tutto emana calore; nell’aria un caldo, fermo, stagnante, un caldo che stordisce ampliando il fastidio dei rumori della vicina strada.
Seduto, aspetto che qualche cameriere si accorga di me. Una bibita fredda è la più immediata meta alla quale aspiro. In realtà mi sono fermato anche perché ho rivisto il ragazzino insieme a due giovani uomini quegli stessi che ho incontrato al Museo.
Forse tre fratelli, penso, oppure tre amici ma la distanza anagrafica con il ragazzino mi inducono ad altre ipotesi. Non posso escludere, infatti, che si possa trattare di una coppia, da tempo regolare nel loro paese, con il figlio naturale di uno dei due giovani; ma anche di un figlio adottivo. Seduti al bar; mangiano, ridendo, con evidente soddisfazione. La loro felicità è contagiosa e mi fa pensare a quanta stupida retorica e malevoli pregiudizi ancora impediscono, nel nostro paese, una legislazione che tenga conto dei sentimenti delle persone piuttosto che della sola genetica.
Rifiuto ogni altra ipotesi; il caldo del giorno certo non contribuisce ad una serena considerazione ed ogni giustificazione di storica arretratezza dei nostri costumi, mi sembra inutile. Cerco di fuggire con la mente lontano sognando giorni migliori. Non posso fare a meno di ammirare l’aria di allegria dei tre i quali ridono davanti ad una lauta colazione; la loro evidente felicità mi trasmette un senso di tranquillità.
L’arrivo del cameriere mi distoglie da considerazioni inutili. Chiedo un caffè; richiesta poco originale ma, come spesso mi accade, al momento di scegliere una bevanda mi perdo e ripiego su una più tradizionale, classica tazzina napoletana.
Del resto se è buono, e accompagnato da un bicchiere d’acqua, il caffè è un ottimo ristoro in una giornata calda come questa. In attesa continuo a guardare i tre seduti poco distanti ai quali il cameriere continua a portare alcuni dolci. L’evidente golosità del ragazzino viene assecondata dai due adulti che sorridono compiaciuti guardandolo mangiare con appetito e con gusto. Forse perché osservato, il ragazzino si gira e mi fissa mentre una scia di crema gli decora il viso.
                                                                                                     (3.fine)
SECONDA PUNTATA
Incuriosito, ma senza infastidirlo, mi fermo a osservarlo. La statua è quella di Apollo arciere; non ho ancora avuto modo di controllare la provenienza dell’opera; ed in questo momento mi interessa poco. Resto incantato nell’osservare l’elaborato del ragazzino il quale ha già disegnato la statua rispettando abbastanza le proporzioni ed anche, cosa più difficile, il movimento degli arti. Ora inizia a colorare riempiendo il disegno. La sicurezza dei gesti, oltre alla evidente capacità di rendere la fisicità della statua, sono sorprendenti, considerata la giovane età del ragazzo. Anche il colore azzurro molto intenso scelto, quasi un blu elettrico, che ora sta stendendo, rende bene la patina del bronzo.
Dote naturale, certo, ma è evidente che è abituato a questo tipo di esercizi. Sono quasi convinto che sia un ragazzino straniero perché questo è un metodo didattico che ho già visto utilizzare nei Musei di altri paesi. Forse esagero e certo ricordo la scuola dei miei tempi lontani; oggi, semmai, sarà diverso, almeno lo spero. Per niente intimidito il ragazzino mi guarda tranquillo, certo è abituato a tutta questo.
Gli sorrido e riprendo a girare per il salone cercando, con lo sguardo, i suoi genitori. Non ci sono molti visitatori, ma non vedo nessuna coppia almeno vicino; eppure il ragazzino non può essere entrato da solo. Poi, un po’ distante dalla statua, davanti ad una vetrina, i cosiddetti “teatrini” come li ha definiti un noto critico, vedo due giovani che, sottovoce, commentano gli oggetti esposti parlando spagnolo.
Proseguo lungo lo stesso lato del salone fermandomi davanti ai quadri dell’Ottocento tutti ispirati alle rovine pompeiane.
A prescindere dalla qualità delle opere, non sempre significativa, è interessante notare quanti artisti stranieri furono attratti dall’antica città vesuviana. La riproduzione delle rovine divenne un “genere” per cui i quadri venivano venduti ai collezionisti prima ancora di essere realizzati.
La suggestione di quell’antica realtà, risorta dalle ceneri, aveva creato una vera stagione artistica che interessò l’Europa, una stagione che la Mostra mette bene in evidenza anche con l’utilizzo di foto nelle quali compaiono alcuni dei grandi protagonisti del XX secolo. Le testimonianze delle tante personalità, affascinate da quelle scoperte che influenzarono le loro opere, infatti, sono molte.
I bei disegni di Le Corbusier, ad esempio, documentano l’accurata indagine svolta dall’architetto sulle rovine degli edifici pompeiani. E la foto di Picasso, insieme a Léonide Massine, apre un capitolo di grande interesse per il balletto e la scenografia teatrale. A Parigi, poco tempo dopo, infatti, debutterà Parade il balletto organizzato da Cocteau con le musiche di Erik Satie.
Le notizie riportate sui pannelli espositivi accompagnano il visitatore lungo un percorso facile ed affascinante. Sono quasi giunto alla fine del percorso; non mi sono accorto del tempo trascorso e, soprattutto, ho dimenticato quella fastidiosa sensazione di caldo.
La Mostra è terminata ma, pur essendo molto interessato, questa volta non ho voglia di ripercorre l’intera itinerario; decido che tornerò con più calma e soprattutto sperando in una giornata più gradevole. Dopo il primo impatto, in realtà, ora anche nel salone si percepisce un tasso di umidità molto alto. Verso l’uscita, mi fermo a parlare con un giovane che fa servizio di sorveglianza. L’impianto di condizionamento non funziona o non abbastanza, lui mi confessa; ed aggiunge che per il troppo caldo, anche le opere soffrono indicandomi una grande tela di Sironi la cui superficie pittorica potrebbe subire un danno.
Resto ancora qualche minuto fermo nel vano di una porta laterale da dove entra una leggera ma gradita brezza di vento. Sono sicuro che anche Sironi gode dell’inaspettato beneficio in questo torrido mattino. Poi saluto e vado via.
(2.continua)


PRIMA PUNTATA
Fa caldo. Sì, oggi fa proprio caldo, un gran caldo e pensare che siamo a luglio non conforta più di tanto. Sarà stato per questo motivo che, giunto alla stazione di Montesanto, ho avuto un attimo di esitazione, uno di troppo ed il treno è ripartito. Dovevo andare in Facoltà, ma ormai devo rassegnarmi e scendere alla prossima fermata. In realtà non avevo un impegno preciso; e poi con il pensionamento ho notato che il tempo ha perso la sua urgenza. Tutto è rallentato.
Ecco la stazione Cavour. Scendo; ma dalla piazza fino alla via Monteoliveto non è poco e con questo caldo, altro che tempo rallentato correrei il rischio di un tempo fermo per sempre. Ed io non ho voglia di fermarmi; almeno non oggi. Devo solo riprendere il treno nell’altra direzione. Un percorso facile, logico, non siamo mica alla stazione Chatelet di Parigi, che diamine! Eppure, giunto nel punto di scambio, quasi senza deciderlo, cambio ancora itinerario imboccando il lungo corridoio che, con due tratti di tapis roulant, mi porta alla stazione Museo della linea uno, la collinare, la nota metropolitana dell’arte.
Cammino piano, ammirando le splendide foto che decorano i corridoi e poi salgo nella stazione dove, su una monumentale mensola, la copia in bronzo della famosa testa rinascimentale del cavallo guarda il traffico pedonale che, impassibile a tanta bellezza, scorre ai suoi piedi.
Non ho voglia di uscire all’aperto per cui attraverso il passaggio fino al Museo archeologico.
A quest’ora del mattino non c’è nessuno; eppure il motivo per farlo non mancherebbe, visto che nelle vetrine sono stati sistemati molti dei reperti archeologici ritrovati durante i lavori di scavo delle stazioni della nuova linea. Conosco questi resti per cui preferisco proseguire fino all’atrio del Museo.
Qui giunto, il fresco del monumentale ambiente, dalle alte volte, è accogliente; i passi dei turisti e del personale, risuonano appena sul pavimento di marmo; tutto appare lontano rispetto al caldo che si immagina fuori dell’ampio portale d’ingresso.
Alla biglietteria, un moto di leggera civetteria mi suggerisce di non chiedere il biglietto ridotto. Ne avrei diritto, data l’età, ma qualche euro in più per me non è un disastro e posso pensare di aver così contribuito al mantenimento dell’importante istituzione. Come se bastasse, poi penso sorridendo. La realtà, molto più semplice, annulla tutti questi ragionamenti: un cartello, infatti, avverte che, secondo le nuove disposizioni, la riduzione vale solo per i minori dei 18 anni.
Cammino piano, non ho fretta. Sulla destra del grande atrio avanzo fra un popolo pietrificato: testimonianze di vita lontane che non mi trasmettono nessuna emozione.
Poi entro nelle sale della collezione Farnese; non c’è nessuno; mi muovo lentamente, guardandomi intorno. Nella vastità degli spazi, ascolto i miei passi, unica traccia di vita. Ma in realtà la mia è solo una stupida illusione; io, domani, scivolerò via nel tempo mentre le grandi statue: il Toro, l’Ercole e la Flora, vivranno la loro bellezza eterna, intatta come adesso, nel silenzio e nella luce di questo caldo mattino estivo.
Sull’ampio scalone ricurvo rallento i passi; qui il caldo non c’entra ma gli anni, quelli sì. Voglio lentamente arrivare alla sala centrale, quella della meridiana dove è allestita la Mostra su Pompei.
Entrare dall’ingresso, in asse con la sala, e percepire le reali dimensioni dell’enorme ambiente, è una sensazione difficile da spiegare. L’impatto con il vasto salone, detto della Meridiana, è sempre emozionante: la visione dello spazio vuoto, sotto l’alta volta dipinta da Bardellino, lascia frastornati.
Questa volta, però, l’accesso alla Mostra avviene da un ingresso laterale. In questo modo l’approccio è, in un certo senso, straniante poiché il primo sguardo non consente di cogliere le reali dimensioni della sala.
Il percorso è organizzato lungo tre navate con le pareti espositive disposte non parallelamente in modo che non si ha la percezione dell’intero volume mentre anche la volta si rivela, solo a tratti, attraverso le irregolari coperture che concludono i pannelli.
Abituo gli occhi alla luce soffusa e avanzo nel tentativo di stabilire un criterio per la visita. Di solito non utilizzo gli strumenti audio; preferisco camminare senza una vera meta, senza un percorso determinato lasciandomi prendere da tutto quello che mi coinvolge; cedo alle emozioni più diverse: una vetrina particolarmente ricca, un colore più acceso, a volte anche un suono per poi riprendere, semmai, l’intero itinerario rispettando l’ordine espositivo. Una eventuale seconda visita, se ci sarà, si svolgerà, secondo un approccio rigorosamente scientifico avendo, semmai, consultato il catalogo.
Anche questa volta seguo questo mio criterio: avanzo lungo le due file di vetrine, sistemate al centro del corridoio, interrotte solo in alcuni tratti nei quali l’inserimento di statue continuano la logica espositiva.
Ai piedi di una di queste, seduto, un bambino, avrà avuto sette- otto anni, guarda una statua muovendo leggermente la testa. Sulle ginocchia ha un foglio sul quale sta disegnando.
                                                                  (1.continua)

 

In foto, uno scorcio dell’Archeologico di Napoli

 

 

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