Torniamo a occuparci della periferia orientale di Napoli. E ci interroghiamo di nuovo sulle sorti dell’ex zona industriale. Per comprendere meglio quale rapporto intercorre fra degrado ambientale, impoverimento economico, subalternità sociale abbiamo rivolto alcune domande a Valerio Caruso, giovane ricercatore napoletano che da tempo studia i fenomeni di quell’importante area della città.
Chi sei?
Sono uno storico. Ho 27 anni e sto compiendo un dottorato in scienze sociali e politiche tra le università di Torino e Firenze. Mi sono occupato in particolare della storia di Napoli est, concentrando i miei studi sul legame che intercorre fra storia ambientale e deindustrializzazione.
Di cosa si è occupato il tuo studio?
Il filo rosso che collega ambiente e industria a Napoli est è la storia dell’urbanistica. Ho esaminato il periodo che va dal Risanamento (anni ’80 del XIX secolo) fino ai giorni nostri. La storia di Napoli est ci dice di un grande disordine urbanistico, che deriva dall’effettiva difficoltà di regolamentare in modo efficace la compresenza di industrie, residenze e infrastrutture, ma sulla carta la pianificazione è stata spesso molto innovativa. Ad esempio, ci sono proposte straordinarie che sono state avanzate a partire dagli anni ‘40 del Novecento, passando per le idee pre e post terremoto. Infine, è molto interessante studiare i progetti elaborati durante il primo periodo bassoliniano, che è stato letteralmente straordinario. Non a caso, costituì un’eccezione dal punto di vista urbanistico sul piano nazionale, perché non sposò quella visione neoliberista che poi si è affermata nell’Italia contemporanea.
Cos’è stata storicamente la Napoli est?
È una commistione unica di realtà urbane compresenti nella stessa zona. Si pensi alla coesistenza di una realtà residenziale estremamente vasta – la sola San Giovanni a Teduccio fa venticinquemila abitanti- con un polo industriale di importanza strategica. In passato, il pianificatore urbanistico doveva avere a che fare con tutte queste realtà e in alcune fasi è intervenuto in modo innovativo. Il problema è che tutte le varie congiunture e eventi storici, che si sedimentano nella seconda metà del Novecento, fanno in modo di disinnescare quella carica innovativa. Il risultato è «la palude» – che è il titolo del mio saggio – vale a dire un luogo in cui un tempo c’erano acquitrini, orti, agricoltura e ora una palude sociale, economica, politica.
Stai ancora realizando un progetto di ricerca su quest’area?
Al momento mi sto concentrando sulle transizioni ecologiche della grande industria. In effetti, è un progetto in stadio embrionale. L’idea è di analizzare i percorsi di transizione ecologica di alcuni grandi stabilimenti del napoletano negli ultimi cinquant’anni per vedere come hanno reagito – soprattutto dal punto di vista tecnico – in ambito ambientale.
Che opinione hai della green economy? Pensi che possa costituire una risorsa per questo territorio?
Sulla green economy si possono dire tante cose e anche contraddittorie. Il termine lo applico a quelle situazioni produttive in cui si fa innovazione sostenibile sui prodotti (manifattura o altro). La questione va vista con uno sguardo molto critico, perché è semplice sfociare nel green washing2 o in strategie di comunicazione portate avanti da direzioni aziendali per giustificare una continuità con il modo di produzione preesistente. Green economy sì, ma integrata con le necessità ambientali e sociali delle zone in cui vengono insediate determinate attività. Bisogna immaginare un’economia che ritorni al territorio e smetta di pensare alla distinzione fra attività economica e l’esterno. Questa è l’insidia più grande da affrontare, soprattutto dal punto di vista culturale, perché è il principale limite di chi fa programmazione economica. Su Napoli est si può andare a riprendere la pianificazione urbanistica disegnata negli anni ‘90. Ad esempio, c’era il progetto di realizzare un enorme parco – il parco del Sebeto – attorno cui dovevano esserci attività produttive (prevalentemente il manifatturiero), ma a stretto contatto col verde, la vivibilità dell’ambiente, la tutela della biodiversità e tutto lo spazio circostante.
Qual è l’identità odierna di Napoli est?
Non ce l’ha o, forse, non l’ha mai avuta. Non mi piace dare etichette e siamo nell’ambito delle speculazioni. È una realtà complessa che si nasconde e cambia in modo labirintico. Attraversando una strada spesso si trova una realtà sociale diversa da quell’altra. Di fatto, Napoli est è un polo infrastrutturale, punto di passaggio obbligato per chiunque abbia intenzione di entrare a Napoli, creando così un importante crocevia di infrastrutture civili e commerciali. È anche una grande realtà residenziale, ma non è un quartiere dormitorio. Ancora oggi, vi è la compresenza di attività informali, difficili da far emergere, che a volte sfociano nell’illegalità. È un territorio che ha una propria autonomia, una propria economia, ma è molto variegata, quindi è difficile caratterizzarla.

San Giovanni a Teduccio. Commistione di spazi residenziali e industriali, perlopiù dismessi, come nel caso delle torri di raffinazione, sullo sfondo. [Photo credit: Valerio Caruso, anno 2017]

La de-industrializzazione ha favorito l’ingresso della camorra?
Sicuramente. Ma non bisogna necessariamente instaurare un rapporto causa-effetto. La camorra già c’era ed era forte anche nel periodo industriale. Spesso veniva utilizzata dalle dirigenze aziendali per dirimere il conflitto, in primis con gli operai. Ora ha cambiato i propri caratteri. Non è più la camorra che picchia, ma fa affari. Su questo argomento, rimando agli importanti studi condotti dalla professoressa Gabriella Gribaudi, molto più esperta di me. Ad ogni modo, le fabbriche erano un forte presidio democratico. Come a Bagnoli e nell’hinterland anche a Napoli est. La fine del periodo industriale ha portato all’accelerazione di alcuni processi, soprattutto se pensiamo ai caratteri dell’industria locale. Napoli est era un comparto dov’era insediata la grandissima industria, ma anche realtà piccole e medie, come il polo conciario, il settore agroalimentare, il tessile, che erano spesso intrecciate al tessuto urbano. Con il lungo processo di de-industrializzazione, l’articolato tessuto sociale che generava ed era generato da queste realtà produttive si è sfilacciato, ed ora è difficile rimetterlo assieme.
Non si può parlare della periferia orientale senza ribadire il ruolo della classe operaia. Cosa pensi del caso Whirpool di via Argine?
Lì le dinamiche più recenti sono molto ambigue. Conosciamo tutti il ruolo delle istituzioni pubbliche, che potremmo definire abbastanza incerto. Il caso della Whirpool ripropone una dinamica strutturale già vissuta a Napoli est, che alcuni definisco «auto-colonizzazione», altri invece chiamano «acefalia decisionale». Le dirigenze non sono qui in loco. Quindi, le prospettive di sviluppo sono molto limitate, perchè dipendono da direzioni site in altri luoghi, da think tank che da un momento all’altro trovano nuove ragioni per liberarsi dai vincoli dei territori. D’altra parte, questo fenomeno è in perfetta continuità con la parabola degli ultimi quarant’anni in Occidente. Questa è la dinamica della globalizzazione e Napoli est non fa eccezione al riguardo, ma qui è anche un carattere strutturale che si rintraccia sin dagli albori dell’industrializzazione. Anche solo costringere alla negoziazione queste grandi multinazionali non è facile. Facciamo i conti con le conseguenze delle ricette neoliberiste applicate al territorio.
Che futuro ti immagini possa avere quest’area della città?
Generalmente, anche per deformazione professionale, sono restio a parlare di futuro. Ma se devo parlare di un futuro possibile, spero che non si tratti di nuovo di un futuro di subordinazione a interessi esterni, che ripropongano le stesse problematiche in salsa nuova con nuove vesti. Penso alla vicenda del deposito GNL a Vigliena, che è la versione potenziata di meccanismi storici dell’area petroli e un modo per tentare di riconfermare la presenza logistica di base qui a Napoli est. Nel futuro che vorrei, mi piacerebbe vedere più integrazione di rete fra associazioni locali, che sono tantissime, fortissime e fanno un lavoro immenso. Ad esempio, come quelle che operano nel Centro polifunzionale, nella biblioteca, nel comitato Civico. Se tutte queste esperienze si mettessero assieme la politica dovrebbe farci i conti.
E dal punto di vista economico?
Napoli est costituisce un’enorme risorsa. È già tutto inscritto nei caratteri di questa zona, non bisogna inventare nulla. È una zona magnifica dal punto di vista ecosistemico, costituisce un capolavoro naturale e paesaggistico che potrebbe essere vissuto dai turisti, immaginando anche un investimento nell’agricoltura sostenibile e nell’orticultura sostenibile, se una buona volta si iniziasse seriamente a bonificare o mettere in sicurezza i siti inquinati. D’altronde, qui c’è un paesaggio che nasconde veri tesori sepolti tra i ruderi industriali e i blocchi di cemento. Sono stato all’ ex Villa Signorini, che potrebbe divenire un centro culturale di primissimo livello. Le vere ricchezze sono nascoste nel territorio. Se si riuscisse a creare una prospettiva di sviluppo in cui gli anelli della catena economica, storicamente considerati più deboli, in questo contesto territoriale – come i beni culturali, il turismo, l’agricoltura – venissero integrati, si potrebbe imprimere una reale svolta a questo territorio. Sembrano discorsi del Settecento, ma in realtà sono aspetti di un’attualità sconvolgente.
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Lo storico Valerio Caruso

NOTE:

1 Consulta anche: https://www.ilmondodisuk.com/la-storia-di-napoli-est-caso-whirpool-una-ferita-aperta-in-periferia-quel-futuro-incerto-per-la-zona-industriale-della-citta/

2 Letteralmente: ecologismo di facciata. Neologismo di orgine inglese che serve a descrivere quel fenomeno attuato da certe imprese, istituzioni politiche o organizzazioni che – tramite una subdola strategia di comunicazione – presentano un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, al fine di distogliere l’opinione pubblica dagli effetti negativi della propria produzione.

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