Il Sud come trampolino di lancio per il sovvertimento violento dell’ordine costituito. Negli anni in cui l’Italia andava, sia pur faticosamente, riunendosi sotto la bandiera di casa Savoia, c’era una convinzione diffusa, quasi una sorta di vangelo cui anarchici e filoborbonici attingevano a piene mani: le regioni del Meridione rurale non aspettavano altro che un segno per appiccare l’incendio alla fragile campagna imposta dal regno piemontese. C’era chi, ovviamente, parlava di contro-rivoluzione, come i fedelissimi di Franceschiello, pronti a tutto pur di riportare il giglio borbonico sul trono di Napoli e chi, come gli internazionalisti, fidavano nell’imminente rivoluzione proletaria scatenata dalle genti di Campania, Basilicata e Calabria per abbattere lo stato borghese.
Da Carlo Pisacane in poi, questo gruppo di intellettuali aveva deciso di puntare tutte le proprie carte sulla voglia di rivalsa delle popolazioni meridionali deluse prima dal malgoverno dei Borbone e poi dai nuovi reali venuti dal Nord. Era da qui, dai contadini del Mezzogiorno che doveva partire la protesta, il sollevamento generale, la tanto auspicata guerra di massa. Dal Sud maltrattato.
Illusioni. Pure e semplici illusioni alimentate dall’opinione comune che un popolo vessato e schiacciato non può fare altro che alzare la testa e impugnare le armi. Illusioni, appunto. Perch poi la storia ci ha insegnato altro. Chiariamo. Non che negli antichi territori del Regno delle Due Sicilie tali fenomeni fossero rari o del tutto assenti. Non andò cos. O meglio: la storia del Brigantaggio è l a raccontarci l’esatto contrario. E’ il significato e la portata che tali episodi assunsero per le sorti del Meridione, da un punto di vista ideologico e organizzativo, a meritare l’attenzione degli storici: non tentativi rivoluzionari tout-court, non chiavi di volta per realizzare il socialismo reale a discapito della societ borghese, bens fiammate violente e improvvise, sommosse brevi e cruente, proteste inconsulte che lo stesso Croce ribattezzò “senza n capo n coda”.
Nel suo libro La Banda del Matese. 1876/1878 – I documenti, le testimonianze, la stampa dell’epoca, edito per i tipi “Galzerano Editore”, Bruno Tomasiello ricostruisce una di quelle jacquerie, forse la più importante: si tratta del tentativo insurrezionale anarchico esploso nell’aprile del 1877 nei comuni di San Lupo, Letino e Gallo. Un vero e proprio blitz militare capeggiato da Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta destinato a spegnersi malamente sui monti del massiccio del Matese.
Si tratta di uno studio, quello di Tomasiello, che va letto dalla prima all’ultima pagina. L’autore, infatti, accanto alla cronaca scarna e precisa di quegli attimi febbrili che coinvolsero l’esistenza di decine e decine di persone, fa riemergere dal buio testimonianze archivistiche e giornalistiche di grande importanza. Fogli, atti e documenti fin qui sconosciuti che contribuiscono, una volta letti ed analizzati, a dare peso e sostanza a uno degli episodi più emblematici della storia del Socialismo italiano.
I fatti sono ambientati nel biennio compreso tra il 1876 e il 1878. Gli anarchici hanno appena concluso il congresso di Firenze-Tosi. Il sogno romantico di una rivoluzione sociale da scatenarsi nei vecchi domini dell’oramai dissolto stato borbonico inizia a prendere forma. Il terreno appare di quelli fertili: le genti del Sud sono stanche, lacere e affamate. Trattate come preda di conquista dai soldati piemontesi non chiedono altro che di passare alla lotta. Gli anarchici vedono e riflettono. Poi tirano le somme: è giunta l’ora di abbandonare la teoria e passare all’azione. Bisogna puntare sul Mezzogiorno. E’ l che il terreno è fertile. Cosa serve? Semplice: un piano d’azione ben congegnato e soprattutto ben diretto. Ci vuole veramente poco per mettere in moto la ruota della rivoluzione destinata ad abbattere lo stato borghese: armi, soldi e capi ben preparati. Questo almeno credono gli insurrezionalisti nell’autunno-inverno del 1876.