In questi ultimi giorni le prolungate ondate di calore, fatte da insopportabili temperature, elevata umidità e mancanza di vento, sono meno intense e ci confermano che, anche questa torrida e a tratti scoppiettante estate, si sta congedando.
Lasciano lo spazio allo spirito dell’autunno caratterizzato da temperature più basse, giornate più corte e un cielo che, sempre più di frequente, si mostra pallido e grigio. Le foglie sono le prime a partecipare a questo passaggio: prima cominciano a perdere turgore, poi si tingono di giallo e di rosso ed infine perdono con la forza il legame con la vita lasciando spogli i rami degli alberi. Ora giacciono come scheletri in balia del vento, in attesa che la terra le cancelli per sempre e custodisca ciò che rimane della loro esistenza.
L’autunno è spesso paragonato a un periodo della vita oggi molto meno amato e rispettato in confronto al passato anche da chi ne è il protagonista: la vecchiaia.
I versi del poeta greco Anacreonte nel VI-V sec. a.C., ironici e determinati, sembrano invitarci a non nascondere l’aspetto fragile e misero della senilità. Sono candide le mie tempie, il capo è calvo. La dolce giovinezza ormai è svanita e devastati sono i denti. Della vita gioiosa ormai mi resta solo il ricordo del suo tempo breve. Spesso mi lamento per la paura degli inferi. Tremendo è l’abisso dell’Ade e inesorabile la sua discesa: per chi è andato giù è destino non risalire[1].
A chi ci fa osservare con realismo che la terza età è un crepuscolo destinato a condurci all’inverno, che per certi aspetti è sinonimo di morte, si potrebbe obiettare che tutta la vita è caratterizzata dall’attesa, un’esperienza che si rivela fondamentale per sviluppare strumenti di interazione da sperimentare con gli altri ma anche da utilizzare per sé stessi.
Nel grande viaggio della vita, per raggiungere le mete alte, non si può indugiare ed aspettare che qualcosa di magico arrivi e cambi d’improvviso la nostra esistenza, ma bisogna costruire con la consapevolezza di saper aspettare. Si tratta di un’attesa silenziosa e attiva che sappia richiamarci a compiti importanti come partecipare ad incontri significativi, che richiedono la capacità di saperli vivere in profondità, o cogliere emozioni che, delicate e fragili, possono essere distrutte per insipienza, conformismo o impulsività.
Alla superficiale frenesia di apparire e di predare, che caratterizza i nostri tempi, l’attesa contrappone un costante lavoro su di sé con lo scopo di coltivare i propri talenti, affinare le proprie competenze, ma anche i propri sentimenti e la capacità di poggiare lo sguardo, complesso ed empatico, su di sé e sul mondo che ci circonda.
L’attesa sembra adattarsi bene all’autunno, un periodo dell’anno caratterizzato da colori tenui e iridescenti, delicati e pacati come il clima che li avvolge.
Eppure la relazione con la vita, minata dalla morte, che produce incertezze e crea inquietudini, compromette questa ricerca e destabilizza la mia attesa. E così, in una torrida sera di fine estate, sento il bisogno di rivolgere lo sguardo in alto per cercare refrigerio nel corpo e nello spirito in uno spazio che diventa tempo.
L’inquinamento luminoso rende difficile scrutare in profondità i corpi celesti le cui deboli luci raccontano tempi troppo lontani. Disteso a terra sul terrazzo riesco invece a perdermi in questa luna piena, lontana solo un secondo, mentre osservo le nuvole in rapido movimento che giocano a nascondino per cercare di schermarla.
Solo tu puoi sentire la mia anima (Only you can hear my soul)[2] ripete la canzone come a dire Solo tu… puoi guarire la mia anima. Una canzone che ho ritrovato nelle pieghe della memoria e che ancora riesce a stregarmi come la prima volta: un racconto struggente ed una narrazione che tormenta e commuove.
Per secoli hai regalato sogni ai desideri e ai sospiri degli uomini che hanno solcato il cielo per raggiungerti. Pure io mi rivolgo a te, che sei così vicina e eppure così lontana, con l’intento di scrutare i segreti che custodisci anche se essendo parte di quel mistero non sono certo di essere in grado di riuscire a coglierlo.
Tu che custodisci una parte dei nostri compagni di viaggio, quegli atomi apparentemente inerti, nati da quell’unica e iniziale stella e che ti affacci su una Terra che gli stessi hanno reso scoppiettante di vita, come superficie riflettente sei diventata musa ispiratrice con cui confrontarsi.
Tu illumini il buio delle notti perché non trattieni la luce che ti arriva, ma sai condividerla senza considerare la natura di chi la riceve. Cerco te, mentre penso a quando con fatica ho elemosinato aiuto e vissuto lo sconforto dell’abbandono, cerco te che hai conosciuto il fuoco della creazione e che vivi il silenzio glaciale di chi non ha voce se non quella di ritrasmettere quanto riceve.
Tu che, con un movimento lento ma continuo, trasmetti la percezione di spazi e tempi che la mia mente non riesce a contenere, mi dai una consapevolezza nuova: le tante cose che mi accompagnano e mi appartengono per un breve lasso di tempo identificate come indispensabili e in realtà inutili.
Come sempre succede gli incontri cambiano i rapporti e trasformano la relazioni. Prima un movimento libero poi l’incontro con la Terra l’attrazione gravitazionale reciproca, la forza del più grande che ha reso te oblunga e causato un progressivo rallentamento del moto e poi la rotazione con l’orbita dei due corpi celesti che si sincronizzano.
Il risultato? La Luna mostra sempre la stessa faccia verso la Terra. Anche le nostre relazioni quando profonde e intense finiscono per costruire una sintonia capace di far vibrare i sensi e fluttuare gli animi, creare un’orbita invisibile e un legame indivisibile, dove il movimento dell’uno si confonde con quello dell’altro. Eppure c’è una parte di noi che, per come si è costruita e si è definita nel corso del tempo, teniamo per noi è la parte che per pudore o discrezione o semplicemente perché impulsiva non mostriamo in nessuna relazione: è l’altra faccia della Luna quella che normalmente nessuno vede.
Quando la morte cancella chi ha condiviso i nostri spazi accade che quell’assordante vuoto venga popolato da dolorosi ricordi; anche quella è la parte misteriosa che ci manca, la porzione che cerchiamo, quella che vorremmo tenere vicino anche senza parole.
Per i miei controlli ospedalieri parto presto. Mi alzo piano, per non far rumore, e, prima di scendere, passo sempre per la cucina per prendere dal tavolo il mio pacchettino di biscotti da mangiare dopo i prelievi. Nella casa vuota non li trovo.
Sento il sibilo del vento squarciare il silenzio di un’alba senza sole. Il tintinnio della pioggia e della grandine sul vetro della porta della cucina annuncia che sta arrivando il freddo dell’inverno.  Mi sgomenta vedere le piante dei vasi scosse dal soffio della tempesta che si curvano e perdono parte della chioma, mi ricordano i rigori del gelo e il passaggio stretto dell’inverno. È un’attesa che ha il sapore dello smarrimento.
 ©Riproduzione riservata
Foto di Carmine Negro

NOTE

[1] Tratto dalle Odi del poeta greco Anacreonte (VI-V sec. a.C.).

[2] https://www.youtube.com/watch?v=EjjqDiyLVPo&list=RDEjjqDiyLVPo&start_radio=1

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