La figura è un campo di battaglia da smantellare. Per un visionario, nato alla fine dell’Ottocento che ha attraversato il secolo successivo, fino all’inizio degli anni ottanta. Anarchico nella sua concezione dell’arte come movimento perpetuo, il catalano Joan Mirò arriva a Napoli con ottanta opere.
Capolavori che appartenevano a un raffinato mercante di moderna creatività, Pierre Matisse, figlio del celebre pittore Henri. E che riempiono ora otto sale al piano terra del Palazzo delle arti Napoli in via dei Mille 60, inanellando il percorso espositivo “Il linguaggio dei segni” ideato dal più grande conoscitore di un autore che, con la sua scintillante ribellione, ha contagiato gli artisti del Novecento, influenzando anche l’espressionismo americano.
Ed è stato proprio lui, il curatore, Robert Lubar Messeri, cresciuto a Brooklyn imparando ad amare il napoletano e ‘a muzzarella, a guidare stamattina in una preziosa anteprima, il sindaco De Magistris, l’assessore alla cultura Daniele e i giornalisti alla scoperta del Mirò partenopeo. Vernissage oggi pomeriggio alle 18.
Salvato dall’asta di Christie’s grazie al Ministero portoghese della cultura che l’ha adottato, il patrimonio che fa gola in special modo per una ventina dei pezzi esposti ai più importanti musei del mondo, speranzosi di averli nella loro collezione permanente, racconta (dal 1924) come Mirò abbia considerato la superficie uno spazio destinato a riempirsi d’iscrizioni e segni.
Così in una lettera a un amico anticipa la propria rivoluzione: «… ritratto di un’affascinate amica parigina… una linea verticale per i seni; uno è a pera che apre e sparge i suoi piccoli semi.. Dall’altro lato, una mela beccata da un uccello… Nell’angolo superiore ci sono delle stelle… Su può a malapena definire un dipinto, ma non me ne frega un accidenti…».
In realtà, anche se non è stato ritrovato nessun lavoro che corrisponda alla descrizione, la ballerina del settembre 1924 ha un corpo ridotto a un asse verticale, la testa è un semicerchio, un punto pronunciato il suo sesso. E’ lei a dare inizio alla danza della decostruzione.
Anche la Fornarina di Raffaello subisce nella sua rilettura un processo di buffa trasformazione, diventando icona ironica, nera e informe.
Interessante la sperimentazione dei collage dove trovano posto oggetti del quotidiano ripescati sulla spiaggia che finiscono anche in una scultura esposta. E particolari gli arazzi che sono arricchiti dalla collaborazione con il tessitore Joseph Royo e da un rituale di attenta distruzione. Sovratessiture bruciate che incorporano secchi, scope e altro: l’azione delle fiamme segue le linee di un’estetica ben chiara nella mente del’artista. Concepite per la mostra del Grand Palais di Parigi del 1974, nate per essere appese al soffitto e fluttuare nel vuoto.
Irriverente, ma poetico Mirò, per la prima volta in una città che ben si sposa con la sua complicata semplificazione dell’arte sviluppata dall’insofferenza per le regole. Una mostra da assaporare con lentezza, che offre una chiave di lettura pure ai bambini grazie a visite guidate e laboratori organizzati da 5 associazione (Arteteca at work, Arcipicchia! Architettura per bambini, Kolibrì, La bottega del liocorno, il cerchio quadrato onlus). Un progetto promosso dall’assessorato alla cultura e al turismo del Comune di Napoli, con il supporto del Ministero della cultura portoghese, il patrocinio dell’ambasciata del Portogallo in Italia e organizzata dalla Fondazione Serralves di Porto con C.O.R. Creare Organizzare Realizzare. Resterà allestito fino al 23 febbraio 2020.
Nelle foto, Mirò, il curatore della mostra e alcune delle opere esposte (la prima, da sinistra, è la ballerina)
Joan Mirò (Barcellona, 20 aprile 1893 – Palma di Maiorca, 25 dicembre 1983)
Il linguaggio dei segni
info e prenotazioni
3341324281 0817958601
info@mostramironapoli.it