Il Mezzogiorno si sveglia in giallo, il colore dell’Italia a 5 Stelle. Il sud vota di pancia e tributa ai grillini un successo da ”cappotto”. E’ più una vittoria dei “malpancisti” che di un progetto di governo delle regioni al di sotto della linea del Garigliano. Il risultato, schiacciante ed evidente, si respirava da prima. Al Senato è già en plein, alla Camera quasi. Le percentuali nei collegi uninominali, comunque, si aggirano attorno al 50%. Se in Italia vincono i populismi, il sud è stato decisivo in tal senso. E’ triste, amaro, ma purtroppo vero.
La prima riflessione è un interrogativo: come mai il M5S, primo partito al sud, non enuncia mai la parola Mezzogiorno? Non vi è traccia nei venti punti (semplificati) per l’Italia, né tantomeno si scorge un titolo nei 24 temi del programma nazionale enucleati sul sito ufficiale. Ancor meno si sono sentiti discorsi sulla questione meridionale in relazione alla sua portata storica e sociale.
Prendiamo ad esempio il lavoro, tra i temi più scottanti in questa parte d’Italia. In nessuna delle 18 proposte analizzate dal M5S è nominato il sud, nemmeno come riferimento. Eppure si spazia dal lavoro autonomo al salario minimo, dal reddito di cittadinanza al recupero delle aziende in crisi, dalle politiche energetiche all’innovazione tecnologica. Nulla sul sud, niente, black out totale.
Probabilmente perché padroneggia la semplificazione, la news sparata nell’immediato, niente spazio per l’inchiesta sociale, nessuno tempo da dedicare alla “pesantezza” dello studio della politica. Sul punto proverei a domandare agli elettori del M5S qual è il programma dei pentastellati per il sud. Sono convinto che uscirebbero più slogan che contenuti.
In secondo luogo è probabile che i cittadini meridionali hanno voluto mandare all’aria i cosiddetti corpi intermedi, innanzitutto partiti e sindacati. Un voto di reazione, quindi, ad una “occupazione impropria” delle istituzioni, una risposta verso un mondo non più rappresentativo di masse, di orizzonti larghi, di pratiche oneste e trasparenti. Un classe politica che aveva ricercato pedissequamente il proprio ceto di riferimento, solo in grado di risolvere il problema sotto casa propria, intento a gratificare l’associazione o il gruppo sociale di riferimento ritenuti più vicini. Questo è quello che è stato spedito a casa, senza possibilità di ritorno. Il M5S ha parlato a questa “pancia”, a persone senza più sogno, passione, speranza. Li dobbiamo provare – devono avere un’opportunità, si sentiva dire. Ritengo per il fallimento degli “altri”, di tutti gli altri, non perché hanno brillato di luce propria.
La terza ipotesi, a mio avviso, è che il M5S al sud incarna più di tutti l’incertezza, la paura, l’ansia sociale che domina nel mondo. Pensieri prevalenti, quest’ultimi, che nel mezzogiorno attecchiscono nei rapporti interpersonali, nelle relazioni umane, nelle contraddizioni sociali. La paura dello straniero, la liturgia omofobica, il femminicidio piuttosto che l’attacco terroristico di esponenti dell’Isis, qui più che altrove accrescono la precarietà di vita, minano l’equilibrato comportamento pubblico e finanche privato della quotidianità dei cittadini-elettori. Ecco, questa è quella che viene chiamata una “rabbiosa spinta antisistema”, ovvero verso quel sistema che ha già visto alla prova gli “altri”, quelli di prima, appunto. Cioè all’indirizzo di chi non ha saputo dare risposte, a chi ha fallito il “suo” mandato di governo.
Il quarto motivo di forza dei 5 Stelle risiede nella comunicazione della politica. Un tempo i partiti tradizionali affrontavano le campagne elettorali a suon di manifesti, di piazze da riempire, di telegiornali “occupati” dai rispettivi leader, dal proselitismo fatto porta a porta, cristiano per cristiano. Oggi tutto si è spostato sugli immancabili social network. E su questo terreno è inutile negare che Casaleggio e Grillo si sono mossi per primi e molto bene, mettendo su un “sistema” che consente a Luigi Di Maio di essere votato da meno di 500 persone quale Presidente del Consiglio indicato. Un “sistema” non controllabile dall’esterno, altamente a-democratico e che svilisce le vocazioni e le propensioni territoriali, che nega l’afflato umano, il contatto, il contraddittorio, la semplice idea che l’elettore sussurrava al politico dentro casa propria.
La virtualità proposta, condita quasi esclusivamente da slogan e congiuntivi, ha premiato i più bravi, quelli che hanno “scassato” il vecchio sistema. Un mondo, questo, che gratifica la comunicazione di un “eterno ed ossessivo presente”, che non è in grado di guardare più indietro, alle radici, alla storia, né tantomeno progettare il futuro, l’orizzonte come prospettiva di vita. Nessuno più fa ricerca, studia le fonti, nessuno più è in grado di analizzare oltre una settimana davanti a sé. E’ proprio questo che il ceto politico meridionale, non una classe dirigente ma appunto un aggregato autoreferenziale, ha fatto per il sud, ha proposto per questo popolo.
Ora bisogna stare attenti affinché i due populismi, la Lega al nord e il M5S al sud, non si saldino per un progetto di governo. In detta ipotesi quest’area del paese sconfinerebbe in una depressione economica e sociale, proporrebbe uno scenario inedito, condito da “pratiche” di pancia e non di testa, da politiche qualunquistiche e con interpretazioni dei fenomeni sociali fuori da ogni schema di riferimento ed estraneo a quegli aggregati di pensiero un tempo distinguibili per famiglie culturali e politiche.
In foto, uno scatto di Flavio Frullio alla Gaiola