Cosa ci consegna, o meglio, ci conferma il Covid-19 in merito all’autonomia differenziata? Il presupposto da cui partire è la innegabilità di un conflitto tra Stato centrale e Regioni in tutto il periodo di “chiusura” dell’Italia, per l’adozione di misure di contenimento contro la diffusione del contagio da Coronavirus. Non solo in termini di scontro istituzionale, ma la materia sanitaria è oggetto di attenzione dell’autorità giudiziaria, con indagini aperte per epidemia colposa a Milano, Brescia, Genova, Arezzo, Firenze, nell’area del Canavese e molto altro ancora.
Alla debolezza del Governo, che sembrava farsi dettare l’agenda delle misure organizzative tanto da Confindustria quanto dai Governatori, è seguita una risposta spaventosamente differenziata tra le Regioni. E quelle del Nord hanno maledettamente condizionato le restanti.
Ma stando al merito il punto politico che qui interessa organizzare è il seguente: cade sotto i colpi dell’avanzare della pandemia la certezza che la sanità del Nord possa reggere in maniera differenziata dal resto dell’Italia. Errori, omissioni, sottovalutazioni, scelte sbagliate e intempestive, impreparazione, si è lacerato il rapporto tra generazioni, è stata minata la coesione sociale e messo in discussione il concetto di comunità. Un terreno che potrà essere recuperato tra anni, ma che al momento ha prodotto distanze, esclusioni, diffidenze.
La sanità differenziata non ha pagato, ha offerto morte. Corpi che reclamano ed ai quali bisogna dare voce, gli invisibili dovranno “dimostrarsi” nella giustizia, in quel nuovo agire umano che dovrà correggere quegli errori.
Si è definitivamente spezzata la previsione costituzionale dell’intesa tra Stato e Regioni per la concessione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (art. 116 Cost.). E’ venuta meno quella fiducia reciproca in tema di potestà legislativa tra i due organi (art. 117 Cost.).
Tuttavia il Covid-19 aiuta a capire, questa volta positivamente, quanto sia stato falso, per decenni, il giudizio di una sanità del Nord di serie A ed una del Sud di serie B. Un concetto che ha fatto registrare il cosiddetto fenomeno della migrazione sanitaria da una parte all’altra, impoverendo ancor più strutture, risorse e professionalità di questa parte del paese, nel nome di un privato issato a “benefattore”, più preparato, snello ed efficiente. Mai bugia fu dimostrata più vera!
L’impianto proposto dalle tre regioni del Nord, sin dagli accordi preliminari del 2018, è quello di un federalismo differenziato che tende a “disallineare” la convergenza tra le Regioni, divaricando, in termini di servizi pubblici la quantità e la qualità delle prestazioni offerte, perché questi dipendono, inevitabilmente, dalla ricchezza territoriale. E poiché quest’ultima è disuguale, le disparità tra Nord e Sud non potrebbero che aumentare. E’ un’equazione scientifica, altro che lamento.
Se è vero che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna chiedono più autonomia per le materie elencate dall’art. 117 Cost, dall’altro, all’esito della stessa, sottrarrebbero dal riparto delle altre Regioni una quota di gettito Irpef e quella derivante eventualmente da altri tributi erariali, facendole maturare sul proprio territorio regionale. A penalizzazione delle restanti aree geografiche.
Come ci dice la Corte dei Conti il residuo fiscale, sulla cui base si fonda la territorializzazione della spesa e del gettito, se applicato introdurrebbe delle pericolose “debolezze” che minerebbero le politiche centrali redistributive, ovvero le scompenserebbero a vantaggio di qualcuno ed a detrimento di altri. In assenza di qualsivoglia meccanismo compensativo, ovvero senza avvertire la necessità di un urgente bisogno di coesione nazionale.
La sanità tanto quanto l’istruzione e la fiscalità non possono e non debbono essere “devolute”, altrimenti si attuerebbe una diversificazione nazionale su indirizzi strategici, si sfalderebbe quella base minima che dovrebbe essere uguale per tutti. L’esigenza di politiche di “territorialità” dovrebbe avvertire la necessità di creare comunità paritarie ed interdipendenti, non produrre asimmetrie che sbilanciano i cittadini di fronte allo Stato.
In discussione non è più l’autonomia differenziata, quindi, ma l’impianto del Titolo V della carta costituzionale. Bisogna puntare al cuore del problema, altrimenti non se ne esce. La battaglia istituzionale non deve basarsi su correttivi parziali, né mettersi in una perenne condizione di inseguire chi decide in questa direzione, bisogna trovare le necessarie forze pronte a ribaltare questa subalternità.
Le comunità locali, le periferie pensanti, quel vasto capitale umano disseminato per i territori del Sud, preparino il terreno per un confronto necessario e fermo, gettino le basi per riarticolare una proposta persuasiva capace di disegnare cosa deve essere il progetto Mezzogiorno.
Anche il presidente della Repubblica deve giocare un ruolo attivo, non limitarsi a dire che le spaccature del paese sono deleterie. Una denuncia che il popolo resistente del Sud sente addosso e segnala da decenni. Basta sermoni senza conseguenze, il Sud ha bisogno di spazi di libertà. Il tempo è adesso.
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